sabato 8 novembre 2014

R.P. Matteo Liberatore d.C.d.G. IL MODERNISMO OSSIA LA RIVOLUZIONE

La Civiltà Cattolica anno XXXIV, serie XII, vol. III (fasc. 797, 23 agosto 1883), Firenze 1883 pag. 537-551.
 
 
 

R.P. Matteo Liberatore d.C.d.G.

IL MODERNISMO OSSIA LA RIVOLUZIONE

I.

L'illustre Carlo Perin, professore di economia politica nell'Università Cattolica di Lovanio e corrispondente dell'Istituto di Francia, ha dato ultimamente alla luce, col titolo di Mélanges de politique et d'économie una raccolta di opuscoli, riguardanti quistioni sociali di alto interesse, segnatamente ne' tempi nostri. L'idea che domina in essi è quella stessa che ha informato le sue grandi opere, lo sceveramento cioè de' principii della libertà cristiana dalle false massime della libertà rivoluzionaria. Non crediamo di dover trasandare un libro di così profittevoli ammaestramenti; e però non potendo parlarne nella rivista della stampa italiana, per essere scritto in lingua straniera; ne faremo argomento di qualche articolo, cominciando in questo dall'opuscolo intitolato: Le modernisme dans l'Église, d'après des lettres inédites de La Mennais.
La parola modernismo è nuova. Ma la sua introduzione è bastevolmente giustificata dal linguaggio degli scrittori liberaleschi; i quali adoperano costantemente l'epiteto di moderno, per significare la natura de' concetti e delle aspirazioni della rivoluzione, dicendo: Idee moderne, società moderna, diritto moderno. Onde colla frase modernismo non vuole esprimersi altro, se non lo spirito che avviva l'odierna Rivoluzione. Esso consiste nella così detta autonomia dell'uomo, nella emancipazione della sua volontà da ogni legge positiva o naturale divina, nella sostituzione dell'uomo a Dio nel governo della società umana. «L'essenza del modernismo, scrive l'Autore, è la pretensione di eliminar Dio da tutta la vita sociale. L'uomo, secondo l'idea moderna, essendo Dio a sè stesso e padrone sovrano del mondo, esige che nella società tutto si faccia da lui o per la sola autorità della legge da lui emanata. Questo è il modernismo assoluto, in contraddizion radicale coll'ordine sociale fondato dalla Chiesa, e secondo il quale la vita pubblica e la vita privata si riferivano al medesimo ultimo fine, e tutto dovea esser fatto direttamente o indirettamente in vista di Dio e sotto la suprema autorità del potere istituito da Dio per l'ordine spirituale [1]
Oltre questo modernismo assoluto «ci ha (prosegue il Perin) un modernismo temperato che non fa apertamente la guerra a Dio, e viene in qualche modo a composizione con lui. Senza negarlo nè combatterlo, egli lo regola, ponendolo sotto il diritto comune, il solo luogo che gli lascia occupare presso gli uomini. Con questo contegno, pur conservando le apparenze d'un certo rispetto, il modernismo mette Dio sotto la dominazione e la tutela dello Stato. Siffatto modernismo temperato e circospetto costituisce il Liberalismo in tutte le sue varie gradazioni e sfumature.
«Ma, si ponga ben mente, in ambo i sistemi il principio è lo stesso. Si tratta sempre di fare una società senza Dio, o almeno di stabilire la società, tenendo Dio lontano, quanto è possibile, dalle sue istituzioni e dalle sue leggi. Secondo le circostanze, la Rivoluzione s'inclina all'una parte o all'altra, restando sempre la stessa quanto alla sua pretensione fondamentale: la secolarizzazione della vita sociale in ogni ordine e sotto tutte le forme [2]
In questi brevi tratti l'Autore ci ha come dipinto il vero spirito della Rivoluzione moderna ne' due suoi rappresentanti: il Radicalismo e il Liberalismo; e additata la fonte da cui deriva tutto ciò che stiamo vedendo nei diversi Stati d'Europa, intorno al matrimonio, all'insegnamento, alle pubbliche manifestazioni del culto, e in generale intorno alla separazione dello Stato dalla Chiesa, e alla violazione dei diritti di essa Chiesa.

II.

