giovedì 23 luglio 2015

Lo Scisma d’Oriente: gli eretici scismatici Ortodossi ed Orientali


Lo Scisma d'Oriente e la verità sugli eretici scismatici Ortodossi ed Orientali
 
Lo scisma del Patriarcato di Costantinopoli e di tutte le “chiese” slave e melkite è differente dai precedenti: nacque da un desiderio d’indipendenza, come gli scismi caldeo e armeno, però da un desiderio che, fin da principio e per forza di cose, prende un tono d’opposizione molto marcata alla Sede romana, e si complica con divergenze dogmatiche e disciplinari già prima della rottura definitiva.
All’origine si tratta d’un conflitto di predominio tra l’antica Roma e Costantinopoli, nuova Roma, scelta come capitale da Costantino (330). A questo titolo il vescovo di Costantinopoli nel concilio del 381 esige per il suo seggio un primato d’onore immediatamente dopo quello di Roma, e gli venne accordato dal terzo canone del concilio.
L’imperatore Teo­dosio I (388-395) si stabilisce a Costantinopoli; alla sua morte l’impero si divide in impero d’Occidente e impero d’Oriente, e Costantinopoli diviene la residen­za stabile dell’imperatore d’Oriente. Questo non fa che accrescere le pretese del vescovo che al concilio di Calcedonia ottiene non soltanto la conferma del suo posto d’onore, ma un’effettiva giurisdizione sulle diocesi (circoscrizioni civili) di Tracia, d’Asia, del Ponto, e sui vicini paesi di missione. Questo canone (28 e ultimo) fu adottato a Calcedonia dopo la partenza dei legati romani e non fu mai riconosciuto dal papato.
Invece a Costantinopoli si cominciò a poco a poco ad ammettere la seguente pericolosa interpretazione, che in germe contiene tutto lo scisma bizantino: giuridicamente il vescovo di Costantinopoli ha sul suo patriarcato un’autorità assoluta e incontrollata, ma onorificamente viene dopo il papa di Roma, il quale anche lui esercita un’autorità assoluta su altri territori, cioè sull’Occidente.
Ma non sarebbe esatto attribuire ad un solo fattore, l’ambizione dei patriarchi orientali, lo stato di tensione tra le due Chiese che pian piano determinò la separazione. Bisogna aggiungere la diversità del genio latino da quello greco­orientale; la diversa mentalità teologica; la politica degli imperatori d’Oriente, i quali, non vedendo di buon occhio che la Chiesa del loro impero dipendesse da un’autorità straniera, appoggiavano e anche stimolavano le pretese e le ambizioni del patriarca di Costantinopoli; soprattutto la eccessiva ingerenza degli stessi nelle questioni ecclesiastiche da cui ebbero origine i lunghi scismi di Acacio, dei monoteliti, degli iconoclasti che rallentarono e ruppero le relazioni tra le due Chiese, tanto che dal 343 all’858 si possono contare duecentosedici anni di separazione tra Roma e Costantinopoli.
Nell’858 l’imperatore di Costantinopoli fece esiliare il patriarca Ignazio e salire Fozio sulla sede della capitale. Il nuovo patriarca annunciò, per averne l’approvazione, la sua nomina al papa Nicolò I, il quale mandò a Costantinopoli per fare un’inchiesta, non per partecipare al concilio. Malgrado tutto Fozio radunò, sotto la presidenza dell’imperatore, un sinodo che pronuncia la deposizione d’Ignazio (861). Nicolò I risponde condannando il concilio e deponendo Fozio (862), che però resta al suo posto e lancia, contro il papa un triplice attacco: prima di tutto lo accusa di eresia sulla processione dello Spirito Santo, poi di aver violato la giurisdizione di Costantinopoli sulla Bulgaria (veramente la questione bulgara fu quella che propriamente determinò la rottura, durata quattro anni, di Fozio con la sede di Roma); infine un violento attacco contro alcuni usi liturgici e disciplinari latini. Tutte queste accuse sono svolte in una lettera che egli manda agli arcivescovi d’Oriente nell’867; però nello stesso anno un nuovo imperatore manda in esilio Fozio e un solenne concilio, raccolto in Santa Sofìa di Costantinopoli alla presenza dei legati della Santa Sede, ristabilisce Ignazio nei suoi diritti (869-870). Morto questi, Fozio è rieletto patriarca e stavolta con l’approvazione del papa Giovanni VIII. Quando muo­re, nell’891 si trova nuovamente in esilio ad opera dell’imperatore Leone VI, senza però essere stato deposto dalla sua sede da Roma.
