Stampa di propaganda risorgimentalista raffigurante l'entrata in Napoli di Garibaldi il 7 Settembre 1860.
Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.
La setta rivoluzionaria è riconoscente ai suoi adepti, riconoscenza che non si trova in tutti i sovrani, ed è questa la ragione principale che quella va innanzi, e costoro cadono ad ogni soffio di cattivo vento. I sovrani moderni hanno fatto di più, cioè han premiato i rivoluzionarii credendo farseli amici, ed hanno trascurato, e qualche volta perseguitato gli uomini del diritto antico, i quali resero alle monarchie e all'ordine pubblico segnalati servizii mettendo a cimento i loro averi, la loro libertà e la vita. Il risultato è stato sempre, che i rivoluzionarii si sono serviti della fiducia e protezione sovrana per offendere e distruggere la medesima sovranità. Gli uomini del diritto antico, ridotti senza mezzi e spesso senza credito, nelle crisi sociali sono stati impotenti a salvare i troni e le dinastie. Questa gran verità non si è voluta capire da alcuni sovrani moderni, i quali credono sapienza politica circondarsi di settarii acerrimi nemici della Chiesa cattolica, ch'è base d'ogni diritto. La rivoluzione poi quando può far da sè, dà il buono o mal servito a' sovrani, s'impone al popolo, e regna e governa con leggi draconiane. Che alcuni sovrani abbiano voluto rovinarsi, non vi è da dire; ma quello che ci preme si è che hanno rovinati i popoli, e sconvolto il vivere civile e sociale.
Vi è un'altra non lieve ragione per la quale la rivoluzione va sempre avanti.
Gli uomini del diritto antico, i realisti, quando si mettono a cimento con la setta trionfante, sono trattati con leggi draconiane, perseguitati, carcerati, e fucilati senza misericordia, e senza regolare giudizio: abbiamo su di ciò innumerevoli esempi che comprovano quanto io asserisco. Al contrario, sotto le monarchie, i rivoluzionari sono ben trattati anche quando son puniti. Io che fui Cappellano per otto mesi nell'ergastolo dell'Isola di S. Stefano, posso assicurare, come costa a tutti quelli che visitavano quell'Isola, che i condannati politici erano trattati con tutti i riguardi possibili; le istruzioni che aveano tutti gl'impiegati erano di usare generosità e carità; e noi non lasciavamo lettera morta quelle istruzioni; anzi ci prendevamo qualche libertà che oltrepassava le nostre attribuzioni, sempre con lo scopo di addolcire lo stato di que' prigionieri politici. In quanto a me poi, trascinato dal mio sentimento per gl'infelici, ed atteso il mio carattere di Prete, mi mostrai tanto largo e condiscendente con quei captivi, senza però, badate, mancare al mio dovere di fedeltà, che meritai una sospensione d'impiego per quattro mesi! Il sig. Luigi Settembrini ed il sig. Silvio Spaventa, a cui erano rivolte le mie principali cure, allora ergastolani di S. Stefano, oggi i primi uomini del Governo italiano, potrebbero confermare quanto io asserisco! E il sig. Spaventa, oggi ministro de' lavori pubblici, potrebbe ancora ricordarsi, che dopo il mio ritorno da Gaeta nel 1861, quando io era cercato della polizia, mi presentai a lui qui in Napoli, essendo egli capo di quella polizia, per ottenere un salvacondotto. Ma non avendo avuto la fortuna di essere introdotto nella sua abitazione, l'abbordai alla Riviera di Chiaia mentre montava in carrozza: io appena lo conoscea, tanto era cambiato!
Il sig. Spaventa, dopo che mi conobbe, e mi chiamò per nome, senza ascoltarmi,
diede ordine al cocchiere di sferzare i cavalli: e fu per me un vero miracolo se non rimasi vittima sotto le ruote di quella carrozza! Oh, dissi allora, e costui è quello stesso Spaventa che in S. Stefano umile faceami la corte...! scrivendomi lettere rispettose..!
E si ricordi il sig. Spaventa, che in S. Stefano stava per aver le legnate, come insubordinato ergastolano, sebbene obbliò poi chi lo salvò da quel supplizio infamante.
Scusino i benevoli lettori questa mia digressione, io l'avea, come suol dirsi, proprio sullo stomaco; e quando a nulla valesse, avrebbe però il merito di dimostrare che i rivoluzionarii, stranieri sempre alla riconoscenza, amano chi è con essi nell'offendere e tradire.
