martedì 21 luglio 2015

IL COMMERCIO ED I SUOI ABUSI - IL LUSSO CORROMPITORE (Estratto dall'opera di mons. Delassus "Il Problema dell'ora presente" Tomo II°)



Il progresso del lusso, la sua invasione in tutte le classi della società, si devono in gran parte attribuire all'industria ed al commercio usciti dal legittimo loro ufficio.
Il beneficio del commercio è stato quello di cavar fuori l'industria dallo stato domestico: trasportandone i prodotti dovunque se ne trova il bisogno, esso ha dato uno sviluppo che si è immensamente accresciuto colla scoperta di nuove terre.
Le ricchezze di necessità e di miglioramento che l'industria, così stimolata dal commercio, ha prodotto in questi ultimi secoli, si sono suddivise in tutto il genere umano, hanno sviluppato il benessere dappertutto.
Anche in ciò vi fu un pericolo che non si seppe evitare. Nell'epoca in cui il commercio si conduceva ad un dipresso come l'artigiano, il quale non lavorava che per commissione, non si poteva eccedere nella produzione. Aprendosi all'industria più vasti orizzonti, creandosi ogni giorno nuovi mercati, il commercio spinse gl'industriali a produrre anticipatamente una gran quantità di mercanzie, senza saper se potessero essere vendute. Di qui nacquero la reclame(1) e le destrezze più o meno confessabili per avere una clientela sempre più estesa. Di qui l'ardente concorrenza e tutto quello che ne seguì: la fabbricazione a buon mercato a detrimento della qualità delle mercanzie, e, ciò che
è più deplorevole, a detrimento degli operai; poiché la donna ed il fanciullo furono chiamati, nei grandi stabilimenti, per un minimo salario, a prendere il posto dell'uomo maturo, la famiglia operaia fu distrutta.
La sovrabbondanza di produzione non reca minor turbamento negli Stati. M. Méline ha pubblicato, nel 1905, sotto questo titolo: Le retour à la terre et la surproduction, un libro che merita la più seria attenzione.
Per lungo tempo l'Inghilterra, privilegiata per l'estrema abbondanza de' suoi giacimenti di carbone, ha goduto d'una supremazia industriale incontestata. Fabbricando a miglior prezzo che tutti gli altri, essa avea per mercato l'universo e tutte le nazioni le pagavano un tributo. Dopo il 1870, le cose si sono molto cambiate. La Germania, anzitutto, inebriata delle sue vittorie, ha voluto bastare a se stessa e, per giungervi, incominciò dal chiudere le sue frontiere. L'Austria ne ha seguito il passo, poi è stata la Russia, la Francia, la Spagna, l'Italia, la Svizzera, tutta l'Europa. Un bel giorno, gli Stati Uniti ne seguirono l'esempio e, d'allora in poi, la lotta delle tariffe e la concorrenza dei prodotti hanno preso un accanimento che dovea far prevedere il prossimo rovesciamento delle assise economiche del vecchio mondo.
Oggi tutti fabbricano e tutti esportano. A chi vendere? I vecchi mercati di consumazione sono chiusi. Quelli che offrono i paesi nuovi sono il luogo di un combattimento disperato. L'Africa, appena sfiorata nei suoi lidi, non ha facoltà d'acquistare che assai limitate. L'Asia è una preda migliore. Vi ci si irrompe davvero. L'Inghilterra, che aveva solidi posti, ha già cominciato ad urtarsi coll'Alemagna che vi prende piede, col Giappone le cui ambizioni industriali gareggiano colle ambizioni militari, cogli Stati Uniti, i quali non hanno messo la mano sul canale di Panama se non per avvicinarsi a questo paradiso dei popoli trafficanti.
È la lotta in cui tutti vogliono vincere.