Dopo questo primo scandalo l’unione fu ristabilita e si conservò a stento fin verso il 1025-30. Durante questo periodo si dimenticarono completamente le questioni sollevate da Fozio. Se vi furono delle rotture esse avvennero per altri motivi. Così quando M. Cerulario salì alla sede di Costantinopoli (25 marzo 1043) le relazioni con Roma erano sospese da molti anni. Il papato attraversava allora il periodo più triste della sua storia. I papi non facevano che passare sul seggio apostolico, eletti e deposti o assassinati dalle fazioni. Dal 901 al 1059 si contano una quarantina di papi di fronte a quindici patriarchi di Costantinopoli. Al principio del patriarcato di M. Ceru­lario, la situazione della Chiesa romana è lacrimevole.
Nel 1044 ci sono due papi; nel 1045 se ne hanno tre; nel 1046 l’imperatore tedesco Enrico III fa de­porre i tre papi esistenti e li sostituisce con Clemente II (lo studio approfondito della vicenda è molto utile per capire bene in cosa consiste il periodo di sede vacante, anche in presenza di uno o più “papi”).
M. Cerulario non rup­pe dunque relazioni, che di fatto non esistevano più da lungo tempo, ma fece fallire il tentativo di riprenderle, in occasione di un progetto di alleanza poli­tica tra il Papa e il « basileus » contro i Normanni dell’Italia meridionale. Per riuscirvi, riaprì la polemica contro i riti e gli usi latini, che Fozio aveva inau­gurata. Per suo ordine tutte le chiese latine della città furono chiuse. Poi fece lanciare da Leone di Ocrida un insolente manifesto contro altri usi latini.
Il Papa Leone IX inviò una delegazione a Costantinopoli con a capo il Card. Umberto. Fu ben accolta dall’imperatore bramoso di venire ad un’intesa; ma tra il veemente e focoso Cardinal-Legato (che difendeva la) supremazia della Santa Sede e l’astuto e orgoglioso patriarca, un intendimento non era possi­bile. Alla fine i Legati, stanchi di aspettare, (deposero) sull’altare della Santa Sofia la bolla in cui venne scomunicato il patriarca Mi­chele (il 16 luglio 1054), atto gravissimo viste le sue conseguenze. Michele ri­spose scomunicando i Legati. Al ritorno a Roma, Umberto e i suoi compagni trovarono il Papa morto già dal 19 aprile e la Sede ancor vacante. Ma la loro sentenza fu universalmente accolta. Da quel momento lo scisma tra le due Chiese era un fatto compiuto.
Tutte le “chiese” dipendenti dal patriarca di Costantinopoli furono senz’altro trascinate nello scisma, e i patriarchi melkiti d’Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, che gravitavano più attorno a Costantinopoli che a Roma, si abituarono a seguire quella a spese di questa. Il Pa­triarca di Costantinopoli rivendicò per sé anche una vera giurisdizione sugli altri patriarchi d’Oriente, almeno nel senso d’un diritto d’intervento negli affari straordinari per opporsi così pienamente alla Chiesa di Roma, la quale ai suoi occhi era solo più la Chiesa d’Occidente. Le pretese venivano appoggiate dal­l’imperatore bizantino, che aveva tutto l’interesse ad assicurare un posto senza pari alla Chiesa di Costantinopoli, che teneva completamente sotto la sua tutela.
