martedì 14 luglio 2015

ARTICOLO DE L'ALFIERE: Napoli spagnola di FRANCESCO ELÌAS DE TEJADA

Fonte: L'ALFIERE - Gennaio 1962 Pag. 3-5 (http://www.eleaml.org/)




Napoli spagnola



Siamo lieti di presentare ai lettori de “L'Alfiere” l’articolo che segue, che reca la firma del prof. Francesco Elias de Tejada, cattedratico delle Università di Salamanca e di Siviglia. Il prof. de Tejada è un chiaro esponente della nuova generazione carlista spagnola, che ha il merito di aver trasformato la antica corrente politica iber4ica da organizzazione prevalentemente nostalgica e legittimista in movimento essenzialmente culturale ed ideologico prima che politico.

Egli ha raccolto la propria professione di fede in alcuni studi come — per citarne uno tra gli innumerevoli — “la Monarquia tradicional” ed è direttore delle “Ediciones Montejurra” la benemerita organizzazione editoriale che ha per scopo l'analisi attenta della storia spagnola da un punto di vista cattolico tradizionalista.

Inoltre il prof. de Tejada all'amore per la cultura e la spiritualità della sua terra unisce un attaccamento intelligente e cordiale a Napoli, specie a quello Napoli, ormai lontana, che, pur avendo peculiari caratteristiche nazionali, fu unita saldamente alla grande confederazione delle Spagne.

In questo spirito il prof. de Tejada ha redatto dal 1957 in poi il “Napoles hìspanico”, un'opera di vasto respiro, non ancora tradotta in italiano, che è giunta al suo IV volume e che poggia su una ineccepibile e integrale analisi delle fonti bibliografiche del periodo “viceregnale”, non senza una premessa relativa ai tempi aragonesi.

Il “Napoles hispanico” si propone di identificare e valutare la misura e la Qualità della partecipazione di Napoli allo lotta sostenuta dalle Spagne per la Cristianità contro l'attacco europeo, a mano a mano, protestante, enciclopedista, liberale, sovversivo.

In questa luce la Napoli autentica appare quella che, nell’ambito della comunità spugnola, conservò una personalità giuridica e una struttura interna particolari e visse la primavera della sua cultura, tanto individualizzata da esprimersi compiutamente anche nell'idioma napoletano, che ora si è ridotto a mero dialetto.

In questa stessa luce la Napoli settecentesca appare inesorabilmente spersonalizzata sotto il rullo compressore dell'assolutismo di marca francese. E' perciò che il prof. de Tejada esprime un giudizio decisamente negativo sull'atteggiamento del primo Borbone, giudizio che può, come noi facciamo, non essere interamente condiviso, ma che va senza dubbio attentamente esaminato.

Sul valore complessivo dell'opera del prof. de Tejada non esitiamo a dare comunque un entusiastico assenso. Il “napoletanismo” del prof. de Tejada non è lo sdolcinato amore turistico sentimentale di marca nordica, ma l'intelligente ricerca della spiritualità meridionale attraverso la rivalutazione della sua individualità e della sua cultura. Garantiamo ai nostri lettori che l'articolo che segue non é che il primo di una lunga serie in cui lo illustre “concittadino” spagnolo illustrerà gli aspetti degni ed eletti di quella Napoli “spirituale” che soprattutto amiamo.



LA REDAZIONE





di FRANCESCO ELÌAS DE TEJADA



Non so se la dizione "Napoli spagnola" sia esatta per quanto attiene al periodo aragonese, perché il Regno di Napoli comincia a esistere come entità sociale armonica solamente quando Ferdinando il Cattolico doma la ribelle nobiltà e stabilisce con mano tanto giusta quanto poderosa il principio di un bene comune napoletano al di sopra delle ambizioni politiche di innumerevoli piccoli despoti anarchicamente potenti, capaci di vendere il regno allo stesso turco, come più di una volta effettivamente avevano tentato. Napoli è regno, e non monarchia che sbanda come nave senza timone sugli increspati mari delle ambizioni signorili, solo quando il Regno entra nella grande confederazione delle Spagne.