Disgiungersi da Dio, è disgiungersi dal principio di vita. Una società cosiffatta è un cadavere, che si muove per forza di galvanismo. Omnes, qui elongant se a te, peribunt [3]; [«Tutti coloro, che da te si allontanano, periranno» cfr. Ps. LXXII, 27. N.d.R.] è sentenza che colpisce, non meno degl'individui, la società. E ben l'esperienza ce lo conferma: perocchè dappertutto cotesta funesta apostasia non ha saputo fare altro che accumulare rovine, senza fondare nulla di salutare. Tolto Dio e la sua legge, non resta che l'uomo mutabile, soggetto a tutti gli errori della sua fallibile ragione, e a tutte le corruzioni della sua fragile volontà. Una società, formata con tali elementi, non può avere nè stabilità di principii che accordi le menti, nè amore di bene che leghi gli affetti. Essa naturalmente deve scindersi in partiti: ciascun dei quali cerchi di prevalere, ed agitarsi in cerca di un ignoto avvenire, che non serve ad altro che a fargli odiare il presente. Sempre malcontenta, sempre bramosa, sempre in lotta intestina, una società cosiffatta finirà collo sciogliersi e perdere la stessa effimera unità che tien congiunte le morte membra di un corpo separato dall'anima. La morte è via alla putrefazione. Non è quindi da meravigliare del grido, che d'ogni parte si solleva contro l'idea stessa di Stato, di Governo, di Società, non esclusa perfino la coniugale.
L'Autore descrive l'origine e il progresso dello spirito rivoluzionario, da lui, come dicemmo, designato col nome di modernismo. Esso cominciò col Protestantesimo; il quale negando la Chiesa, sottrasse lo Stato da ogni direzion religiosa. Si afforzò poscia col filosofismo, che rimosse ogni credenza e s'impromise di assicurare la felicità de' popoli, indipendentemente da ogni autorità divina. Due uomini, il Montesquieu e il Rousseau, l'uno padre dell'odierno liberalismo, l'altro dell'odierno radicalismo, espressero con singolare chiarezza l'idea d'ambidue i sistemi, e tracciarono la via che questi poscia percorsero infino a noi. Il Montesquieu separò la politica dalla religione, come più tardi Adamo Smith separò l'economia dalla morale. Egli insegnò che la libertà non è che il diritto di fare ciò che le leggi permettono; inculcando così l'onnipotenza, e supremazia della legalità civile, voluta dal liberalismo. Il timore dell'Indice non gli permise d'essere più esplicito nelle sue massime; ma lo costrinse bene spesso a tenersi nell'indeterminato e nel vago. Il Rousseau fu libero da siffatti riguardi. Il Contratto sociale non contiene nessuna delle esitazioni e reticenze, di cui è pieno lo Spirito delle leggi. Il filosofo ginevrino stabilì nettamente e svolse nelle sue conseguenze il principio rivoluzionario della sovranità dell'uomo sopra sè stesso e dell'autonomia della sua ragione. Per lui la volontà generale, espressione suprema della ragion collettiva del popolo, è fonte primo di ogni legge, e la legge da tal fonte derivata governa l'uomo sociale con impero supremo ed assoluto. Egli parla talvolta di Dio; ma ne parla come di un concetto individuale, relativo alla coscienza privata, ma non come di un superiore di cui bisogna rispettare socialmente le leggi. Dio nella società, concepita dal Rousseau, potrà esercitare qualche influenza, ma non mai possedervi alcuna autorità propriamente detta. Abbiamo qui il modernismo puro e semplice: Dio eliminato dalla vita sociale, e l'uomo sostituitovi da sovrano assoluto, che colle sole naturali sue forze saprà ordinare la società e guidarla al verace perfezionamento.
Sopra cotesti principii cercò di elevare l'edifizio governativo la Convenzione francese; e da essi, dove più dove meno, ricavarono le regole di reggimento politico i sistemi rappresentativi de' giorni nostri.

III.