Ma gli avvenimenti dei tempi moderni dovevano dare una crudele smen­tita a questa ambizione. La caduta dell’impero romano d’Oriente (1453) diminuì singolarmente il prestigio del patriarcato; più tardi, e fino ai nostri giorni, la creazione di nuovi stati spinse il desiderio del clero e dei fedeli a costituirsi in “chiese” indipendenti (viene definitivamente meno l’Unità). Il patriarca di Costantinopoli spesso cedette soltanto con­trovoglia.
Il metropolita di Mosca fu il primo che ottenne da lui l’elevazione della sua “chiesa” al grado di patriarcato (1589). Più tardi l’imperatore russo Pietro il Grande soppresse tale dignità per sostituirla con un santo sinodo. Il patriar­cato venne ricostituito con la caduta zarista del 1917. La “chiesa” russa subì poi violente persecuzioni da parte dei bolscevichi e il novello patriarca Tychon, morto nel 1925, fu sostituito nel suo titolo da un successore solo nel 1943, quando le circostanze della guerra richiesero un atteggiamento più duttile del regime verso l’episcopato. Tutti i dissidi religiosi interni dovettero piegarsi davanti all’autorità del patriarca ufficialmente riconosciuto, che attualmente si sforza di ricondurre alla sua autorità i russi emigrati, e di estendere a poco a poco il suo influsso sulle “chiese” degli stati satelliti dell’U.R.S.S., le quali verreb­bero a perdere l’indipendenza che erano riuscite a ottenere da Costantinopoli (anno 1953, data dell’opera usata).
I raggruppamenti delle “chiese” bizantine, come le altre orientali, hanno accettato di incontrarsi con le “chiese” protestanti. Nel 1922 il patriarca di Costan­tinopoli e altri capi delle “chiese” bizantine al suo seguito, riconobbero la vali­dità delle ordinazioni anglicane, spesso presero parte a cerimonie protestanti, inviarono delegati alle conferenze unioniste, ma in diverse di queste riunioni delegati ortodossi dichiararono che essi non intendevano deflettere dalla loro posizione dogmatica tradizionale, che è quella dei primi sette concili ecume­nici (questo sostengono loro).
L’evoluzione dell’ecclesiologia bizan­tina si può delineare nelle seguenti proposizioni. La “chiesa” di Costantinopoli non volle mai isolarsi completamente da quella di Roma e le avrebbe lasciato il primato di onore “se il papato se ne fosse accontentato”; però sopportò sempre meno facilmente l’intervento giurisdi­zionale del papa nei suoi affari, considerando la sede patriarcale giudicabile unicamente da un concilio ecumenico (negando di fatto alcuni dogmi).
A poco a poco i teologi e canonisti bizantini finirono con lo stabilire che l’organizzazione costitutiva della Chiesa era legata precisamente alla divisione territoriale in patriarcati indipendenti gli uni dagli altri (teoria della « pentar­chia »), spartizione determinata successivamente dai concili ecumenici di Nicea (325, c. 6), di Costantinopoli (381, c. 3) di Calcedonia, (45, c. 28), che fissavano egualmente il primato di onore dei patriarchi.
La teoria dell’autorità di Costantinopoli su tutto l’Oriente cedette alla teoria moderna delle «autocefalie». I patriarcati primitivi s’erano smembrati e, in Oriente, dopo il secolo nono non si era più riunito nessun concilio ecumenico; si ammise che un patriarca concedesse l’autocefalia assoluta a una parte del suo gregge, conservando soltanto un primato d’onore di fronte al capo della nuova “chiesa”, che a sua volta avrebbe potuto accordare l’autocefalia alla stessa condizione. Il capo d’una “chiesa” indipendente può egualmente accordare la semplice autonomia. Un nuovo concilio generale dovrebbe (secondo loro) naturalmente pronunciarsi su tutta l’organizzazione ecclesiastica esistente.
