sabato 7 aprile 2012
La sfida al modernismo nell’enciclica Pascendi
Nell’analisi della Pascendi Dominici Gregis (1907), l’enciclica antimodernistica di San Pio X, Samek Lodovici mette in luce gli aspetti di attualità del documento magisteriale, la sua eccezionale carica teoretica e, di converso, il dogmatismo insito nel modernismo. Perché il giudizio degli storici non può qualificare il valore dell’enciclica.
[Da AA.VV., Cultura, scuola e società nel cattolicesimo lombardo del primo Novecento, Atti del convegno di studio, Brescia, 24-25 novembre 1979, Ce.Doc., Brescia, 1981, pp. 173-181]
Il mio intervento sarà piuttosto atipico rispetto agli interventi che ml hanno preceduto e, presumibilmente, rispetto a quelli che mi seguiranno. Vale a dire che non sarà tecnicamente storico, a meno che per storia non si intenda quella di cui parla il grande storico dell’età vittoriana, Litton Strachey, il quale dice, se ben ricordo, che l’ignoranza è il requisito dello storico; solo grazie a questa ignoranza egli può parlare, perche seleziona grazie alla sua ignoranza ciò che gli fa comodo fra l’enorme cumulo di materiale prodotto dalla storia.
Dopo questa dichiarazione di voto, passo a spiegare il titolo della mia comunicazione perché ha una dose di ambiguità. «Sfida al modernismo nell’enciclica Pascendi». Di quale modernismo intendo parlare? La mia intenzione ê far vedere come e possibile cogliere, dall’enciclica Pascendi, alcuni criteri di interpretazione di tutti i tipi di modernismo. Si può subito vedere la possibile obiezione al mio discorso: «modernismo» è una categoria troppo vasta, essendo i modernismi, o le posizioni moderniste, estremamente frastagliate. Ma, naturalmente, parlare per categorie ha la sua utilità. In fisica, per esempio, si usano concetti come «vuoto assoluto»; in termologia come «zero assoluto». Hanno, questi concetti, anche se il vuoto assoluto non è mai realizzabile sperimentalmente, il loro valore. Come il suo valore ha per esempio, parlare di ragione, o di idealismo, oppure di scientismo. Naturalmente ha valore proprio per individuare alcuni elementi.
Devo anche indicare un elemento che mi permette di parlare qui tra voi. Il titolo di questo convegno ê «Cultura, scuola e società». Io parto dal presupposto che anche un’enciclica sia cultura, fino a prova contraria. Ora intendo far vedere come l’enciclica Pascendi almeno in due punti (ma ce ne sono altri), sia assolutamente moderna, perché è in grado di parlare e di individuare temi di estrema rilevanza speculativa. Per far questo leggerò due punti dell’enciclica che mi permetteranno di fare alcune brevissime considerazioni, sperando di essere chiaro.
Il primo punto che leggerò, è il punto in cui l’autore dell’enciclica [che sia Pio X o che siano altri che hanno suggerito e che poi Pio X ha assunto per proprio è un problema irrilevante], prende a tema il concetto di dogma nel modernismo che, secondo me, è il concetto di dogma di tutti i tipi di modernismo. Lo leggo e poi lo commento. Purtroppo non esiste una traduzione sufficientemente adeguata dell’enciclica; la traduzione che ora leggerò è una traduzione d’epoca, ma piuttosto carente. Ecco il passo che m’interessa: «A conoscere però bene la natura del dogma, bisogna ricercare innanzitutto quale relazione passi fra le formule religiose ed il sentimento religioso; nel che non troverà difficoltà chi tenga fermo che il fine di tali formule altro non è se non di dar modo al credente di rendersi ragione della propria fede». Fin qui quindi l’interpretazione che l’enciclica dà del valore delle formule nel modernismo mi sembra sia un’interpretazione quanto mai accettabile dal punto di vista dell’ortodossia. Il dogma è il modo con cui il credente rende ragione a se stesso della propria fede. Però l’enciclica continua: «Per la qual cosa esse formule stanno come di mezzo fra il credente e la fede di lui. Per rapporto alla fede sono espressioni inadeguate del suo oggetto, e sono dai modernisti chiamate ‘simboli’; per rapporto al credente si riducono a meri strumenti». Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che le formule dogmatiche hanno due caratteristiche fondamentali per il modernismo come categoria. La prima caratteristica ê quella di essere «simboli» rispetto a ciò che esse formule vogliono dire. Prendiamo una formula normale: Dio è persona. «Dio è persona» è simbolo rispetto alla verità che indica. Simbolizzare vuol dire indicare qualcosa, «stare per» qualcosa d’altro. Poi, aggiunge ancora l’enciclica, le formule hanno un altro valore: sono strumenti riguardo al credente, strumenti attraverso i quali quello esprime la sua fede. Quanto invece all’oggetto della fede le formule dogmatiche sono puri simboli.