Garibaldi, però, tipo rivoluzionario, è di sua natura riconoscente a' servizii che si prestano tanto a lui quanto alla causa che strenuamente propugna: ricompensa largamente i suoi seguaci, come i conquistatori del Medio-Evo. Egli rimunera i suoi adepti con ricchezze quando ne può disporre, con impieghi lucrosi, e con la sua amicizia e protezione. In effetto, appena afferrò il potere, rimunerò tutti quelli che l'aveano aiutato ad occupare il Regno delle Due Sicilie.
Egli creò un novello ministero, confermò D. Liborio ministro dell'interno e polizia, lasciò ne' loro posti i direttori Giacchi e de Cesare, e costoro accettarono il prezzo del tradimento fatto a Francesco II. Alla guerra destinò come ministro Cosenz, già uffiziale napoletano, disertore del 1848, col direttore de Sauget figlio del Generale Roberto; alla giustizia mise Pisanelli cavourriano, alla Polizia, come direttore un tal Giuseppe Arditi, e rimasto Prefetto il Bardari. In seguito Garibaldi divise in due rami la Polizia e l'Interno; alla prima lasciò D. Liborio, al secondo pose Conforti, già emigrato del Regno, e rientrato con l'amnistia accordata dal Re Francesco II. Il ministero degli esteri lo diede a Crispi, allora fuggito dalla Sicilia a causa delle lotte tra rossi e cavourriani. Ministro de' lavori pubblici elesse il marchese Rodolfo d'Afflitto, già borbonico e sottointendente; e così Ciccone all'Istruzione pubblica, Antonio Scialoia già emigrato, alle finanze. Un Pentasuglia, straniero, ebbe la direzione de' telegrafi. Agresti, ch'era stato pure nell'ergastolo di S. Stefano, fu eletto direttore della Dogana. Libertini reggente del Banco di Napoli. Furono poi destinati ambasciatori, il marchese di Bella in Francia, il Dottor Cattaneo in Inghilterra, e Leopardi a Torino.
Per ricompensare il generale Ghio, il quale avea perpetrato il gran tradimento di Sovaria-Mannelli lo fece comandante della Piazza di Napoli. Suo segretario particolare destinò il medico Bertani arrollatore di garibaldini in Toscana etc. etc.
Tutti i benemeriti della rivoluzione, e quelli che aveano lavorato per tradire Francesco II, furono tutti ricompensati da Garibaldi con lucrosi impieghi e grossi stipendi.
Il Ministero garibaldino cominciò a schiccherare decreti, la maggior parte per aver plauso della popolazione, e principalmente dagli stranieri; difatti que' decreti non produssero effetto, o rimasero lettera morta. A' 9 Settembre si decretò che gli atti pubblici s'intitolassero da V. Emmanuele Re d'Italia, e che i suggelli dello Stato avessero lo stemma del Piemonte.
Furono aboliti i passaporti entro l'Italia, e fu questo un ottimo decreto; per la gente onesta e pacifica, l'affare del passaporto era stato indicibilmente molesto; mentre i rivoluzionarii o aveano mezzi di procurarselo, o ne faceano a meno viaggiando impunemente, e congiurando sempre. Fu riconosciuto il debito pubblico. Abolito il giuoco del lotto come immorale, ma dal 1° Gennaio 1861; per que' quattro mesi del 60, era morale! Quel giuoco poi tanto riprovato da' liberali l'abbiamo tutt'ora, anzi si è facilitato, potendosi giuocare per tutte le province d'Italia, trovandosi in tutti i Capiluoghi moltiplicati i Botteghini all'uopo aperti, ed il governo oggi ne tira anche la tassa sopra le vincite. Si decretò che i Castelli fossero consegnati in
perpetuo
alla Guardia nazionale, acciò i baluardi della tirannide diventassero baluardi di libertà.
Quest'altro decreto rimase lettera morta. Si decretò che si togliessero le dogane tra Napoli e Sicilia, e sarebbe stata questa un'ottima disposizione come quella che avrebbe esentati i viaggiatori da tante molestie e giunterie: ma quel decreto rimase pure lettera morta essendosi opposto il fiscale Ministro delle finanze Scialoia, anzi più tardi le franchigie dei porti franchi furono abolite. Si liberarono tutti i pegni al di sotto di tre ducati: si abolirono le spese segrete de' Ministri, mentre costoro scialacquavano segretamente e pubblicamente il danaro de' contribuenti. Tanti altri decreti uscirono fuori, la maggior parte de' quali rimasero nell'obblio; ma il decreto più encomiato si fu la istituzione de' giurati: istituzione ad uso inglese che dura ancora, e che malamente comincia a dar noia all'attuale Governo.