Cosa sostengono? Il  concilio ecumenico non avrebbe soltanto l’autorità di dirimere i conflitti esistenti tra “chiese indipendenti”, di costituire autocefalie, o di giudicare i capi di “chiesa”, ma avrebbe anche un’autorità dogmatica e sarebbe infallibile nelle sue decisioni. La vera fede sarebbe quella dei primi sette concili ecumenici. I concili dell’861 e dell’879-880, essendo molto meno simpatici ai teologi separati non bizantini, generalmente sono passati nel silenzio. La Chiesa di Cristo sarebbe una per l’unità di fede e la sottomissione al fondatore e capo invisibile; sarebbe apostolica per la successione regolare della sua gerarchia, che risale agli apostoli; sarebbe santa per i suoi mezzi di salvezza, i sacramenti e per i meriti dei suoi membri; sarebbe catto­lica precisamente per la sua ripartizione in un così grande numero di “chiese” diverse attraverso tutto il mondo.
Confutazione. Quest’ecclesiologia bizantina parte da false premesse e cioè l’interpretazione dei canoni conciliari nel senso d’una giurisdizione territoriale esclusiva e incontrollata. Si è precisata in due tappe: prima fu la teoria della giurisdizione territoriale che esclude ogni altra giurisdizione, però è ancora riconosciuto l’intervento del Papa negli affari straordinari (secondo i concetti cari all’oriente) anche al di fuori d’ogni concilio. Fozio si sforzò d’orien­tare questo intervento in suo favore, e vi si oppose più sul terreno delle persone e dei fatti che del diritto. Ma sotto Michele Cerulario e i successori questa interpretazione arbitraria doveva sfociare nell’affermazione d’una completa indipendenza, con un processo che mostra da solo la falsità delle sue affermazioni.
Bisogna mettersi sul terreno del diritto divino. È Cristo che diede alla sede di Pietro e dei suoi successori un potere assoluto e universale. Non si può parlare di vera unità della Chiesa di Cristo, senza la presenza d’un capo visibile, unico e infallibile. Senza questo capo un concilio ecumenico non conclude nulla, come dimostrarono la storia del basso Medioevo e un progetto di riunione d’un concilio generale delle “chiese” separate del 1925; invece con tale capo il concilio generale può diventare una realtà ricca e vivente.
Il monofisismo. Anche il monofisismo uscì da una teologia di scuola, e fu una reazione contro il nestorianesimo. Nella considera­zione di Cristo, la scuola d’Alessandria è attratta prima di tutto dal lato divino; l’incarnazione è l’opera dello stesso Verbo, secondo la formula di San Cirillo alessandrino: «Una è la fisi del Verbo incarnato». Cirillo si pone sul terreno dell’avversario e qui intende la parola fisi egualmente nel senso di una natu­ra completa e sussistente; nel 433 rinunciò a questa formula che si prestava all’equivoco e accettò l’espressione delle due fisi nel Cristo, indicando con la parola natura semplicemente le due forme reali che l’analisi distingue nella persona del Verbo incarnato. Quest’espressione fu consacrata dal Concilio di Calcedonia nel 451: «Un solo e medesimo’ Cristo, Figlio, Signore, Unigenito da riconoscersi in due nature, senza confusione, senza mutazione, senza divi­sione, senza separazione». I partigiani rigidi della dottrina di San Cirillo si ribellarono, e tra loro ci sono anche dei patriarchi: ad Antiochia l’ultimo della serie è Severo, e ad Alessandria Timoteo II, deposti l’uno nel 518 e l’altro nel 548. Tutti e due aiutarono l’organizzazione d’una gerarchia dissidente e la costituzione delle “chiese” monofisite, (siriaca e copta) i cui patriarchi hanno conti­nuato fino ai nostri giorni. Infatti si tratta realmente di vere “chiese” monofisite, non solo scismatiche cioè ribelli per malcontento o insubordinazione, ma eretiche per lo meno nel­l’espressione della loro dottrina. Severo