Ma non fu questo il solo atto della nuova realtà inaugurata da Ferdinando il Cattolico. A partire da lui il Regno di Napoli, organico e unito, parteciperà alla crociata contro l'Europa intrapresa dai re delle Spagne. Non è il caso al principio dei miei studi su Napoli spagnola di considerare il valore storico nei confronti della Cristianità e del Regno di Napoli, dì tale partecipazione, ma l'opportunità di ciò sarà soddisfatta in fine dell'opera. Basti segnalare qui, come seconda conseguenza dell'ingresso del Regno nelle Spagne, che il popolo napoletano fu chiamato dai suoi re alla difesa della Cristianità. Il potere delle Spagne da un lato allontanò definitivamente la minaccia turca soddisfacendo le istanze del popolo soggetto; dallo altro fece di Napoli un popolo antieuropeo.


Perché l'Europa non è mi concetto geografico, ma storico, che come concetto storico nasce polemicamente in un determinato momento. Geografia è l'Occidente, dove fino al 1500 il sistema di vita umana si gerarchizza nell'idea della Cristianità: l'Europa è ciò che si sostituisce nelle terre dell'Occidente alla Cristianità grazie a cinque rotture successive dell’ordine cristiano del medioevo: teologica con Lutero, etica con Machiavelli, politica con Bodin, filosofico-giuridica con le secolarizzazioni del tomismo con Grozio e del volontarismo con Hobbes, istituzionale con i trattati di Westfalia


I Re di Napoli, che sono i re di tutte le Spagne, lottano contro l'Europa; e il Regno accorre alla chiamata dei suoi re. I reggimenti napoletani di Camillo del Monte assediano Amberes nel 1585; Geronimo Caraffa, marchese di Montenero, difende nel 1597 la piazza di Amiens contro gli assalti francesi; Carolo Spinelli combatte in Praga nei 1620; Lelio Brancacào a rende famoso ai bordi dei Rhin, Gerardo Gambacorta guerreggia contro il Piemonte; Giocati Vincenzo Sanfelice conte di Ba­gnoli si batte contro gli olandesi in Brasile.


Chi legga “II genio bellicoso di Napoli “di Raf­faele Maria Filamondo(1) noterà quanto sia chia­ro che Napoli fu militarmente antieuropea, an­cella diligente dei suoi re. E chi scrive ciò porta nel sangue la testimonianza dì un capitano dei Terzi spagnoli di Napoli che servendo il re Filippo IV incontrò in un cantone di Castiglia l'atra metà del suo cuore napoletano.


Pari attitudine vige nel campo del pensiero. Ra­dicalmente nemico dell'Europa il Regno di Napoli, affina le caratteristiche della sua personalità in tutti i terreni, in armonia coi carattere federativo delle Spagne, e nella letteratura assistiamo duran­te il XVII secolo alla primavera degli scrittori in idioma locale.


Gian Battista e Domenico Basile, Giulio Cesare Cortese, Filippo Sgruttendìo de Sca­fato, Giambattista Valentino, Andrea Perrucci, Masiilo Reponne, Gabriele Fasano, Giancola Sitil­lo, Ferdinando Boccosi, Santillo Nova, Arnaldo Colombi, Giacomo Antonio Palmieri, Nicolo Capasso, sono la nutrita coorte che afferma nell'am­bito delle belle lettere la personalità storica del Regno di Napoli, messe maturo della buona seminagione sparsa da Ferdinando il Cattolico e irro­rata dai suoi successori.


Però l’Europa vinse le Spagne e Napoli fu vinta dall'Europa.


Quando le nazioni europee vincitrici imposero Io smembramento delle Spagne cinte, lo svolgersi fatale degli eventi portò francesi euro­peizzati sui troni spagnoli.


Filippo V in Castiglia e Carlo III a Napoli signi­ficano la fine delle Spagne. La introduzione dello assolutismo astratto, enciclopedista, "rinnovatore" e europeizzante fu la formula che imperò nell’Europa del Secolo XVIII sotto l'egida francese e costi­tuisce la formula politica che l'Europa vincitrice ci impose.