Finchè il modernismo si rimane puramente liberale e rivoluzionario, è certamente un nemico implacabile, da cui possiamo aspettarci ogni male. Nondimeno esso in tale stato è almeno un nemico palese, di cui si ravvisano i colpi per ischermirli e ribatterli. Non così, quando ci si presenta sotto sembianze di amico, si mostra tenero della causa cattolica, sente con noi in molte cose, e s'intromette nelle nostre file. Allora esso è un nemico mascherato e nascosto, che ci assalisce di soppiatto, e però senza lasciarci agio di opporgli a tempo i mezzi di difesa. È questo il Liberalismo cattolico, o Cattolicismo liberale che voglia dirsi.
«Da cinquant'anni in qua, scrive l'Autore, il Liberalismo cattolico, conquista e complice inconsapevole del modernismo, crea ai difensori della dottrina e delle tradizioni sociali cattoliche strani imbarazzi, e alla Chiesa difficoltà più grandi di quelle ch'essa incontra da parte de' suoi nemici più dichiarati. — Questi uomini diceva il grande Pontefice Pio IX, i quali si sforzano di stabilire un accordo tra la luce e le tenebre, sono più pericolosi e più funesti che gli aperti nemici. — Importa oggi più che mai recar piena luce sopra le teorie e le tendenze di questa scuola, dopo che essa ha creato nella politica conservatrice questi partiti di opportunismo, ai quali la Rivoluzione contemporanea deve i suoi più grandi successi [4]
L'Autore ravvisa l'origine di cotesto Cattolicismo liberale in La Mennais; il quale nell'Avenir e più nelle Paroles d'un croyant «abbozzò il disegno d'una conciliazione della Chiesa di Cristo, fondata sopra tutte le affermazioni della Fede, col Modernismo che riassume tutte le negazioni dello spirito del male e che fatalmente va a perdersi nelle selvagge negazioni del nihilismo [5].» Egli dunque prende ad esporne i concetti, non già perchè essi siano oggidì pienamente abbracciati dal cattolicismo liberale, ma per mostrare le funeste idee che si nascondono sotto le scaltre e sottili equivocazioni, a cui passo passo i cattolici liberali sono stati costretti di ricorrere per isfuggire alle condanne di Gregorio XVI e di Pio IX.
«Per fermo, scrive il Perin, presentemente nessuno, anche tra quei cattolici, che il liberalismo ha più sedotti, non vorrebbe, di proposito deliberato, ciò che voleva il La Mennais. Quanto all'intenzione i cattolici liberali non hanno in animo di fare, se non quello che la Chiesa li autorizza a fare. Ma le buone intenzioni non salvano dalla tirannia della Logica; la quale, accettati che siano i principii, mena inevitabilmente là, dove non si amerebbe di andare. Noi non possiamo ben giudicare della portata delle teoriche del Cattolicismo liberale, se ci fermiamo a considerar solamente le proporzioni ristrette, a cui l'han condotto, per prudenza o anche per deferenza all'autorità ecclesiastica, coloro che lo professano al giorno d'oggi. Per comprendere ciò che coteste teorie contengono in germe, ciò che esse possono dare un giorno, ciò che fatalmente daranno, se esse non vengono fermate nel loro cammino, uopo è riguardarle quali erano, allorchè il genio audace di La Mennais pretese imporle alla Chiesa a malgrado delle censure de' suoi Pontefici [6]
L'Autore riporta otto lettere, finora inedite, di cotesto patriarca del Liberalismo cattolico, «per servirsene (son sue parole) come di una lente d'ingrandimento, a fine d'investigare nella profondità de' loro nascondigli i sistemi di cotesto scaltro modernismo, che Roma ha tante volto abbattuto, e che l'illusione de' suoi adepti ha sempre fatto rivivere [7]

IV.