d’Antiochia infatti le aveva dato questo sistema: Cristo è composto di due nature, ma non ebbe due nature, che in lui ne formano una sola, egli «è disceso dal cielo, ha preso un corpo reale dal corpo della Vergine e non ha subito nessun cambiamento in ciò che egli era». Vi sono due categorie di opere compiute da Cristo, ma unica l’operazione e unica la volontà. Siamo di fronte a un monofisismo verbale, che volontariamente si allontana dalle definizioni di Calcedonia. Anche l’Armenia aderì al monofisismo per spirito d’opposizione a questo concilio, al quale non aveva potuto mandare delegati. La “chiesa” d’Etiopia poi, fondata da quella d’Egitto, quando si trattò di fare la scelta tra le due gerar­chie alessandrine, si legò al patriarcato copto e ai suoi errori. Cirillo d’Alessandria e Severo d’Antiochia rimasero sempre i grandi dottori riconosciuti dalle “chiese” monofisite. Teologi e intellet­tuali laici continuarono ad esaltare in libelli la «loro» dottrina dell’unica natu­ra di Cristo. Come i nestoriani, ma in un senso opposto, essi rimangono vittime dei pregiudizi di scuola.  (…) Se fossero sormontati gli altri ostacoli all’unione, bisognerebbe mostrare loro che la definizione di Calcedonia è la formula teologica più adeguata, che spiega tutti questi testi liturgici; bisognerebbe aggiungere, per quelli che ancora polemizzano, che lo stesso Cirillo alessandrino rese possibile questa definizione, accettando l’espressione delle due nature di Cristo, e che seguire fino in fondo l’esempio del glorioso dottore significa non regredire, ma progredire.
La questione del Filioque. Tra le ricchezze della teologia cattolica c’è quella d’aver saputo penetrare fino alla vita intima della Santissima Trinità, per studiare le relazioni esistenti fra le tre divine persone, relazioni che spiega­no così bene il legame tra la conoscenza e l’amore nell’ordine della grazia e la creazione della nostra anima a immagine di Dio. Si capisce che la teologia della Trinità, più ancora di quella dell’incar­nazione, è il risultato di tentativi e sforzi laboriosi, specialmente riguardo alla terza persona, lo Spirito Santo, per il quale i testi scritturali sono relativamente poco numerosi. La “chiesa” di Costantinopoli si urtò con quella latina riguardo alla proces­sione dello Spirito Santo non ammettendo che Egli proceda dal Figlio. Bisogna comprendere la posizione logica e storica del problema: la controversia dappri­ma restava sopra una questione di parole, e l’attacco non partì dai bizantini. (…) I Padri latini generalmente dicevano che lo  Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio, invece i Padri greci, specialmente San Basilio, dicevano abitualmente che lo Spirito Santo procede dal Padre per il Figlio, usando una formula del resto che era servita anche a Tertulliano e Sant’Ilario. Mentre i latini insistevano di più sul compito comune del Padre e del Figlio nella produzione dell’Amore sostanziale, i Greci volevano poi vedere che il principio da cui parte tutta la vita trinitaria è il Padre. (…) Dal punto di vista storico l’attacco partì dall’occidente. Pare che fosse già preparato in un sinodo tenuto nel 767 a Gentilly, presso Parigi, del quale si sono perduti gli atti, ma scoppiò quando giunsero in Gallia gli atti del concilio ecumenico del 787. La professione di fede del patriarca Tarasio conteneva l’espressione greca tradizionale: Lo Spi­rito Santo procede dal Padre per il Figlio. Carlomagno accolse assai mala­mente gli atti a causa della loro teoria sulle immagini, contro la quale fece redigere i famosi Libri Carolini, i quali di passaggio notano pure la formula della processione dello Spirito Santo, che Carlomagno trovò almeno singolare. Papa Adriano I prese la difesa dei bizantini. Tuttavia Carlomagno approvò che