Ma con essa uccisero lo spirito nazionale di Napoli, cosi come distrussero lo spirito peculiare del­la Catalogna e della Castiglia, così come distorsero quello della storia dei popoli spagnoli delle Indie.


I forestieri iniziarono la despanizzazionc del Re­gno. Un genovese. Paolo Mattia Dona, inizierà la leggenda nera del mendacio, della calunnia e della incomprensione; un pisano, Tanucci, condurrà la campagna europeizzatrice consigliando un francese, Cario III.


Cosi le riforme materiali e amministrative si accompagnano alla morte spirituale del Regno. Quando si europeizza, Napoli, è un corpo senza anima.


I posteriori scrittori dell'idioma napoletano appartengono ancora alla ultima generazione spa­gnola, sebbene pubblichino la loro opera sotto i Borboni europeizzatori.


Nunziante Pagano era nato nel 1683 e Biagio Valentino nel 1688. Sono com­ponenti la medesima generatone di Giambattista Vico, formato ai tempi spagnoli e il cui merito consistette nell'esser riuscito genialmente a delineare una continuità del pensiero spagnolo, accentuando la considerazione dell'elemento storico in un’Europa dominata dall’astrattismo del giusnaturalismo protestante.


Ultimi fiori della Napoli che è l’anima che muore per mano della europeizzaziome favorita dai Borboni. Coloro che si affermarono fisicamente in Napoli re soltanto napoletani determina­rono precisamente la fine del Regno sui piano spi­rituale; perché i re delle Spagne governarono co­me napoletani benché fisicamente risiedessero lontano, mentre ora un francese intraprende in Napoli una politica europea.


Si determinò un vero furore collettivo per allon­tanare da Napoli i napoletani, come se con la usci­ta dalla confederazione "missionaria" delle Spagne l'anima e la cultura patria avessero perdute la loro ragione d'essere.


Potrebbe applicarsi a tutti i rami del pensiero e delle lettere quello che Fer­dinando Galìani scrisse, con drammatici e tristi accenti, intorno all'uso della lingua: “Allo splen­dore di questa nuova luce di scienza e di sapere, la nazione vide con altr'occhio se stessa e ne ar­rossi. Per la connessione già formata nelle idee, è divenuta impossibile a staccare, fu il suo stesso linguaggio, quello che maggiormente la percosse e la ricopri di umiliazione e di rossore. Quasi si vergognò d'aver parlato. Ma non segui a si fatto rincrescimento la natural risoluzione di emendare e purgare il suo dialetto. Ne fu presa un'altra non meno strana che disperata. Si risolvè unanimemente di rinnegarlo, abborrirlo, deriderlo, così per stimolo d'onore (cosa incredibile!), venne la nazione tutta mettersi a schernire e vilipendere se stessa. Poco mancò che non restasse mutola in tutto. Ma. per non perdere il maggior contrassegno dell'uomo, qual'è la favella, fu risoluto abbrac­ciar con fervore, non già il comune italiano ma il pretto stringato idiotismo toscano. Si fecero venir a furia di Toscana l'edizioni degli autori resi sacri nella lingua della indeclinabile sentenza del­la Crusca; se ne ristamparono qui moltissimi; s’ap­presero quasi a mente. Tutti si dettero a rivoltar vocabolari. grammatiche, regole di ben parlar to­scano. Niccolo Amenta, insiem con altri pubblica­rono volumi su qualunque minuzia grammaticale toscana. I nostri dotti non s'occuparono quasi in altro. Divennero arditissimi e sminuzzatissimi pa­rolai E, quasi in espiazione del nostro lungo pec­cato fu avidamente impreso a parlar e scrivere nel più ricercato favellar fiorentino. Come suonas­sero bene dentro le bocche doriche napoletane, i motti, le celie, i riboboli, le facezie, i gorgheggi e tutti i vezzi di Mercato vecchio, può ciascuno immaginarselo”.(2)


I vecchi nemici del secolo XV, i francesi, i to­scani, si prendevano la rivincita. Già non v'era più un pugno fermo e un temperamento pari a quello del Cattolico Ferdinando, già le Spagne vin­te agonizzano, e tra le Spagne vinte agonizza Napoli.