Infatti, man mano che diminuiscono le possibilità di vendere, crescono le necessità di produrre; poiché la condizione del trionfo è il buon mercato, e la condizione del buon mercato è la grande produzione. La si ottenne creando immensi attrezzi; ma per render ciò che hanno costato è d'uopo che lavorino, senza interruzione. Che si venda o non si venda, la macchina gira sempre. Allora i prodotti si ammassano. Per smerciarli, si abbassano i prezzi, si abbassano talvolta fin sotto al prezzo di costo, come fece un tempo la Germania; ed anche abbassati all'estremo limite, avviene che non si smerciano. Da quel momento si corre alla bancarotta.
A questa prima e grave ferita fatta alla ricchezza reale, pel commercio uscito dai limiti che gli erano assegnati dalla natura delle cose, il commercio giudeo, come già lo chiamava cinquant'anni fa de Saint-Bonnet, ne aggiunse un secondo. Non si contentò più di essere servo dell'agricoltura e dell'industria, intermediario per trasportarne i loro prodotti ove lo richiedesse il bisogno, ma volle stabilirsi come una terza industria fra l'agricola e la manifatturiera; volle essere lui stesso una industria sui generis. D'allora in poi il suo ufficio non fu più di essere utile, ma di vendere; mise in seconda linea la sua primiera preoccupazione. In luogo di limitarsi alla ricerca dei veri bisogni, per procurare quanto ad essi era necessario, eccitò al più esteso consumo possibile di non importa qual merce, purché esso potesse trarne un vantaggio.
Da quell'epoca, pose la sua applicazione nella creazione di manifatture che non hanno altro fine che di produrre delle superfluità per trovarvi mezzo di aumentare il suo traffico. Di qua, lo sviluppo dato alle industrie di lusso che impiegarono il capitale, le braccia, ed il tempo dell'uomo, per crear ricchezze di corruzione in sostituzione delle ricchezze di necessità e di miglioramento.
Nulla vi ha di più attraente della pittura che ci fa Janssens(2) degli effetti disastrosi già prodotti dall'abuso di commercio in Germania verso la fine del medio evo, cioè nel XV e XVI secolo.
Le città della Hansa hanno quasi centralizzato tutto il commercio dell'Europa; disgraziatamente, questo prodigioso sviluppo commerciale, questa febbre mercantile turbano profondamente la condizione morale del popolo che perde a poco a poco la sua semplicità e s'impoverisce col lusso.
La Chiesa addita immediatamente il pericolo. Bisogna ascoltare i suoi predicatori, uno di essi sopratutto, Giovanni Geyler, prebendato della cattedrale di Strasburgo:
"Trent'anni fa - ei dice - prima che io venissi ad abitar qui (1478), quando io era ancora ad Ammerschweyer, laggiù, nella campagna dove appresi l'a, b, c e dove fui cresimato, non eravi, in tutta la nostra piccola città un sol uomo che portasse un mantello corto, se non è un sergente o un valletto civile. Tutti aveano lunghi vestiti che cadevano ai ginocchi secondo il costume dei paesani d'una volta; ma al presente i nostri contadini portano abiti cincischiati e sì corti e sì guarniti che non se ne vedono di somiglianti nelle grandi città. La ingordigia e la malizia crescono nei contadini in proporzione del lusso, laddove trent'anni fa, menavano una vita saggia e ritirata".
Si dice che il lusso arricchisce il popolo. Noi diciamo che lo rovina. La ragione è evidente: il capitale ed il lavoro messi al suo servizio producono forse fertilità alla terra ? E tuttavia non sono che i frutti della terra che costituiscono la vera ricchezza.
Ciò che inganna, è il fenomeno del cambio. Quegli che porta un gioiello che costò un anno di lavoro lo commette ad altri. Ma se si considera non un individuo isolato, ma l'umanità obbligata a soddisfare a' suoi bisogni col proprio lavoro, si vede chiaramente che è follia impiegare una parte d'un tempo sì prezioso a tagliar diamanti, quando ancora cammina sovente a piedi nudi. Gli abitanti d'uno Stato dispongono d'un certo numero di ore al giorno: se ne consacrano la metà a fabbricar delle futilità, è inevitabile che la metà della popolazione manca del necessario.