Continua a questo punto l’enciclica: «Non è lecito pertanto in nessun modo sostenere che essi esprimano una verità assoluta. Come simboli sono immagini di verità [cioè a dire: non sono verità], e perciò da doversi attaccare al sentimento religioso... Come strumenti sono veicoli di verità, e perciò da adattarsi a loro volta all’uomo...». Provo a riassumere questo discorso. La formula dogmatica ha, rispetto all’oggetto, una funzione di pura indicazione: non tocca l’oggetto; ha una relazione con l’oggetto ma non lo tocca, è un’immagine dell’oggetto. Per quanto riguarda invece il soggetto, questa formula è uno strumento. Vi è però un inciso estremamente importante in questa dichiarazione dell’enciclica, che me la rende assolutamente attuale. Dove sta questo inciso? Là dove dice che questo simbolo, che rispetto all’oggetto non ha un valore se non indicativo, non «morde» assolutamente nell’oggetto, questo simbolo è sempre in relazione al soggetto, è sempre in funzione del soggetto. Ora, vorrei far vedere come questo aspetto sia estremamente importante per individuare uno di quelli che io ritengo i più gravi errori teoretici della teologia moderna. E qui qualcuno potrà subito vedere che non mi interessa tanto il riferimento ad autori contemporanei dell’enciclica quanto far vedere come la carica teoretica dell’enciclica possa valere adesso; mi interessa, in ultima analisi, il carattere paradossalmente moderno di una enciclica contro il modernismo.
Dove sta il carattere assolutamente moderno di un’enciclica di questo tipo? Sta nel dire: badate che il grande rischio di una posizione che parla delle formule dogmatiche come puri simboli, è quella di sostituire alla relazione all’oggetto che la formula dovrebbe avere — e che qui sembra avere — la mia relazione alla formula. Vediamo di far vedere come questo sia possibile. Se al posto di dire «Dio è persona», come una formula che tocca in qualche modo qualche cosa al di là di essa, e cioè Dio, sotto forma di un tu, un tu avente una consistenza, se al posto di quella formula riferita ad un oggetto io dico la stessa formula ma non più riferita all’oggetto bensì al soggetto, vuol dire che tutte le volte che dico «Dio è persona» non faccio altro che dire che io credo che Dio è persona. Cioè sostituisco alla relazione che la formula ha all’oggetto, la mia relazione di soggetto alla formula.
Proviamo un attimo a vedere questo rovesciamento con qualche esempio, perche è molto importante vederne le applicazioni nel mondo cattolico. Proviamo a prendere una frase qualunque. Quando io dico, per esempio, «nella vita religiosa quello che conta è Dio». Proviamo a vedere come questo termine «Dio» può improvvisamente e progressivamente sparire e sostituirsi ad esso la relazione che il soggetto ha a questo termine. Quando alla frase «nella vita religiosa quello che conta è Dio», sostituisco la frase «nella vita religiosa quello che conta è l’esperienza di Dio» che cosa avviene? Avviene che il termine «Dio» comincia ad avere un senso soltanto se è legato e riferito a un termine antropologico come «esperienza di Dio». Ma poi la progressiva sparizione del termine può continuare. Come quando dico «nella vita religiosa quello che conta è l’esperienza della fede». Oppure quando vado a un livello successivo, e dico «nella vita religiosa quello che conta è l’esperienza di cooperazione».
