lunedì 16 aprile 2012
Negata la libertà di istruzione
di Angela Pellicciari
Fin dall’Unità i governanti liberali anteposero la scuola di Stato a quella privata.
[Da "La Padania", 8 settembre 2001]
Nell’Italia di inizio millennio è ancora diffusa una mentalità che vede nella scuola di Stato un bene assoluto da difendere e che considera la scuola privata con disprezzo. Per dirla con l’ex ministro Tullio De Mauro: "Non possiamo dare troppa fiducia ai genitori e agli insegnanti nel creare la riforma, perché sono realtà immature: dobbiamo quindi governare la riforma dal centro" (il Manifesto, 15 gennaio 1997).
Come si fa in nome della libertà e della giustizia negare ai genitori il sacrosanto diritto di scegliere per i propri figli la scuola che si considera migliore? L’avversione alla scuola libera (di cui la libertà d’insegnamento è un pallido sostituto), quella specie di tabù che circonda ancora oggi la scuola privata, nasce in Italia circa centocinquanta anni fa con lo stato unitario. L’élite anticattolica che guida il Risorgimento è convinta di saperla più lunga di tutti, e i governanti liberali pensano che sia arrivato il momento di farla finita con la superstizione cattolica: le nuove generazioni devono essere educate nel rispetto della scienza, non della fede. Per questo decidono ed impongono - assieme a tutte le altre - la soppressione delle comunità religiose dedite all’insegnamento.
Ecco cosa scrive l’Ufficio di Statistica del Regno d’Italia nel resoconto della Istruzione primaria e secondaria data da corporazioni religiose. Anno scolastico 1863-1864: "È mestiere concludere che le corporazioni religiose insegnanti hanno finito il loro tempo. Qualunque siano i loro meriti antichi, oggidì sono esse colpite da decadenza intellettuale". Sviluppando logicamente le premesse contenute in questa valutazione, l’Istituto trae le seguenti conclusioni: "Per quanto riguarda gli ordini religiosi addetti all’insegnamento, il timore che l’abolizione di essi abbia a nuocere all’istruzione, è vano".
Consapevoli di essere portatori di una civiltà nuova, convinti di essere gli uomini del destino, disprezzando il patrimonio culturale italiano cui contrappongono una cieca ammirazione per la cultura d’importazione, i liberali sono convinti che per far trionfare il regno della felicità e della libertà cui aspirano, sia necessario sopprimere la libertà di quanti non la pensano come loro: i cattolici per l’appunto. Cioè la stragrande maggioranza della popolazione. E così molti uomini di stato e di governo (le teste pensanti della nazione autoconvincentesi di essere tale), in nome dei princìpi di libertà e senza minimmente accorgersi della pur stridente contraddizione, impongono il proprio punto di vista assolutamente minoritario nella cui bontà ripongono fede cieca. Il Bollettino del Grande Oriente della Massoneria in Italia dei primissimi anni successivi all’unità esemplifica in modo perfetto questa convinzione degli uomini di governo liberali: "La setta [con questo nome la Massoneria designa la Chiesa cattolica] chiede, per mezzo dei suoi aderenti, la libertà dell’insegnamento. E noi gliela rifiutiamo. A noi interessa che l’educazione della nostra gioventù resti, per quanto possibile, in nostra mano".
Libertà di coscienza, libertà di stampa, libertà di culto: nessuna libertà di insegnamento. La contraddizione, vistosa, appare tale agli occhi dei soli "profani". Il filosofo Bernardo Spaventa - uno dei più illustri esponenti dell’emigrazione italiana in Piemonte - e l’avvocato Giuseppe Mazzini spiegano con chiarezza in che senso libertà e mancanza di libertà siano perfettamente compatibili. Scrive Spaventa: "Noi certo vogliamo la libertà in tutto e per tutto, ma l’applicazione assoluta di questo principio suppone l’eguaglianza di tutte le condizioni. Considerando la questione in modo assoluto, noi vogliamo la libertà d’insegnamento; ma giudichiamo che per essere attuata essa abbisogni di alcune condizioni generali, richieste dallo stesso principio d’uguaglianza e di libertà, le quali ora non si trovano nel nostro paese".
Mazzini è più esplicito del "fratello" filosofo. Ecco cosa scrive nel 1861: "Questa dell’educazione nazionale è una questione vitale. La teorica invalsa nelle nostre file della libertà d’insegnamento e non altro , fu grido di guerra giusto e utile contro un monopolio d’educazione fidato ad Autorità rappresentanti il principio feudale e cattolico avverso da lungo al Progresso e incapace di dirigere le manifestazioni della vita nell’individuo e nell’Umanità. E anc’oggi dovunque importa rovesciare quella falsa autorità e riconquistare alla società il diritto di fondarne un’altra che sia espressione dell’Epoca nuova, noi ci appiglieremmo a quel grido. Ma ordinata la Nazione a libera vita sotto l’ispirazione di una fede che abbia a propria insegna la parola Progresso, il problema è mutato. La Nazione è un insieme di principii, di credenze e d’aspirazioni verso un fine comune accettato come base di fratellanza dalla immensa maggioranza dei cittadini. Concedere a ogni cittadino il diritto di comunicare agli altri il proprio programma e contendere alla Nazione il dovere di trasmettere il suo è contraddizione inintellegibile per chi vuole l’Unità Nazionale".
Mazzini - che come d’abitodune scambia il suo pensiero per quello della "immensa maggioranza dei cittadini" - prosegue col mettere in guardia dalla cattiva influenza che i padri hanno sui figli: "Gli uomini che avversano il principio dell’Educazione Nazionale in nome dell’indipendenza dell’individuo non s’avvedono ch’essi sottraggono il fanciullo all’insegnamento dei suoi fratelli per darne l’anima e l’indipendenza all’arbitrio tirannico d’un solo individuo, il padre". I liberali attribuiscono a se stessi la libertà di fare tutto ciò che vogliono. Libertà di insegnamento? No. Il liberalismo dell’Ottocento è una perfetta forma di totalitarismo. Un totalitarismo d’élite.