M. de Saint-Bonnet propone questo esempio: Una quantità di lino del costo di un franco, lavorato in merletto si eleva al valore di 3000 franchi. I 2999 franchi di eccedenza pagano un lavoro sbagliato. Le persone che li hanno guadagnati preparando il filo speciale per il ricamo e il merletto, e le donne che lo hanno messo in opera niente hanno prodotto di profittevole, niente di necessario, eppure sono state pagate. Quella che hanno ricevuto è la somma del valore di alimenti e di vestiti che dalle medesime sono stati consumati durante il loro sterile lavoro, e che avrebbe potuto costituire il salario d'un lavoro utile alla società. Fra il popolo che ha prodotto per mille scudi di pane o di canapa, e quello che ha prodotto mille scudi di oggetti che non appagano che gli occhi, quale è il più ricco?
Vi ha tuttavia, e noi avremo occasione di dirlo, una specie di lusso, buono e lodevole, perché serve ad elevare le anime e per tal modo entra nella categoria delle ricchezze di miglioramento.
Il commercio facendosi fondaco di oggetti di lusso è divenuto una gran causa d'impoverimento. Il capitale, ogni anno consacrato alla produzione di vetture, mobili di lusso, seterie, gioielli e bibite inebrianti ecc. ecc., non è impiegato, come dovrebbe, a riparare gli uomini dalla fame e dal freddo, a fornire utili strumenti, in una parola a lottare contro la miseria per diminuirne l'impero o a sviluppare il vero incivilimento.
E non è solo nelle classi elevate che il commercio cagiona questo pregiudizio. Quei grandi bazars istituiti per vendere al popolo al massimo buon mercato oggetti di qualità inferiore, ma molto appariscenti, che altro fanno essi se non sviluppare nelle classi popolari il desiderio d'imitare i ricchi
nella toilette e nel mobigliamento? Con ciò impediscono il risparmio, e lottano contro la prima virtù necessaria al popolo, quella che sola gli permette di uscire dalla sua bassa condizione per prender posto nella borghesia.
Si farà mai il conto di ciò che solamente, dopo la Rivoluzione, la Francia, cioè la nobiltà e la borghesia, hanno speso nel lusso e nel vizio, e il basso popolo nelle taverne? A che punto sarebbe oggidì il nostro paese se il capitale così sacrificato al lusso, fosse invece stato confidato all'agricoltura, ed incorporato al nobile suolo francese? Quanto non si sarebbe aumentato il suo capitale! quanto più agiatamente non vivrebbe il suo popolo, se i due o tre miliardi, e non è dir troppo, i tre o quattro miliardi che il duplicato lusso del povero e del ricco ogni anno inghiotte, fossero invece consacrati alla produzione del pane, della lana e delle abitazioni; se i due o tre milioni d'uomini e di giovani che il vizio, figlio del lusso, direttamente rapisce alla morale e alla vita, vi avessero dedicate le loro energie?
Vi ha qui una terza ferita che il commercio giudaico reca alla ricchezza reale. Per estendere la sua azione, esso fece ricorso al credito, il quale gli permise con 50.000 franchi di assumere 500.000 franchi di affari. Il credito, estendendosi, sviluppandosi ben presto fece oltrepassare i limiti che la natura avea posti all'oro e all'argento come mezzi di transazione. Coll'aiuto della carta si ampliò il capitale, si crearono valori commerciali, i quali poi deprezzarono il suolo ed il numerario, e divennero così una nuova causa d'impoverimento.
Ben presto questi valori commerciali, questi valori di credito, questi valori in carta, si ammassarono in guisa che attualmente si può dire che in Francia una gran moltitudine di gente è ricca di cose che non possiede, che nemmeno esistono.