A un certo momento al posto della formula «Dio» in cui vi è un contenuto significativo di possibile confutazione, viene sostituita la mia relazione a questa formula. Badate che cosa avviene. Avviene che il valore di assolutezza della parola Dio, viene contenuto ormai nella formula antropologica, nella «esperienza di cooperazione». Vogliamo avere un esempio di questo, alla portata dell’esperienza pratica di tutti? Credo che a molti possa capitare, o sia capitato, di sentire in chiesa un canto di questo tipo: «Ubi charitas et amor ibi Deus est» - «Laddove c’è carità e amore, lì c’è Dio». Il significato sottile che può essere colto in questo canto è che, in quanto vi è carità e amore, allora c’è Dio. C’è una citazione di Buonaiuti, perfettamente calzante rispetto a questo atteggiamento: che cosa è l’Eucarestia? Il fatto che noi siamo insieme. Ma allora vuol dire che il senso della formula come riferita a un oggetto altro da me è perduto: rimane il fatto che noi crediamo a quella formula, rimane il fatto che noi poi siamo insieme: e quel termine antropologico viene caricato di valori divini.
Questo processo, di cui il modernismo indicato dall’enciclica è soltanto un momento, una stazione, è cominciato con Feuerbach e continua oggi. C’è una citazione, a mio avviso molto .agghiacciante, di Karl Rahner, che rende perfettamente questo tipo di discorso; cioè quando la formula dogmatica [in questo caso la Resurrezione] viene sostituita con una formula antropologica. Mi permetto semplicemente di leggerlo. Si trova nel IX volume degli scritti di Teologia; ripeto ancora una volta che il mio intervento non ê storico, e di questo mi scuso. Ma l’avevo indicato all’inizio.
Nel IX volume degli scritti a p. 551, K. R. si chiede che cosa vuol dire il mistero della risurrezione, il fatto che Cristo è risorto. E dice: «Per spiegarlo potremmo tranquillamente cominciare come la cristologia anteriore a Paolo e a Giovanni: con l’uomo Gesù di Nazareth. Noi dovremmo, in partenza, parlare ad esempio della sua resurrezione in modo tale che essa (anche se miracolo in assoluto) subito fosse intesa come la manifestazione della nostra propria assoluta autoafferrnazione nata dalla grazia. Sicché al limite non possa essere fraintesa [la resurrezione di Gesù di Nazareth, sottinteso] come ritorno miracoloso di un morto nel nostro ambito di esistenza».
Che cosa vuol dire per Rahner che Gesù Cristo è risorto? Vuol dire che noi siamo pieni di grazia; cioè vuol dire che, invece di dire qualcosa riferentesi ad un oggetto, io ho una relazione a questo qualcosa detto. La formula dogmatica non si riferisce più a un oggetto, ma indica soltanto ed esclusivamente la mia relazione, la relazione che io ho con quella formula.
Prendiamo il secondo aspetto di attualità dell’enciclica. Laddove l’enciclica parla del modernista credente e si chiede su che cosa il modernista credente basa la sua affermazione di Dio. Anticipo immediatamente la conclusione del passo dell‘enciclica, perché è un po’ difficoltosa; la traduzione, soprattutto, è un po' un mostro di subordinate. La risposta che dà l’enciclica alla questione su che cosa il modernista basi la propria affermazione di Dio riposa su un concetto di esperienza religiosa originaria e in qualche modo nativa, fontale.
