martedì 17 settembre 2013

Terremoti e Borbone



Edifici borbonici del '700 
superano test antisismici

E' il risultato di alcuni studi che hanno riguardato il palazzo del vescovo di Mileto. Grazie alle indagini del Cnr e dell'Università della Calabria è emerso che una delle pareti, realizzate secondo le regole edilizie di circa 200 anni fa, non ha ripercussioni in caso di scosse. Il metodo potrebbe essere applicato per la costruzione di edifici moderni

MILETO (Vibo Valentia) - Gli edifici antisimici costruiti dai Borbone hanno una straordinaria capacità di resistere ai terremoti e la tecnica edilizia usata circa 200 anni fa potrebbe essere applicata agli edifici moderni, garantendone stabilità e sicurezza. Lo dimostra il test antisismico condotto su una parete del palazzo del Vescovo di Mileto (Vibo Valentia), ricostruita fedelmente in laboratorio.
A condurre l’esperimento è stato l’Istituto per la valorizzazione del legno e delle specie arboree del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr-Ivalsa) di San Michele all’Adige (Trento) in collaborazione con l’università della Calabria. La parete è stata ricostruita, come il palazzo del Vescovo di Mileto, seguendo le indicazioni del regolamento edilizio dei Borbone adottato dopo il catastrofico terremoto del 1783, che distrusse gran parte della Calabria meridionale e fece circa 30.000 vittime. 
E’ poco noto, sottolinea il Cnr, ma dopo questo terremoto i Borbone adottarono il primo regolamento antismico d’Europa, circa 200 anni prima delle nostre norme sulla sicurezza degli edifici. Il regolamento, prosegue il Cnr, raccomandava l'utilizzo di una rete di legno nella parete in muratura. L'efficacia del sistema si dimostrò durante i successivi terremoti che colpirono la Calabria. Non ha mai subito danni neanche il palazzo del Vescovo di Mileto. 
Nei test meccanici la parete del palazzo ricostruita in laboratorio ha mostrato un eccellente comportamento antisismico. La ricerca, osserva Ario Ceccotti, direttore di Ivalsa e responsabile scientifico del progetto insieme a Raffaele Zinno, dell’ateneo calabrese, “ha mostrato che un sistema costruttivo ideato a fine Settecento è in grado di resistere a eventi sismici di una certa rilevanza e che questa tecnologia, compiendo i dovuti approfondimenti e adottando sistemi di connessioni innovativi, potrebbe essere applicata a edifici moderni garantendone stabilità e sicurezza”.

mercoledì 04 settembre 2013
Fonte: Il Quitidiano della Calabria


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Le prime leggi antisismiche? 
Borboniche, ovviamente.



Il CNR ha confermato quanto spesso sostenuto anche dal Movimento Neoborbonico: le prime vere ed efficaci leggi e costruzioni antisismiche furono opera dei Borbone... Allegati i link dell'articolo de Il Denaro (lancio Ansa) e link dell'articolo che già pubblicammo nel 2009 a conferma di un altro dei grandi e importanti primati borbonici. Un primato, al contrario di quanto spesso sostiene la storiografia ufficiale, non è mai un caso ed è sempre il frutto dell'armonia tra chi governa e chi è governato. La verità storica vince sempre e... avanza. 



Nella foto i prototipi borbonici del 1783



http://denaro.it/blog/2013/09/04/cnr-le-migliori-norme-antisismiche-sono-borboniche-e-risalgono-al-1783/ 

http://www.neoborbonici.it/portal/index.php?option=com_content&task=view&id=3449&Itemid=99

 Costruzioni antisismiche e New Town? I Borbone già le realizzarono…

Anche in occasione dei frequenti terremoti che colpirono l’antico Regno delle Due Sicilie, i Borbone dimostrarono buone capacità di governo e operarono scelte utili che ancora oggi si potrebbero definire all’avanguardia. Di fatto si trattava della prima legislazione antisismica in Italia. Riportiamo solo qualche esempio.

 [lettera pubblicata su Il Giornale del 17 c.m.] Gennaro De Crescenzo.