Se si dovesse oggi pagare a ciascuno in contanti i titoli-valori che possiede, non si troverebbe se non ciò che è reale, tutto il fittizio svanirebbe. Si è cominciato a vederlo nel 1848; lo si vedrà completamente in una prossima rivoluzione. Le nazioni europee riposano nel vuoto. Attenti al crollo!(3)
Ciononostante, tutti quelli che possedono queste ricchezze fiduciarie consumano in ragione della loro importanza, e contribuiscono in tal guisa, per quanto sta in loro, a distruggere ciò che resta di capitale reale. Si guadagnano ricchezze sulla cambiale e la spesa si fa sul terreno. Una ricchezza fittizia permette un consumo reale, ed il consumo si fa con tanto maggior fasto e prodigalità quanto l'acquisto di questa ricchezza ha costato minor fatica.
Si finirà con render giustizia alla Chiesa ed agli sforzi che fece da molti secoli, per impedire la formazione del capitale fittizio, e per incoraggiare, col suo proprio esempio, il capitale agricolo. I monaci mostrarono alla nobiltà l'uso che si dovea fare degli avanzi del risparmio, aggiungendoli proporzionatamente al suolo. In tal guisa la terra della Francia fu resa sì fertile e produttiva; in tal guisa i nostri frutti di ogni specie sono divenuti migliori di secolo in secolo. La Chiesa fin d'allora che vide l'Europa uscir da questa via, gittò il grido d'allarme: ci mise in guardia contro gli ebrei, contro l'usura, contro le banche, in una parola, contro gli abusi del commercio. Non abbiamo voluto ascoltarla. I fatti cominciano a farci vedere quanto sarebbe stato prudente prestare ascolto, e lasciarsi condurre dalla sua saggezza. La morale, la pace e la sicurezza nelle famiglie, la stabilità negli Stati, tutto vi avrebbe guadagnato.
Il signor Anatole Leroy-Beaulieu disse assai bene:
"Al regno di Mammona, come dice il Vangelo, vi era un tempo una barriera di fede. Se essa mal riusciva a distaccarne i figli del secolo, tendeva almeno a moderarne l'orgoglio, a limitarne il fasto,
a purificarne l'origine, a moralizzarne l'uso. Era un freno alla cupidigia e all'insolenza dei ricchi. La Chiesa predicava la dignità del povero; e non era sempre simbolo vano, quando le mani dei re e delle regine lavavano il piede dell'indigente. La religione insegnava, con san Tommaso e Bourdaloue, che Dio è il vero proprietario di tutti i beni e che i ricchi di questo mondo non sono che gli economi e i dispensatori. Queste austere lezioni aveano un bel cadere in orecchie sorde, eravi, nella vita di tutte le classi, un altro ideale ben diverso da quello di far fortuna. La scala d'oro dai cancelli d'argento non era, nei loro sogni, la sola visione che riempisse gli occhi degli uomini.
Il desiderio di curare la propria salute avea il merito di distrarre, in certe ore, dai beni di fortuna e di produrre talvolta qualche scrupolo sul modo di acquistarli e sul modo di usarli. Dacché si è dileguato questo pensiero, il livello medio delle coscienze si è abbassato, mentre saliva il fiotto delle cupidigie. Il pubblicano non ha più bisogno di curvare il capo e non so se egli pensi di far penitenza. Il vizio arricchito, ormai più non rende alla virtù il fastidioso omaggio dell'ipocrisia. La vergogna è, si può dire, quasi fuori d'uso; tutto sta nel riuscire, il mondo non ha più indulgenze che per le bassezze inguantate cui copre il successo. Ogni giorno cresce il numero di quelli che osano emanciparsi dalle regole antiche d'una vecchia morale. I cristiani, secondo la parola di Gesù, erano il sale della terra; e il sale divenne insipido".
Infine, è l'industria del lusso smoderato, eccitata dal commercio ebraico, che ha generato il pauperismo.