Ecco il testo: «Che se poi cerchiamo qual fondamento abbia tale asserzione [sottinteso, dell’esistenza di Dio, nel credente] i modernisti rispondono: l’esperienza individuale. Ma nel dir ciò, se si differenziano dai razionalisti [che negano in questo caso l’esistenza di Dio], cadono nell’opinione dei protestanti e dei pseudo mistici. Cosi infatti essi discorrono [l’enciclica sta riportando la posizione generale come denominátore comune dei modernisti]. Nel sentimento religioso si deve riconoscere quasi una certa intuizione del cuore, la quale mette l’uomo in contatto immediato con la realtà stessa di Dio e gli infonde una tale persuasione della esistenza di lui e della sua azione, sì dentro, sì fuori dell’uomo, da sorpassare di gran lunga ogni convincimento scientifico. Asseriscono pertanto una vera esperienza e tale da vincere qualsivoglia esperienza razionale... Ora, questa esperienza, quando alcuno l’abbia conseguita, è quella che lo costituisce propriamente e veramente credente».
Dopo aver riportato questa posizione, l’enciclica fa l’obiezione. L’obiezione può essere riassumibile così: se il fondamento dell’esistenza di Dio si basa su una esperienza originaria e fontale, un’esperienza religiosa originaria e fontale, con determinate caratteristiche (adorazione, senso di indegnità, ecc.), allora noi dobbiamo dire che laddove vi sia un’esperienza religiosa di questo tipo vi sarà una religione vera. E quindi se noi fondiamo la verità della religione sulla base della pura esperienza religiosa, se noi fondiamo la verità di una religione storica sulla base di queste caratteristiche di una esperienza religiosa originaria, non sarà più possibile dire quale religione è vera; perché tutte saranno vere. Il che è lo stesso che dire tutte saranno false. Ora leggo l’enciclica e poi traggo le conclusioni da questo punto di vista, che è, dal punto di vista della intelligenza dell’enciclica, una individuazione eccezionale di un criterio che oggi, in sede scientifica, è estremamente attuale e cioè del criterio, perché qualche tesi sia considerata vera, che possa essere sottoposta a falsificazione.
«Qui giova subito notare che, posta questa dottrina dell’esperienza unitamente all’altra del simbolismo [di cui si è parlato precedentemente], ogni religione, sia pur quella degli idolatri, deve ritenersi vera». Se il fondamento della verità è l’esperienza, con le caratteristiche tipiche della individualità, autenticità dell’esperienza, «ogni religione, sia pur quella degli idolatri, sarà vera».
Perché non dovrebbe essere possibile che tali esperienze si incontrino in ogni religione? Quale sarà il criterio di verità o di falsità delle religioni, se essa dipenderà dall’esperienza? Perché negare, per esempio, che l’islamismo o l’induismo o anche una ideologia non possano essere veri, se il loro criterio di verità è che siano esperiti, che siano sentiti? È chiaro che l’enciclica vuole sottolineare in modo sottile una cosa: che non è possibile fare dell’esperienza religiosa il criterio di verità di qualcosa. Poiché non si può prescindere dal fatto che questa esperienza si deve tradurre in una formula dogmatica. Questo vuol dire esattamente che se io non indico come questa mia esperienza religiosa si esprima con una formula, è come se io avessi un orologio che mi ticchetta ma senza lancette: ho questa esperienza, ma non so che cosa mi dice questa esperienza. Togliete le lancette, l’orologio funziona, ma certamente non dice, non è significativo.