s’aggiungesse il termine Filioque alla formula qui a Padre procedit del sim­bolo cantato nella messa, termine che gli spagnoli usavano fin dal 589 e che si propagò in tutti i territori franchi. Fu adottato anche dai monaci franchi di Gerusalemme, mettendo il fuoco alle polveri. I monaci orientali della città santa avevano sentito cantare quelli franchi e li accusarono di eresia; questi a loro volta portarono il dibattito davanti al papa Leone III, che senza negare la verità della dottrina del Filioque, disapprovò un’innovazione liturgica fatta senza la sua autorizzazione. L’affare fece molto chiasso e diede l’occasione pro­pizia ai Greci di attaccare, con una parvenza di ragione, i latini sul terreno dogmatico. Fozio non poteva rimanere fuori della lotta. Spinto da inimicizia troppo ardente, e d’altronde dotato d’un reale valore intellettuale, della dottrina trinitaria com’egli la concepiva, volle fare un si­stema teologicamente organico che s’opponesse nettamente alla dottrina la­tina. Egli fin dall’867 formulò questo principio fondamentale: quello che può essere detto della Trinità o è comune a tre persone, o proprio a una sola di esse. Nulla è comune a due persone che non si possa attribuire anche alla terza. Fozio sviluppò questa tesi con forza, con argomenti e ragionamenti verso l’886 nella sua grande opera Mistagogia dello Spirito Santo. Probabilmente solo nel secolo XI la Santa Sede ammise il Filioque nel simbolo di Roma; il Credo venne cantato con questa addizione nel concilio di Lione dai greci e dai latini, e la professione di fede firmata da Michele Pa- leologo proclama che lo Spirito Santo procede veramente ed egualmente dal Figlio (1274). Intanto nello stesso tempo si decise che gli orientali non fosse­ro obbligati a inserire il Filioque nella loro liturgia, se non lo desideravano, il che è ancora valido per gli Orientali cattolici. Soprattutto quest’addizione al simbolo incontra in Oriente l’opposizione del basso clero e del popolo. La stessa dottrina di Fo­zio sulla professione dello Spirito Santo fu ripresa dalle “chiese” monofisite per spirito d’opposizione al concilio di Firenze; però è solo più considerata come un’opinione teologica probabile dalla maggior parte dei teologi russi e da molti teologi greci, sebbene pochissimi siano disposti a ritornare alla dottrina integrale del FilioqueNon ammettendo la partecipazione del Figlio alla spirazione dello Spi­rito Santo, i dissidenti abbandonarono il pensiero integrale dei Padri, per se­guire una corrente teologica nata dalla disputa e dall’odio. Essi mutilarono il vero concetto di Trinità, che è quello d’una comunicazione incessante tra le tre persone.
Concezioni ortodosse su alcuni sacramenti. Dobbiamo indicare al­cune deviazioni, più pratiche che dottrinali, a riguardo degli altri sacramenti. Tra i nostri fratelli separati è rara la frequen­za alla Penitenza e all’Eucarestia; la grande massa dei fedeli ordinariamente s’accosta solo nelle grandi feste, tre o quattro volte all’anno. I caldei non si confessano e l’assoluzione sacramentale è data soltanto agli apostati che ritor­nano a resipiscenza. Alle volte in campagna il sacerdote celebra nella setti­mana solo in occasione d’un matrimonio e d’un ufficio per i defunti; nei mo­nasteri, dove la messa si celebra regolarmente, i monaci non sono tutti obbli­gati di assistervi. Bisogna tuttavia aggiungere che una buona élite, non solo intellettuale, ma anche di gente alla buona, ha un senso molto vivo dell’Eu-carestia, che, grazie all’affettività orientale, si manifesta in modo molto com­movente. Una devozione così reale non viene, per fortuna, attenuata da un errore dogmatico che non è piccolo: i teologi ortodossi pongono il valore consacratorio soprattutto nell’epiclesi, preghiera che nelle