È un fatto evidente che dappertutto il pauperismo è proporzionato allo sviluppo dell'industria. Il paese che ha maggiori ricchezze commerciali ed industriali è quello che conta più poveri, ed i poveri più miserabili.
Non è forse in Inghilterra, non è nelle nostre città commerciali ed in seno alle nostre manifatture, che si è stabilita la miseria, che si estende la piaga dei trovatelli, che le popolazioni sono senza pane? Là nacque il pauperismo, e di là mai non esce.
Quest'è un fatto. Quale la spiegazione? Essa si trova in tutto ciò che abbiamo già detto.
Dal momento che gli uomini hanno tolto per fine della loro esistenza, non più quello di elevare e nobilitare la loro anima e di far salire la loro famiglia nella gerarchia sociale mediante l'educazione, il lavoro e la moderazione dei desiderii, ma quello di far fortuna, di arricchirsi, subito si sono gettati non sulle industrie produttive, ma su quelle che, grazie alla moda, alla fantasia, alla passione dominante producono più danaro: e, cosa più triste ancora, essi hanno cercata la ricchezza nella speculazione.(4)
Così spuntano i parvenus (plebei arricchiti). Una invenzione, un bastimento opportunamente arrivato, un colpo di borsa eleva in un giorno una famiglia tante volte senza educazione e senza cuore. Non ci è niente nell'anima di questi arricchiti, nessuna di quelle virtù che, nel corso di più generazioni pacifiche, le madri insegnano, fanno praticare ai loro figli ed alle loro figlie e che infondono in qualche modo nel loro sangue. L'oro che è entrato nelle mani di questi arricchiti in un giorno, è un fuoco che divora, un veleno che corrompe essi medesimi e che permette di seminar la corruzione intorno a loro; dalla corruzione nasce il vizio, e dal vizio la miseria.
Queste fortune rapide, clamorose, talvolta insolenti, che crea la speculazione, non portarono soltanto la corruzione personale, ma sono pur causa di turbamento sociale. Nessuno può guardare con occhio indifferente questi parvenus superbi. Un vago sentimento sorge nella coscienza e dice non esser giusto né sano che la ricchezza sia il prezzo d'un colpo di borsa e che il banchiere improvvisamente arricchito abbia, pel solo titolo dei milioni così prestamente intascati, la
precedenza sulle persone oneste; e da questi cattivi esempi nascono sofismi che aprono la via alle rivoluzioni. Essi accendono delle cupidigie che entrano tanto più presto nella coscienza popolare in quanto che la si è prima vuotata di tutte le leggi morali che potevano far loro ostacolo.
A questa prima causa di pauperismo altre se ne aggiungono. Le ricchezze di necessità si fanno più rare, perché non è unicamente su di esse che si dirige il lavoro dell'uomo. I fallimenti tanto più numerosi quanto più sono compatte le schiere di coloro che vogliono darsi all'assalto della fortuna, trascinano famiglie sopra famiglie nella loro caduta: quelle degli operai addetti all'industria. fallita e quelle dei borghesi che vi hanno impegnati i loro capitali.(5)
Infine, l'industria del lusso eleva i salarii e con ciò attira la gente di campagna e la agglomera nelle città. Al principio dell'ultimo secolo, i tre quarti dei Francesi vivevano in campagna, del lavoro dei campi. Alla metà del secolo, la popolazione rurale e la popolazione urbana non era notabilmente cambiata. Ma, d'allora in poi lo scarto tra i distretti rurali ed i distretti urbani andò sempre più riducendosi.(6)
La gente di campagna accorre ogni giorno più numerosa a stabilirsi nelle città, in mezzo a tutte le seduzioni ed alla presenza dei mali esempi dati dai ricchi d'occasione; di guisa che il salario migliorato troppo spesso ad altro non serve che all'ubbriachezza, ed alla dissolutezza che conducono al pauperismo, molto più sicuramente e molto più generalmente che il salario insufficiente.