D. Liborio pensò a combinare un Municipio di rivoluzionarii, dapoichè quello che vi era non rispondea all'altezza dei tempi, ed invero che si era mostrato avverso alla rivoluzione: quindi senza tener conto del voto popolare, creò sindaco Andrea Colonna, dodici nuovi eletti e ventiquattro aggiunti nelle Sezioni; rifece pure trenta decurioni.
D. Liborio non senza ragione volle comandante della Piazza il generale Cataldo, egli preparava gli avvenimenti dopo la partenza del Re da Napoli.
Francesco II avea ordinato al Cataldo di custodire i Castelli, di non bombardare e provocare i rivoluzionarii, ma assalito rispondesse secondo le ordinanze. Quel Generale non tenendo conto né degli ordini sovrani, né degli articoli 142 e 145 dell'ordinanze di Piazza, le quali prescrivono che le Fortezze si debbano cedere ne' soli casi di mancanza di viveri, o perché inutilizzate alla resistenza, o per ordine del Re, si decise cederle a Garibaldi senza che costui l'avesse molestato.
Il distinto Colonnello cav. Girolamo de Liguori Comandante il 9° reggimento di Linea, senza attendere ordini dal Sovrano, e non facendo caso in quella eccezionale circostanza delle ordinanze di Piazza si decise raggiungere il grosso dell'esercito che si riuniva in Capua; riunì tutto il suo Reggimento in armi e bagaglio nel quartiere di Castelnuovo, fè sentire a' duci felloni rimasti in Napoli, che lo lasciassero partire con la propria gente. Costoro cercavano intimorirlo, dicendogli che il popolo avrebbe fatto man bassa, e che la esaltazione pubblica gli avrebbe precluso il passo; ed egli rispose: io saprò difendermi, e risponderò fuoco contro fuoco.
Giunta questa minaccia alle orecchie di Garibaldi, dopo un consiglio tenuto, si addivenne a far partire quel valoroso Colonnello ed il suo Reggimento. Ad esempio della fede militare e memoria de' posteri, sappiasi che quel Reggimento a tamburo battente, e bandiere spiegate, traversò Napoli il 7 settembre per recarsi alla Piazza di Capua. Quando vi giunse, il Re comandò al Colonnello de Liguori, quante erano le basse:
il Colonnello non intese, ed il Sovrano ripetè la domanda, alla quale seguì questa memorabile risposta: «Sire! Dal Colonnello all'ultimo soldato sono qui pronti a morire per Vostra Maestà, e per l'onore del tradito suo esercito.»
Imparino i felloni ed i vili come si adempie al proprio dovere, e sia questo solo esempio eterna gloria al Colonnello de Liguori, anatema a' traditori, ed incitamento a' codardi che trovano difficoltà ad ogni piè sospinto.
Questo bello esempio del de Liguori fu seguito dalla guarnigione del Castello del Carmine e di quello dell'Uovo ov'erano otto compagnie del 6° Reggimento di Linea. Le quattro compagnie di questo Reggimento erano di guarnigione al Castel S. Elmo. Il Capitano Bassi sciolse queste quattro compagnie, quando il Governatore Colonnello Garzia se ne fuggì, ed il tenente Colonnello Paternò stava per essere ucciso da' soldati, perché consigliava costoro a cedere alla rivoluzione. In quel Castello stavano per succedere scene di sangue, se non che alcuni uffiziali, ben voluti da' soldati, smorzarono l'ira soldatesca, e consigliarono di ritirarsi tutti in Capua, non avendo mezzi per sostenere un lungo assedio. Quelle quattro compagnie del 6° di linea, ed una di artiglieria, con armi, bagagli e bandiera spiegata scesero in Città, traversarono Toledo con baldanza militare; i rivoluzionarii non fiatavano e li lasciarono dirigersi a Capua.
Il Comandante del Forte dell'Ovo, cavaliere Michele de Torrenteros vedutosi privo della guarnigione regia, perché partite le compagnie del 6° Reggimento, sostituite da Cataldo, con la Guardia Nazionale, deluso nella determinazione di resistere ad ogni costo, chiese istantemente il ritiro, ed avutolo, corse gravi rischi di vita. Fu il de Torrenteros supplito dal Tenente Colonnello Testa, docile ai comandi del Cataldo.