Il 5 febbraio del 1783 una violentissima scossa di terremoto aveva colpito l’intero Sud dell’Italia (30.000 le vittime nella sola Calabria) dopo una crisi sismica durata diverse settimane e che aveva causato voragini, inabissamenti di paesi e colline, deviazioni di fiumi e maremoti. Ferdinando IV avviò un programma di soccorso, assistenza e ricostruzione che rappresenta ancora oggi un modello di efficienza. Le popolazioni furono immediatamente alloggiate in baracche; partì un’opera ciclopica di prosciugamenti, bonifiche, ricostruzioni e costruzioni (case, strade, mulini, forni, magazzini). Furono “rilocalizzati” circa trenta centri urbani che sorgevano in aree a rischio e con nuove norme edilizie che prevedevano un sistema di travi riempite che rendevano antisismiche le costruzioni (le “case baraccate”) come antisismici erano i principi urbanistici (edifici di un piano intelaiati in legno e con muri perimetrali compatti, strade regolari e che si incrociavano ad angolo retto, piazze centrali per i mercati, molti spazi aperti). Per la ricostruzione, poi, fu istituita, una Cassa Sacra che incamerò rendite e beni ecclesiastici calabresi con poteri autonomi e con la possibilità di governare direttamente sul territorio e di eliminare lungaggini e danni della burocrazia. Un altro esempio: il violento terremoto che nel 1851 distrusse la città di Melfi e i paesi vicini. Dichiarata l’emergenza, partirono raccolte pubbliche e private di fondi: ogni amministrazione dello stato fece la sua parte economica e una speciale commissione fu nominata dal Re per coordinare gli interventi. Ferdinando II, seguendo la sua consueta volontà di governare direttamente e in prima persona, per otto giorni si recò a visitare i luoghi del disastro con il figlio Francesco e il Ministro per i Lavori Pubblici, provvedendo personalmente per i casi più disperati. In un anno la ricostruzione era già stata completata.  Il 16 dicembre del 1857, poi, un violentissimo terremoto colpì una vasta zona compresa tra  il Vallo di Teggiano e la Basilicata. Duemila i morti solo a Polla. Sempre Ferdinando II, superata la fase dell’assistenza, predispose la costruzione di una nuova città (una sorta di avveniristica “new town”) per trasferirvi i sopravvissuti. Si trattava delle famose “comprese” di Battipaglia: delle vere e proprie colonie agricole in territori per i quali già dal 1855 erano stati avviati interventi di bonifica. Si provvide, allora, alla  “sistemazione delle acque e dei terreni, dai monti fino ai fondi delle valli e ai litorali e coste marine, ai i rimboschimenti e alle arginature, ai consolidamenti delle frane, allo sviluppo della viabilità e al risanamento igienico del suolo mercé la cultura”. Il luogo prescelto era quello della piana del Sele: davanti al complesso abitativo era prevista una larga piazza con aiuole e lungo i lati altri edifici; per consentire una esposizione ottimale ai raggi del sole le misure dei cortili  erano proporzionate a quelle degli stessi edifici; furono realizzati anche una pavimentazione con ciottoli, strade e un canale di irrigazione per il lavaggio del fondo stradale; furono anche costruite cisterne per la raccolta di acqua piovana che, purificata attraverso filtri, veniva resa potabile. Venti, nel complesso, i corpi di fabbrica; ogni abitazione era composta da quattro stanze, due a piano terra e due al primo piano, collegate tra di loro da una scala in legno; muri intermedi univano le “comprese” e formavano dieci cortili che accoglievano anche i servizi igienici e forni per tutta la comunità. Per ogni famiglia, infine, fu prevista l’assegnazione di “5 moggi di terreno di antica misura”. La colonia doveva accogliere 120 famiglie vittime del terremoto: 80 della Basilicata e 40 della Provincia del Principato Citeriore. Dopo l’unificazione italiana cambiarono anche i criteri per l’assegnazione e, come riportato da molte riviste scientifiche del settore, fu abbandonata la legislazione adottata dai Borbone in materia di prevenzione e di assistenza per i terremoti.

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