Le classi arricchite oggi impallidiscono dinanzi al proletariato. Non si dovea crearlo. Non sono punto quelli che producono gli oggetti di necessità: pane, vino, lana, che dan loro paura, ma bensì quelli che, per arricchirsi, li hanno tolti dal lavoro dei campi per fabbricar oggetti di superfluità. 
Questi spostati costituiscono oggi un esercito. Essi non sono più come in altri tempi disseminati, ma sono reggimentati 
Invece di essere occupati stabilmente al lavoro d'un terreno sempre pronto a fornir loro il nutrimento, si sono gettati sulla navicella vacillante d'un capitale fittizio, il quale da un giorno all' altro può sparire e darli in preda alla fame. Sottraendosi col loro esodo alla religione, alla famiglia, al buon esempio che ricevevano là ove Dio li avea fatti nascere, questi uomini restano esposti nello stesso tempo al contagio delle officine testimoni degli illeciti godimenti a cui s'abbandonano le famiglie improvvisamente arricchite, e lasciati senza difesa in balìa dei sofismi, delle menzogne e delle idee perverse che la stampa continuamente va seminando nei grandi centri. Qual meraviglia che queste moltitudini così immerse nell'errore e nella corruzione non abbiano altra brama ed altra speranza che di tutto invadere per divorar tutto!
 
 

Note:

(1) Fiorentini dicono: soffietto.
(2) L'Allemagne à la fin du moyen-age.
(3) La ricchezza mobiliare della Francia non è inferiore di 137 miliardi e 119 milioni. Su questo totale, i valori francesi non costituiscono la parte più grossa. Essi rappresentano solo 54 miliardi, di
cui 26 miliardi 400 milioni in rendita sullo Stato e le colonie, circa 20 miliardi per le Compagnie di vie ferrate, 4 miliardi pel Credito fondiario, 2 miliardi per la città di Parigi, e il resto per i diversi valori industriali. I valori esteri montano, in Francia, a più di 66 miliardi, così ripartiti: Fondi di Stati diversi 47 miliardi 500 milioni; Fondi russi 11 miliardi 300 milioni; Banche 1100 milioni; strade ferrate 5 miliardi. e il resto in valori diversi. - I valori non iscritti al mercato officiale, ma negoziabili sul mercato in Banca o nelle diverse borse di provincia, rappresentano un capitale di 7 miliardi. Dunque, soltanto in Francia 137 miliardi 119 milioni di valori in carta. Ora, il totale di moneta attualmente esistente sulla superficie della terra, non è al massimo valutata che a 40 miliardi, dei quali metà circa in oro e metà in argento. Se questa somma fosse riunita in un sol blocco sulla piazza della Borsa di Parigi, essa sarebbe di molto insufficiente per pagare al corso giornaliero, i soli titoli della rendita francese inscritti nel listino della Borsa, e le azioni e le obbligazioni delle strade ferrate garantite dallo Stato. Ne occorrerebbe un terzo di più essendo circa 62 miliardi il totale in capitale, del debito e dei valori garantiti, al corso attuale. Prendiamo in mano il registro della Borsa. È la lista dei valori, azioni, obbligazioni di speculazioni di ogni specie, che officialmente sono ammesse al mercato: canali, miniere, trasporti, assicurazioni d'ogni genere ecc. Si sa quanto esista di questi valori svariati e diversi? Circa ottocento. Provatevi di fare il totale di ciò che rappresentano questi ottocento valori, moltiplicando per ciascuno d'essi il numero dei titoli emessi pel valore del titolo al corso del giorno .... Provatevi: non potete giungere al fine. Prima di trovarlo, resterete annientati, davanti a cifre ultra chimeriche, fantastiche, favolose, impensate di miliardi che sarebbero necessari per pagar tutto questo. I miliardi si sommano ben presto a centinaia ... È qualche cosa che non ha esistenza possibile ... cifre addirittura da pazzi! Il mercato di Parigi non è il solo al mondo. A Berlino, a Londra, a Vienna, a Madrid, ad Amsterdam, in America, ovunque, sarebbe lo stesso. Non insistiamo: è abbastanza per convincersi che questi monti di carta che s'ammassano su tutti i mercati del mondo non rappresentano che un valore di mera confidenza, fondata sulla forza acquistata dal giro degli affari. Lo stesso biglietto di banca di mille franchi, che è passato per le mani di cento persone, ha operato per centomila franchi di cambio, ma non vale che mille franchi. E quando la sicurezza, sia la sicurezza reale, sia la sicurezza illusoria che sostiene questa onda di cambi cadrà, si vedrà allo stesso tempo cadere nel vuoto questo cumulo immenso di carta di Borsa, queste centinaia e migliaia di miliardi che più non esistono. Questa caduta è inevitabile.