Quando nel 1860 si realizza l'unità risorgi­mentale all'insegna dell'immagine barbuta, pie­montese, europea e anticlericale dì Garibaldi, il corpo morto del Regno di Napoli si dissolverà co­me un cadavere da cui centocinquanta anni ad­dietro sia volata via l'anima.


Però l'Europa vincitrice non perdonò a Napoli l'aver combattuto per la causa della Cristianità. I vinti pagano e Napoli paga ricevendo il disprez­zo dei vincitori, né più né meno che il resto dei popoli spagnoli.


Il più doloroso fu che qui inoltre il disprezzo veniva dai "fratelli" del nord della pe­nisola dai fiorentini e dai veneziani che in altri tempi avrebbero voluto porre il Regno di Napoli in mano ai turchi.


La famosa questione meridio­nale non era e non è non quella della inadatta­bilità di Napoli, a causa dei suoi residui di ispani­smo, alle concezioni europee che sulla punta delle loro baionette innalzavano gli invasori garibal­dini.


Il termine di "questione meridionale" — ha scritto Salvatore Francesco Romano — per desi­gnare con una formula comprensiva la difficoltà incontrate dal nuovo stato nell'estendere le isti­tuzioni piemontesi alle provincie del Mezzogior­no(3). Sorto i Savoia Napoli è solamente una "questione" : "assimilazione".


Molte cose restavano in piedi nella infraistoria dei costumi, ora dopo che il Regno di Napoli è cadavere dal 1700 e fu sotterrato nel 1860. Per esempio, l'idea di Dìo o il concetto della donna, la cui armonia morale e fisica, la cui integrità umanissima in Napoli è stata illustrata da uno scrit­tore tedesco come la conseguenza del modo di sen­tire spagnolo e antieuropeo del Mezzogiorno della penisola italiana.(4)


Però, in sintesi, il Regno di Napoli è oggi pura archeologia e eseguire indagini in studi della qua­lità del presente è come scavare tombe popolate da ombre fuggite. Sopra le quali cade a volte la "passione" nemica che un Gabriele Pepe dice por­re nel suo II Mezzogiorno d'Italia sotto gli Spa­gnoli; passione dì odio marxista contro la Cristia­nità, impiantato in uno dei più vergognosi casi di cinica indocumentazione scientifica che io cono­sca, nel compilare un libro con mal cuciti estratti di altri.(5)


Non è mio scopo quello di fare la storia delle istituzioni, ma quella delle idee, e negli studi che ora inizio quello che cerco è di misurare la linea della partecipazione o della non partecipazione del pensiero napoletano nella polemica ispanico contro il pensiero politico europeo. Per ricostruire la storia del morto e sepolto Regno di Napoli, sarà questo uno dei necessari angoli visuali. Da questo punto di vista, d'altronde, tal volta risultano in chiara luce molti aspetti della Napoli dei nostri giorni.





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(1) “Il genio bellicoso di Napoli”. Memorie Istoriche d'alcuni capitani celebri napoletani c'han militato per la Fede, per lo Re, per la Patria, nel secolo corrente - Napoli, Pirrino e Mutii, 1694 - Due Tomi.


(2) Ferdinando Galiani “Del dialetto napoletano 1779” Ed. di Fausto Nicolini – Napoli, R. Ricciardi, 1923, pagg. 196-198.


Antonio Altamura ha potuto parlare con ragione della “Tirannide linguaiola dei cruscanti” nella pag. 31 della sua eccellente introduzione al Dizionario dialettale na­poletano, Napoli, Fausto Fiorentino, 1956

(3) Salvatore Francesco Romano “St. della questione meridionale”, Palermo, Pantea, 194S. pag. 11.


(4) U. Mantèll “Kleine Kulturgeschichto der grossen Sehnsucht“. Traduzione italiana sotto il titolo di Picco­la storia del peccato. Milano. Longanesi, 1952 pag. 271


(5) Firenze G. C. Sansoni, 1952, pag. IX della “Premessa”