Questi, la sera del 7 settembre, fece riunire il 13° Battaglione Cacciatori nel Quartiere di Pizzofalcone, affinchè il Comitato militare rivoluzionario, preseduto dal sempre distinto Generale Alessandro Nunziante, avesse la via più facile di corrompere i soldati e farli disertare: ma tutti costoro sprezzarono promesse e minacce.
In quel Battaglione erano cinque Capitani affiliati al Comitato preseduto dal Nunziante, ed erano Valentino Zecca, Gaetano Pomarici, Michele Giordano, Giuseppe Huner, e Valentino Ortini. Quest'ultimo Capitano, forse incaricato dal Nunziante, fingendosi ammalato per esentarsi dal Battaglione, assieme ad altri, si era recato a Salerno per prendere conoscenza della truppa ivi accampata, e della posizione de' luoghi, con lo scopo di unirsi al nemico ed opprimere più facilmente i proprii connazionali, e gli stessi suoi compagni d'armi. Quando ritornò da Salerno, non si peritò farsene vanto! I sopra nominati Capitani perché faceano propaganda rivoluzionaria
nel Battaglione furono accusati dagli altri uffiziali al Comandante Golisani, ma costui lasciò impuniti i colpevoli, anzi li avvertì di guardarsi dagli uffiziali accusatori.
Alessandro Nunziante, per mezzo del Capitano Valentino Zecca voleva persuadere tutti gli uffiziali del 13° cacciatori acciò si risolvessero a condurre i soli soldati a Garibaldi, e giurare fedeltà a costui. Tutti si negarono, ad eccezione di quelli che faceano parte del Comitato. Allora si pensò di attirare alla setta il Comandante del Battaglione, il Golisani, il quale non si fece pregar molto, e per salvare le apparenze, mandò o finse di mandare in Capua l'Alfiere Ballo per ottenere il permesso dal Re di consegnare i suoi dipendenti a Garibaldi...! La mattina dell'8 Settembre il Dittatore ordinò che il 13° Cacciatori fosse traslocato al quartiere Ferrandina. Al sentire quell'ordine, i soldati gridarono Viva il Re,
e chiesero di essere condotti a Capua.
Il Golisani, fatto già arnese di setta, a causa dei vantaggi personali a lui promessi da' rivoluzionarii, riunì il Battaglione, e disse che sarebbe difficile condurlo a Capua, che era volere del Re che tutti servissero Garibaldi; e chi si negasse avrebbe il congedo per andarsene alla propria casa. Tutti i soldati si negarono a servire la rivoluzione, e quel Battaglione si sciolse. Alcuni soldati ritornarono alle loro famiglie, ma altri presero la via di Capua e raggiunsero l'esercito. Il 1° Tenente Francesco de Fortis che si trovava con un drappello di soldati del 13° Cacciatori di guardia al Molo, fu ivi abbandonato senza ordini, e senza mandarli né cibaria, né denaro per pagare i soldati, egli supplì a tutto; ed appena conobbe la difezione del proprio Comandante, lasciò quel posto, ed assieme a' suoi dipendenti con nobile divisamente si ritrasse in Capua.
Dal 13° Cacciatori si diedero al nemico il Comandante Golisani, i cinque Capitani faciente parte del Comitato militare rivoluzionario, altri tredici uffiziali, ed il Quartier mastro Ferdinando Ghio (fratello dell'eroe di SovariaMannelli) appropriandosi la Cassa militare del Battaglione.
Il Golisani, sebbene povero di spirito e di corpo, in compenso della sua fellonia fu ritenuto al servizio attivo da' suoi nuovi padroni, mentre tanti giovani uffiziali baldi ecoraggiosi furono mandati a' veterani invalidi in compenso di aver fatto il loro dovere. Anche il Golisani fu poi tolto dal servizio attivo, e gli si diede il terzo della pensione, perché non potè dar conto di certe somme sparite, dal Magazzino delle vesti, e di altri arnesi appartenenti al 13° Cacciatori: così avverossi che «Iddio non paga il sabato..!
Il Generale Santamaria e il Colonnello Dupuy, quest'ultimo tanto beneficato da' Borboni, si presentarono al ministro della guerra garibaldino Cosenz e si sottomisero alla rivoluzione, facendo disertare al nemico tutta la gendarmeria da loro comandata: e si videro poi que' gendarmi con l'uniforme borbonica e la Croce di Savoia in fronte...!