Perché questo aspetto individuato dall’enciclica è di enorme importanza? perché ci permette di vedere da che parte stia il dogmatismo. Io credo che tutti i presenti sappiano che fa parte delle cose che si affermano ex communiter dictis parlare della Pascendi negativamente, dicendo: non è altro che un digest, una sorta di condensato di dogmatismo, di repressione. Ora, a mio avviso, la dimostrazione tipica di dove stia il dogmatismo sta riflettendo intorno a ciò che stiamo dicendo. E mi spiego perché. Se io dico che il criterio della verità è l’esperienza, un’esperienza che non deve mai tradursi in una dichiarazione precisa qui e adesso, una dichiarazione per esempio del tipo «Dio è persona» (formula dogmatica), allora che cosa avviene? Che da una parte certamente questa esperienza religiosa non potrà mai essere confutata; ma dall’altra non si potrà assolutamente dire che questa esperienza religiosa sia vera. Perché qualche cosa sia vero, e possa essere quindi oggetto di discussione, bisogna che questo qualche cosa venga posto e sia indicato chiaramente come qualcosa su cui possa vertere la discussione. Ma se io evito sempre di esprimere con una dichiarazione o proposizione chiara quello che dico, è dalla mia parte che sta il dogmatismo, perché non potrà mai essere confutato non accettando mai la possibilità di una verifica. Faccio un esempio riprendendolo da K. Popper che in questo momento è il suggeritone occulto del mio argomentare: immaginiamo che io dica questa frase «esiste una formula latina in grado di curare tutte le malattie infettive». Se dico questa frase, dico certamente una cosa che non può essere confutata, perché non ê possibile sottoporre a esperienza tutte le possibili formule latine. Ma con questo, la mia frase pur essendo inconfutabile, non sarà per questo vera, non sarà un contenuto su cui sarà possibile un giudizio di verità e falsità. E dunque, allora, solo chi rischia la propria esperienza religiosa in formule dogmatiche, solo questi ê colui che è disponibile alla discussione e alla confutazione; non chi non la rischia in formule dogmatiche, chi afferma che esiste una sorta di esperienza religiosa originaria mai traducibile in proposizioni aventi un significato preciso.
Alla relazione di Emanuele Samek Lodovici seguono alcuni interventi. Per completezza di informazione forniamo una sintesi di quelli più significativi e attinenti al tema trattato da Samek (NdC).
Nel primo intervento, di Massimo Marcocchi dell’Università di Pavia, si osserva che «il giudizio degli storici sulla Pascendi è più articolato (e più profondo) di quanto non emerga dall’intervento di Samek Lodovici. Gli storici dicono che la Pascendi ha fatto del modernismo un sistema, incompatibile con la fede cattolica, mentre il modernismo, come ha rilevato lo stesso Samek Lodovici, è stato un fenomeno molto frastagliato e variegato, e non riducibile a sistema. La Pascendi, insomma, per la preoccupazione pastorale di dare una definizione dottrinale del modernismo, ha presentato il movimento come un blocco monolitico, conferendogli una omogeneità che non aveva mai avuto, ed ha pronunciato una condanna globale, senza distinguere tra le posizioni di coloro che avevano operato per la riforma della chiesa nell’alveo della tradizione e gli atteggiamenti di coloro che erano scivolati in eccessi o nell’eresia. Il fatto è che la Pascendi si muove entro una prospettiva filosofico-teologica, che è diversa dalla prospettiva squisitamente storica» (pp. 181-182).
Samek Lodovici al contrario «ha proposto una lettura in chiave filosofica dell’enciclica, ma sarebbe auspicabile una lettura anche in chiave storica, che individui i redatori della Pascendi e ponga in luce il loro orientamento filosofico e teologico, esamini e confronti le redazioni attraverso le quali è passato il testo, valuti le correzioni e il loro significato» (p. 182).
L’intervento si conclude lamentando che «purtroppo ad una ricerca del genere […] frappone un serio ostacolo la chiusura dell’Archivio Vaticano (consultabile fino al 1903)» (ibidem).
Giorgio Rumi, dell’Università Statale di Milano, trova invece che il modernismo, «nonostante i molti sforzi e i significativi risultati raggiunti» (p. 184), attenda ancora di essere adeguatamente studiato nelle sue implicazioni sociali e politiche. Inoltre, sempre secondo Rumi, «forse, solo il trascorrere del tempo darà serenità alla ricerca ed al giudizio, fuori delle ricorrenti tentazioni dell’una e dell’altra apologetica. La prospettiva processuale non paga in termini di duraturo avanzamento della storiografia. Gli studi sull’età del fascismo sono lì a dimostrare valore e significato di questa lenta opera di decantazione» (ibid.).