(4) Quando una casa vende una quantità di caffè dodici volte maggiore di quella che si può raccogliere nel mondo intero, o una quantità di zucchero dodici volte maggiore di quella che l'industria può produrre, vi è speculazione e non vendita. La Borsa di Parigi non fa un'operazione seria fra mille operazioni di pura speculazione. I tre quarti dei valori trafficati alla Borsa o sotto il peristilio non hanno più valore che le carte d'un gioco di baccarà e servono ai medesimi usi. Nella Psychologie de la Bourse, Claudio Jannet dice: "Il giuoco e l'aggiotaggio continuamente s'immischiano alle speculazioni legittime. Subito che si trova una borsa aperta, cioè una corrente regolare di transazioni, molti hanno cercato di guadagnar danaro senza lavoro nelle differenze di prezzo dei titoli che comperano e rivendono. Sotto il punto di vista morale, questo genere d'operazioni è irragionevole. Vi è qualche cosa di vile in questo che, coloro pei quali il commercio dei valori mobiliari non è la loro regolare professione, cercano di far guadagni, che non hanno per origine, né vicina né lontana, alcun lavoro utile. Si dà loro il nome di giocatori a causa del carattere sterile delle loro operazioni". Tutte le classi sono incancrenite da questa piaga. La grande industria e l'alto commercio giuocano sui grani, sul cuoio, sulle lane, su tutto; il piccolo possidente gioca alla Borsa sulle Ottomane e sui valori russi; l'impiegato, l'artigiano, la serva, l'operaio stesso si lasciano tentare dalle liste degli utili fittizi che offre la speculazione. Dovunque è la stessa ossessione del colpo di fortuna per trovar la ricchezza senza doverla acquistare mediante il proprio lavoro. Vi è qui una causa ben grave di demoralizzazione.
(5) Il signor de Bonald ha distinto così, dal loro carattere e dai loro effetti, l'agricoltura e l'industria. "L'agricoltura alimenta quelli che fa nascere, l'industria fa nascere quelli che non può sempre mantenere. "II figlio che viene alla luce in una famiglia agricola, trova la sua sussistenza già assicurata, e la terra che i genitori coltivano e che coltiverà anch'egli, lo aspetta per offrirgli il pane. "II figlio che nasce in una famiglia industriale aspetta la sua sussistenza dal salario ch'ei guadagnerà, se un padrone lo impiega e se la sua industria non è ostacolata dagli avvenimenti che possono farlo languire o lasciare il lavoro, od impedire la vendita de' suoi prodotti. "L'agricoltore vive delle sue derrate anche allora che non le venda, l'industriale non può vivere se non vende il prodotto del suo lavoro. "Perciò la famiglia agricola è, per la sua esistenza, indipendente dagli uomini e dagli avvenimenti; e la famiglia industriale è, per la sua, dipendente dagli uni e dagli altri. "Il lavoro agricolo è veramente una famiglia di cui è capo il padre: proprietario o affittuale, egli si occupa nei medesimi lavori che i suoi servitori, si ciba del medesimo pane e di sovente alla stessa tavola (mensa). "Questo lavoro mantiene tutti quelli che ha fatto nascere. "Esso ha occupazioni per tutte le età e per tutti i sessi, ed i vecchi che non possono dedicarsi a lavori penosi, finiscono la loro carriera come l'hanno cominciata e custodiscono intorno alla casa i fanciulli e il gregge. "Niente di somigliante nella famiglia industriale i cui membri lavorano isolati e sovente in diverse industrie, e senza conoscere il padrone altrimenti che per l'esigenza delle sue ordinazioni e la scarsezza dei loro salari. L'industria non dà il vitto né a tutte le età, né a tutti i sessi; essa impiega, è vero, il fanciullo, e spesso troppo giovine, perché abbia potuto acquistar forza e sanità, e seguire alcune istruzioni, ma l'abbandona nell'età avanzata, e, quando non può più lavorare, non ha altro pane che quello che gli fornisce il salario de' suoi figli o che riceve dalla carità pubblica.