Trentasette Guardie del Corpo seguirono il Re a Capua ed a Gaeta, con l'Esente Luigi Milano, ad onta che gli venne meno la guida del loro Comandante.
Tra que' giovani volenterosi che vollero incorporarsi all'esercito combattente in Capua, e che a compensar e la loro abnegazione e fede furono interrogati d'ordine del Generale in Capo, dal Capitano di Stato Maggiore cavaliere de Torrenteros, in quale arma desiderassero servire, certuni preferirono la Cavalleria, altri la Fanteria della Guardia, ed il solo cav. Rodinò di Migliore rispose: «amo un battaglione Cacciatori e quello che trovasi oggi stesso agli avamposti.» Tale nobilissima domanda fu piacevolmente esaudita, e fu destinato al 9.° Battaglione Cacciatori: furono poi destinati a quel Battaglione de Tommaso, Caracciolo del Sole, e il Marchese Renna, costui si distinse più di tutti.
La bandiera della compagnia delle guardie fu salvata, e gelosamente custodita dal guardia sig. De Maio, la cui condotta e fede, onorerà sicuramente i suoi discendenti, dopo che è morto come tanti altri travagliato materialmente e moralmente dai nostri rigeneratori generosissimi.
Il bellissimo Reggimento Marina acquartierato nella darsena invano aspettava la esecuzione dell'ordine regio per raggiungere l'esercito a Capua, né l'ordine si fece giungere a' soldati, né il Colonnello pensò condurre costoro ove desiderassero essere condotti. Trascrivo qui quello che dice il Capitano dello Stato Maggiore Tommaso Cava nella Difesa nazionale napoletana,
pag. IX, il quale ne dovea saper più di me, e quel che dice è conforme a quanto altri hanno scritto: «Francesco Nunziante Colonnello del Reggimento Marina al 1860, soddisfece i suoi immensi debiti verso la dinastia dei Borboni, seguendo le orme di suo fratello Alessandro. Il suo Reggimento che si accorse della sua equivoca condotta si ammutinò contro di lui il mattino degli otto settembre 1860, mentre Garibaldi era già in Napoli.
Di animo meschino, andò a pitoccare protezione ed appoggio presso il Generale Bartolo Marra, il quale avea preceduto lui nel comando di quel Reggimento, e giustamente contava sul rispetto dei suoi antichi dipendenti verso di lui. Questi si propose di ripresentarlo a quei soldati onde riabilitarlo; ma combattuto il Nunziante dal timor panico che la sua nera ingratitudine gl'infondeva, e delle promesse date sopra la sua acquiescenza al partito della rivoluzione, non accettò l'offerta.
Il Generale Marra si recò nel Quartiere della Marina, ed arringò que' soldati dai quali fu bene accolto e festeggiato. Immediatamente dopo di lui, si spedì loro il ben noto Padre Gavazzi coll'incarico di sovvertirli a favore della rivoluzione, per lo che il Reggimento summentovato immediatamente si sbandò, non già per seguire le istigazioni di quel rinnegato, ma perché quella fida soldatesca comprese che soltanto in quella guisa poteva allora svincolarsi dalle vessazioni di coloro che volevano disonorarla; e si sbandò per raggiungere il proprio Esercito sui campi del Volturno e del Garigliano. In fatti, pochi di essi chiesero un nuovo fucile per gloriosamente combattere a favore del proprio Sovrano, e per salvare l'onor militare di quell'Esercito a cui appartenevano.
Liberato il Nunziante della presenza dei suoi dipendenti, domandò il dovuto compenso della sua fellonia, e gli fu dato il comando del Reggimento Veterani, dove tuttavia si trova, (Cava scriveva nel 1863) ma da pertichino però, poichè nel 1862
egli passò in secondo posto per cedere il comando al Generale de Benedictis, il quale ha meritata la preferenza pei servizi resi da lui più energici e molto più vantaggiosi di quelli del Nunziante.»
È da notarsi che il Capitano Cava scrive senza rancore circa la distinta famiglia Nunziante; difatti da de' meritati elogi all'attuale Marchese, il giovane Vito Nunziante, al fratello di costui Riccardo, ed allo zio Antonino Comandante dell'8° Cacciatori; anzi a quest'ultimo giustamente lo difende pel consiglio di guerra subìto in Gaeta.