Segue infine la replica finale di Samek Lodovici.
Replica del prof. Samek Lodovici
Ringrazio l’amico Rumi per avermi interpretato, anche se penso che la migliore interpretazione sia una autointerpretazione. Ora vorrei rispondere ai due interventi, che ritengo interessanti perché mi costringono ad alcune precisazioni. Li riassumo perché proprio per questo possa diventare chiaro dove eventualmente li distinguo.
Chi è intervenuto ha detto che il modernismo non è un sistema. I modernisti — sempre ammettendo che la categoria valga (ma su questo ml pare che il problema non sussista, perché sul tema della categoria non è stato fatto problema) — i modernisti si distinguono l’uno dall’altro, sono figure storiche, evidentemente, con destini privati irripetibili e di conseguenza difficilmente sovrapponibili l’uno con l’altro. Quindi chi è intervenuto ha poi aggiunto: «non è vero che noi storici diciamo che la Pascendi è una raccolta, una sorta di antologia di dogmatismo». Io penso che questo sia solo parzialmente esatto. Come modesto lettore di storia del modernismo, mi trovo di fronte ad autori come il Poulat, oppure come il Martina, che non dicono esattamente «la Pascendi è una digest di dogmatismo», ma fanno capire, leggendo fra le righe, che ci troviamo di fronte a una sorta di reazione pavloviana di fronte a un fenomeno culturale complesso e inafferrabile come il modernismo e perciò non eccessivamente meditata. Però ritengo che questo tipo di obiezione non sia ancora quella che mi interessa. Credo che quella interessante che è emersa, sia questa: a noi piacerebbe sapere chi ha collaborato alla stesura della Pascendi; se è stato il cardinale Billot, oppure il padre redentorista di cui si parlava, ecc. Perché, si sottintende, se noi conosciamo la genesi del documento possiamo qualificarne il valore e, eventualmente, sapere qual è la scuola teologica che ne è stata la base. Ora, io ritengo che questo tipo di posizione esprima perfettamente la posizione dello storico, ma non quella del filosofo. E mi spiego per quale ragione. Dire che per capire il valore di un asserto bisogna percorrerne la genesi storica, significa non tener presente che un fatto può avere una genesi, ma il valore di quel fatto non dipende dalla genesi che ha avuto. Farò un esempio molto banale; tutti sanno che, per esempio, nella posizione freudiana si dice che Dio sorge nella coscienza attraverso l’immagine del padre. (Questo è probabilissimo; è probabilissimo, per esempio, che io sia passato per l’immagine di Dio, attraverso il rapporto che ho con mio padre: la oblatività di mio padre, l’autorità di mio padre, la gratificazione che può dare a me come figlio, ecc. Quindi è possibilissimo che io, bambino, arrivi all’idea di Dio attraverso il rapporto con mio padre. Ma questo non vuoi dire affatto che l’idea di Dio dipenda dal rapporto che io ho con mo padre; vuol dire semplicemente che io non posso arrivare a Dio se non attraverso, umanamente, quel tipo di rapporto. Ma non vuol dire che il valore di Dio dipende dalla mia storia privata. Un altro esempio molto banale fatto da un grande storico delle religioni come Mircea Eliade: gli egizi avevano un problema, quello della irrigazione della valle del Nilo. Per irrigare la valle del Nilo applicarono i teoremi della geometria; ma questo non vuol dire affatto che il valore dei teoremi della geometria dipende dal bisogno degli egizi di irrigare la valle del Nilo. Il valore dei teoremi rimane del tutto indipendente dalla genesi con cui essi sono stati trovati.