(6) Se ne giudichi. Nel 1846, la popolazione urbana non rappresentava che il 24% della popolazione totale, mentre la popolazione rurale ne rappresentava il 76%. Nel 1886 la proporzione era di 36 contro 64, e, di poi, il movimento si accentuò. Se si guarda la popolazione delle grandi città (Parigi e le città di più di 100.000 anime) ci si trova in faccia d'un vero rovesciamento, d'una rivoluzione demografica. Citiamo le cifre date dalla Riforma sociale (1 e 16 settembre 1904, p. 345-360). Nel 1800, la Francia non contava che tre grandi città (di più di 100.000 anime) che raccoglievano insieme 766.000 abitanti. Essa ne aveva: Nel 1870 . . . . nove con 2.800.000 abitanti. Nel 1895 . . . . dodici con 4.780.000" Nel 1901 . . . . quindici con 5.368.000" "È un aumento di 6000% in un secolo e di più di 12% in sei anni". Ciò che rende la situazione ancor più inquietante, si è che non solo la provincia si spopola a profitto di Parigi, e i dipartimenti rurali a profitto delle grandi città; ma eziandio, in seno di quasi tutti i dipartimenti, i comuni puramente agricoli, puramente rurali sono deserti di abitanti a profitto dei piccoli centri regionali, essi stessi, a lor volta, abbandonati per Parigi e le grandi città. Da un punto all'altro della Francia, i risultati sono i medesimi, non havvi un comune su dieci la cui popolazione siasi aumentata nell'ultimo mezzo secolo; tutti gli altri han subito un decrescimento di popolazione variante da un decimo alla metà, e che è generalmente del quarto o del terzo. Se non si arriva ad arrestare quest'esodo, verrà un momento fatale in cui non vi sarà più alcuno nella campagna e che si troverà nelle città?
La città uccide, avvelena quelli che vengono a rifugiarvisi. Gli agglomeramenti generano le malattie, specialmente la tubercolosi, ed esse sono ancor più nocive al morale che al fisico. Il signor Giorgio Bourgeois ha pubblicato sotto questo titolo: l'Exode rural et la tubercolose, una monografia ch'egli appoggia ad un tempo su documenti precisi e su statistiche scrupolose ed innegabili. Egli ci dimostra il pericolo immenso che fa correre alla salute pubblica l'afflusso, ognor più grande, di popolazioni rurali nelle città. Infatti, l'immigrato fornisce un tasso di mortalità per tubercolosi molto più considerevole che quello dei Parigini d'origine Questa cifra non è inferiore del 62%. Or, come la mortalità per tubercolosi negli ospedali di Parigi è esattamente del 46.7%, cioè quasi la metà della mortalità totale, è facile rendersi conto dei reali pericoli che corre l'operaio della terra che l'attrattiva di un lavoro, in apparenza più rimuneratore, attira verso la città.