liturgie orientali segue al racconto della Cena (nel quale secondo noi sta la consacrazione) ed è rivolta allo Spirito Santo, senza tuttavia respingere totalmente la necessità del rac­conto evangelico, senza il quale si spezzerebbe l’armoniosa unità fra l’ultima Cena e la messa (non avverrebbe alcuna transustanziazione) Poco nota è la direzione spirituale, praticata tuttavia dai monaci, sia an­dando da loro nelle chiese, oppure andando essi per le città e le campagne, com’era nell’antica Russia. Nelle “chiese” separate gli ordini vengono conferiti validamen­te, ma proprio per questo è più triste constatare come in certe regioni è scom­parsa la stima del sacerdozio, che d’altronde tende a diminuire dappertutto. Nella “chiesa” copta ed etiopica vengono elevati al diaconato e al sacerdozio dei fanciulli che hanno appena (e alle volte nemmeno) l’uso di ragione. Nella “chiesa” nestoriana il patriarcato e alcuni vescovati restano nella stessa famiglia, e talvolta si vedono fanciulli d’una decina d’anni elevati a questa dignità. In generale però per il sacerdozio è richiesta un’età alquanto superiore; invece per il diaconato basta ancora meno. Nelle altre “chiese” tali abusi sono soltanto eccezionali, ma ovunque la formazione e l’istruzione del clero sono rudimentali, per la quasi totale man­canza di seminari. Spesso dal candidato si richiede solo il minimo indispensa­bile per esercitare le sue funzioni rituali, cui in genere il prete limita il suo ministero, senza curarsi granché dell’apostolato, preso com’è dalle preoccupa­zioni familiari, essendo il più delle volte sposato. I vescovi sono celibatari e alcuni conducono vita molto degna; altri invece in passato e in quest’ultimi tempi hanno dimostrato di non comprendere le alte responsabilità che la pie­nezza del sacerdozio impose loro.
Tra i cristiani ortodossi la benedizione è considerata come importantissima, e spesso come rito essenziale del sacramento. Sui vari impedimenti matrimoniali hanno legiferato patriarchi e vescovi, spesso con molta precisione, ma ammettendo (…) il “divorzio”. Da principio permisero di passare ad altre nozze dopo la separazione per adulterio, inter­pretando male il testo di San Matteo (19, 9). Ma nel corso dei secoli si mol­tiplicarono costantemente le cause del “divorzio” e oggi sono molto numerose. Non ne esiste una lista strettamente ufficiale, i tribunali ecclesiastici possono interpretare in modo sempre più largo i casi introdotti da un testo scritto e, nelle “chiese” bizantine, i giudici spesso nelle loro decisioni sono guidati da una legge civile o dalla consuetudine. Praticamente ogni grave mancanza contro la fedeltà coniugale, l’apostasia, una seria malattia fisica o mentale, un’assenza prolungata anche involontaria, le gravi ingiurie e, in alcune “chiese”, anche il consenso mutuo sono una causa di “divorzio”.
L’unico sacramento che in alcune “chiese” orientali non è più conferito è l’estrema unzione: non ne fanno più uso i Caldei, gli Armeni, gli Etiopi. (…) Le “chiese” monofisite siriaca e copta seguirono l’evoluzione liturgica comune delle altre “chiese” d’Oriente, tra le quali vivevano, però gli Etiopi, dopo aver tradotto il rituale copto dell’estrema unzione, non se ne servirono più. Le altre “chiese” conferiscono l’unzione con l’olio degl’infermi, anche fuori pericolo di morte, per ottenere la guarigione da ogni malattia corporale o spirituale.
L’assistenza dello Spirito Santo è necessaria per guidare la Chiesa nella sua missione santificatrice. (…) La storia prova che solo la Chiesa cattolica ha goduto di quest’assistenza costante. Se le “chiese” separate d’Orien­te, a differenza delle “chiese” protestanti, hanno conservato l’essenziale della vita sacramentale, tuttavia non attingono più a piene mani nel ricco tesoro.