A proposito del secondo intervento. Io ritengo che sia estremamente interessante, sul piano storico, vedere concretamente come questi singoli autori dell’età del modernismo siano stati eventualmente colpiti sul piano, per esempio, della pratica pastorale dall’autorità di Pio X: questo è un problema storico. Ma, ripeto ancora, il problema storico non è il valore dell’enciclica; si tratta di sapere se l’enciclica dice cose vere e se colpisce errori veri. Faccio un esempio molto molto semplice: chi legge Loisy e legge l’enciclica, può trovare perfettamente che l’enciclica non sta sparando sopra un bersaglio. Ancora sul secondo intervento: certamente il problema della coscienza, dell’autorità, sono tutti problemi che sono di grande interesse per uno storico; si cercherà allora, appunto, di storicizzare certi eventuali errori pastorali. Ma il mio problema di fondo è un altro; e cioè di sapere se l’enciclica sia acuta, se individui — indipendentemente dal fatto che poi non vi fossero persone che esprimevano quegli errori in modo completo — degli errori, e se quelli sono errori. Questa è la risposta, o meglio, questa è la domanda. È molto interessante, secondo me, il riferimento a Gentile. Si dice a proposito di Gentile e del modernismo: «anche da sinistra mi fa piacere che sia detto ‘da sinistra’] il modernismo è stato accusato». Questo è molto interessante perché in realtà — e qui sarebbe interessante andare a vedere come — Gentile accusa il modernismo non perché, secondo il solito corto circuito che fanno normalmente — questa sia una prova in più della retrodatezza o della inerzia della enciclica, come se si dicesse: «Guardate, perfino Gentile è d’accordo con l’enciclica per dare addosso al modernismo». In realtà Gentile critica il modernismo per una ragione ben diversa: perché vede nei modernisti quelli che usurpano quello che lui vuol fare in filosofia; perché quello che i modernisti fanno in religione è esattamente il suo programma in filosofia. Perché? Lo spiego subito. Quale è il valore del dogma per un modernista? Nel modernista tipo il valore del dogma è quello di uno strumento dialettico che il sentimento religioso originario pone di fronte a sé per negarlo. È come se io mi mettessi di fronte un ostacolo solo per oltrepassarlo. Come voi sapete, è lo stesso rapporto che la luce ha con gli oggetti: la luce non può illuminare se non ha di fronte degli oggetti; appunto perché la luce possa essere tale bisogna che illumini qualcosa come diverso da sé e lo ponga di fronte a sé. E questa è la posizione esatta che Gentile vuole in filosofia quando vede nei sistemi filosofici delle opposizioni dialettiche di un atto che si fa continuamente. Rispetto alla filosofia della prassi marxista dove l’oggetto è qualcosa che vien fatto, nell’attualismo gentiliano, l’oggetto è posto perché sia il soggetto a farsi; il soggetto si fa attraverso la negazione degli oggetti. Il sentimento religioso — ecco la traduzione in termini modernistici — vive attraverso la successiva opposizione e negazione delle formule dogmatiche.
Questa credo che sia una cosa molto interessante: poter vedere [e in queste considerazioni non sono minimamente originale perché altri le hanno già fatte come Augusto Del Noce o Vittorio Mathieu] l’estrema somiglianza tra il modernismo e il gentilianesimo e quindi l’impossibilità di quegli argomenti anti-Pascendi che suonano: «guardate, persino Gentile ha dato contro al modernismo. Dunque, allora...».
C’è un ultimo punto del secondo intervento che era molto interessante. La mia posizione, si dice, avrebbe questo limite che io suppongo che le definizioni dogmatiche bastino a se stesse. lo credo che non sia questa la posizione dell’enciclica e non è certamente la mia. Quando mai la Chiesa anche la Chiesa di Pio X, ha mai potuto pensare che la finalità della fede sia quella di porre le formule dogmatiche? Una cosa è dire ‘tutto, eccetto Dio, è mezzo e solo Dio è ultimo fine’, e un’altra cosa è dire ‘le formule non servono’.
di Emanuele Samek Lodovici