In quanto a me poi, avrei desiderato che il sig. Francesco Nunziante figlio di un illustre e prode Generale, benemerito della Patria e dei Borboni, avesse imitata la bellissima condotta del suo collega Colonnello Girolamo de Liguori Comandante il 9° Reggimento di linea; e l'avrei desiderato non solo acciò il Nunziante avesse fatto onore al bel nome che porta, ma ancora perché avrei soddisfatto un mio desiderio, cioè di lodarlo meritevolmente.
Il sig. Colonnello Francesco Nunziante, a quanto io sappia, detesta oggi la sua abberrazione del 1860; ciò lo riabilita nell'opinione di molti. Ma la storia è inesorabile anche verso i colpevoli di un giorno: essa s'impossessa dei fatti compiuti, e li tramanda alla posterità ad onta del pentimento di coloro che li compirono.
La vera storia - vergin di servo encomio - e di codardo oltraggio - sorvolando sugli umani riguardi, o encomia, o scaglia la folgore..!
Il celebre generale Lord Tommaso Fairfax si rivoltò contro il suo Sovrano, Carlo I d'Inghilterra, e si unì col dittatore Cronwell ai danni del proprio Re; tutti e due condussero quello sventurato Principe al patibolo! Fairfax si pentì poi, e per riparare il malfatto, coadiuvò il Generale Monk per la restaurazione di Carlo II, figlio della sua vittima: in seguito si ritirò dalla vita pubblica. La inesorabile storia, mentre encomia la riparazione fatta da Fairfax, non tralascia però di condannar costui alla esecrazione de' posteri per la condotta tenuta contro il suo Re Carlo I.
Gli allievi militari di Maddaloni, la maggior parte fuggirono a Gaeta il dì 8 settembre ove tutti fecero il loro dovere, e sebbene giovanetti molti si distinsero.
Il Capitano Vincenzo Nini del 1° granatieri della Guardia Reale, trovandosi sul campo di Capodichino con un distaccamento di 149 individui di truppa di diversi Corpi, e 2 uffiziali, cioè il tenente Meula, e l'alfiere Fortunato addetti alla costruzione del Tempio votivo, il 7 Settembre non ebbe alcuno avviso di ritirarsi. Però quel Capitano conosciuta la partenza del Re, e l'arrivo di Garibaldi a Napoli, mandò a Capua l'Alfiere Fortunato per avere ordini precisi, il Ritucci gli ordinò di raggiungere il resto dell'esercito; ed il Nini ubbidì subito conducendo con sè la sua gente con armi, bagagli e munizioni di guerra.
Il Tenente Colonnello comm. Antonio Ulloa che trovavasi a Torre dell'Annunziata, affittò un convoglio della strada ferrata per condurre i suoi soldati a Capua, ma le mene de' settarii e l'opposizione di un certo Carabelli beneficato da' Borboni, gl'impedirono di avere quel convoglio. Nondimeno l'Ulloa non si perdè d'animo, anzi spiegò tanta energia quanto ne richiedeva la sua difficile posizione.
Il 7 settembre richiamò da Scafati le tre compagnie de' Granatieri della Guardia, gli armieri ed i doganieri; trasse da quella fabbrica di Scafati armi e strumenti di guerra che poteano essere utili all'esercito, e consegnò la fabbrica al Primo eletto del Comune.
Dopo che riunì con difficoltà tutti i suoi dipendenti sobillati da' settarii, ad eccezione di pochissimi uffiziali felloni, volse a piedi risoluto a Capua ove condusse i suoi volenterosi dipendenti. L'Ulloa, ufficiale superiore di molta e svariata istruzione, divenne direttore del Ministero di Guerra e Generale dippoi.
Anche la guarnigione di Castellammare il 7 settembre si ritirò a Capua, e lasciò alla guardia Nazionale il Cantiere.
Restava nella Provincia di Napoli il forte di Baia: il Maggiore Giacomo Livrea che lo comandava, sprezzò lusinghe e minacce, e non volle cederlo a' rivoluzionarii, ad onta che avesse per guarnigione 145 artiglieri invalidi, ed un gran deposito di polvere mal custodita, si espose a tutti i pericoli; difatti subì un semi-assedio; ma tenne lodevolmente fermo.
Nella ritirata della truppa a Capua, si abbandonarono oltre i tesori di moneta sonante e la fortuna peculiare del Re, non pochi magazzini di arnesi militari, parte si abbandonarono per la fretta, parte per incuria di chi ne avea la consegna, e parte per lasciarli al nemico, e metterlo nella comoda posizione di usarli a danno dell'esercito riunito sul Volturno.
(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).