 Il  battezzato che muore senza la grazia subirà un castigo eterno; chi è rimasto fedele a Dio riceverà la ricompensa eterna; questa retribuzione verrà pronun­ciata solennemente nel giudizio finale. (…) La Scrittura ha molti testi ri­guardanti il giudizio ultimo, dove tutto l’uomo, corpo ed anima, riceverà la ricompensa o il castigo; invece è “meno chiara” riguardo al tempo che segue la morte e precede il giudizio finale. In questa materia la dottrina cattolica s’è fissata in un’epoca relativamente recente, e fu il papa Benedetto XII a definire (1336) che le anime dei giusti, morti senza aver nulla da espiare, godono im­mediatamente della visione beatifica; dottrina ribadita dal concilio di Firenze nel decreto d’unione con i Greci (1439) che precisa pure come le altre anime giuste saranno purificate dalle pene del purgatorio. Questo decreto s’opponeva alle teorie complesse e varie dei teologi bizantini, che nella maggior parte dif­ferivano la retribuzione formale fino alla fine dei tempi, e ammettevano che, dalla morte fino al giudizio ultimo, le anime dei giusti ricevono gioie spirituali dette gioie del paradiso, in opposizione a quelle del cielo propriamente detto, mentre le anime degli empi subiscono pene unicamente spirituali. Alcuni am­mettevano inoltre che queste ultime anime potevano partecipare alle preghie­re della Chiesa e perfino vedere le loro pene trasformarsi a poco a poco in gaudio. Essi applicavano la loro teoria della beatitudine perfino alla Santissi­ma Vergine, pur ammettendo talvolta che non solo la sua anima, ma anche il suo corpo godesse delle gioie del paradiso. I teologi greci e russi attuali respin­gono specialmente l’idea che possa esistere una pena qualsiasi di fuoco prima del giudizio finale. Le “chiese” non bizantine hanno una dottrina mal definita; i loro dottori parlano poco del giudizio particolare e delle sue conseguenze. I Caldei e i Siri credono anche che il corpo di Maria si trovi ora in stato d’in­corruttibilità e sia provvisoriamente in un paradiso che non è il cielo, sotto la custodia d’alcuni angeli, mentre secondo i copti Maria gode la gloria ce­leste in corpo e anima. Dal punto di vista della vita della grazia, la dottrina «ortodossa» che non ammette retribuzione definitiva prima del giudizio finale, merita la qua­lifica, severa ma giusta, di odiosa. L’anima del giusto liberata dal suo corpo ha solo più un destino: la visione beatifica di Dio. D’altronde i teologi dissidenti che accordano all’anima giusta trapassata gioie spirituali, ammettono una cer­ta comunicazione tra Dio e i santi, e annettono anche una grande importanza all’intercessione dei beati in generale e in particolare della Madre di Dio. Ma ancora una volta, la consolante verità della comunione dei santi non ha alcun senso se questi «santi» non godono pienamente la loro ricompensa e la lo­ro felicità. Le “chiese” separate non soltanto pregano i santi, ma pregano anche per i defunti. E i teologi che rigettano un terzo stato, intermedio tra quello del­l’anima giusta e quello dell’anima empia, ricorrono a sottigliezze per spiegare il  senso di queste preghiere. 
L’indagine storico-dottrinale che abbiamo fatto nei ri­guardi dei nostri fratelli separati lascia indubbiamente un’impressione peno­sa. Al largo universalismo della vera Chiesa, essi hanno opposto una conce­zione ristretta e pericolosa: una trentina di “chiese”, indipendenti tra loro, go­vernano (molti milioni) di fedeli. I più begli omaggi liturgici al Figlio di Dio ed allo Spirito Santo non hanno senso quando non è rispettata l’integrità del dogma; la pratica religiosa resta terra terra e degenera nel ri­tualismo e nel convenzionalismo, quando non viene alimentata da una larga corrente di vita soprannaturale e quando spinge il suo orizzonte a un al di là troppo lontano. (…)
Tratto dall’Enciclopedia Apologetica, 1953, Società San Paolo, Alba (Cuneo), pp. 681 ss.
 
Articolo pubblicato e curato per RS da CdP Ricciotti (Fonte: http://radiospada.org/)