Le lettere, di cui parliamo, si riferiscono al tempo, in cui il La Mennais pubblicò le Parole d'un credente. Noi non possiamo in un breve articolo riportarle per intero. Ne sceglieremo soltanto i tratti più rilevanti, nei quali con parole più crude annunzia quegli stessi principii, che in maniera più mite e in grado più rimesso si trovano in fondo dell'odierno cattolicismo liberale.
Nella prima lettera, dopo aver detto che il suo libro (Les paroles d'un croyant) è irreprensibile e che contiene i principii più puri del Cristianesimo, così prosegue: «Nondimeno, quali che possano essere le disposizioni personali di Roma, io non dubito punto che la diplomazia otterrà da lei, in questa occasione, tutto ciò che vorrà. Certamente ci sarà un atto qualsiasi contro di me. Non sapendo ciò che s'immaginerà, io non posso parimente sapere ciò che farò. Solamente la mia intenzione è di restare sottomesso nella Chiesa, e libero fuor della Chiesa. Quanto poi ad essa Chiesa, mi sembra che, indipendentemente da ogni specolazione e veduta filosofica, è impossibile non ammettere che ella andrà soggetta a grandi riforme, a una necessaria trasformazione, che nessuno sa in che consisterà e per conseguenza nessuno deve credersi chiamato ad operarla. Quindi nell'aspettazione di ciò che sarà, si deve rimanere unito all'Istituzione esistente, aderendo di cuore a tutto ciò che è buono e vero, separandosi di cuore da tutto ciò che è cattivo e falso, senza però occuparsi, per quanto è possibile, di fissare esattamente la distinzione tra ciò che è divino e ciò che è umano, cosa talvolta difficilissima.» Quindi parla del progresso dell'umanità e però del Cristianesimo; giacchè «il Cristianesimo e l'umanità non sono che una stessa cosa [8].» Lasciando indietro cotesto empio naturalismo, e la stolta sua conseguenza di riputar trasformabile la Chiesa di Cristo (cose certamente abborrite dai cattolici liberali), ponga mente il lettore a quella massima: Sottomesso nella Chiesa, e libero fuor della Chiesa. Egli vi scorgerà il principio della separazione pratica della politica dalla religione, più o meno professato da molti che pur si credono buoni cattolici. Si obbedisca alla Chiesa in ciò che riguarda dommi e morale; ma si pensi, anche a rovescio di lei per ciò che riguarda l'ordine politico; quasichè si dia politica senza morale.
Nella seconda lettera il La Mennais dice di essere profondamente persuaso che «i cambiamenti che si preparano nel mondo, lungi dall'essere operati dalla Chiesa, lo saranno a malgrado di lei; perciocchè essi debbono portare nel loro seno la riforma che salverà il Cristianesimo, riforma che la gerarchia, corrotta in sì gran numero de' suoi membri, non solamente non potrebbe volere, ma a cui resisterà fino all'estremo delle sue forze. Io credo di più che questa resistenza non è sì viva e sì generale, se non perchè essa dev'essere come il segnale d'un'era novella e d'un nuovo stato, di cui Dio stesso gitterà i fondamenti. Io credo infine che s'approssima il tempo d'una manifestazione divina qualsiasi, a cui i cristiani sono disposti dalle loro stesse tradizioni, contenuto nei libri santi. Resta sempre certo che in ciò, che tocca le quistioni pratiche, chiunque vuol operare ed operare nel senso suggerito dalla ragione e dalla coscienza, deve separarsi dal Clero. Il menomo contatto con lui intormentirebbe [= intorpidirebbe N.d.R.] come la torpedine, se pure non uccidesse repentinamente. Or, messa a parte la religione, non resta che la scienza e la politica... Per me, io vorrei, se fosse possibile, non pronunziare neppure la parola Cattolicismo. Allora io crederei poter, coll'aiuto di Dio, consacrare alla sua causa sforzi che non siano del tutto sterili [9].» Qui oltre al tornare sulla stupida idea della trasformazione della Chiesa, costituita da Cristo come immutabile e indefettibile sino alla consumazione de' secoli, abbiamo l'alienamento dal Clero, espresso oggidì coll'odio creato all'epiteto di clericale, e l'insana fiducia di conseguire il perfezionamento sociale in virtù della scienza e della politica, indipendentemente dalla Chiesa cattolica.
Nella terza lettera egli parla del progresso umanitario, secondo il quale «l'uomo si solleva descrivendo una spirale immensa, intorno all'asse eterno, di cui la sommità, che è Dio, si nasconde ai nostri sguardi nella profondità infinita [10].» Tu scorgi qui i sogni razionalistici, mescolati di quel panteismo, in cui il La Mennais precipitò finalmente.
Nella quarta lettera esprime a mezza bocca le sue aspirazioni socialistiche; il cui commento si trova nelle parole d'un credente, e di cui basterà ricordare un solo periodo: «Iddio non ha fatti nè grandi nè piccoli, nè padroni nè servi, nè re nè sudditi; egli ha fatto tutti gli uomini eguali [11].» Eguali senza dubbio, nell'essenza, ma differentissimi nelle accidenze. E dalle accidenze, non dall'essenza nascono le diversità sociali. Cotesti fautori dell'eguaglianza demagogica si versano sempre in un sofisma, che sarebbe indegno di uno scolaretto di Logica. E il più curioso si è che essi stessi sono ampollosi banditori di libertà, senz'avvedersi che la libertà è fonte necessaria non di eguaglianza, ma di disuguaglianza tra gli uomini.
Nella quinta lettera torna sull'idea del doversi procurare il progresso sociale indipendentemente dalla Chiesa, e della riforma della Gerarchia. Calunnia la Chiesa di esser legata all'assolutismo ed obbliar la causa de' popoli; perchè la causa de' popoli, secondo lui, consiste nella libertà sconfinata e senza legge. Sottrae lo Stato da ogni subordinazione alla Chiesa, inducendo una specie di manicheismo sociale. Infine mostra di professare un cristianesimo vago, appoggiato alle grandi idee, definite dal suo privato cervello. «Quanto alle quistioni più generali (scriveva egli al suo corrispondente) noi abbiamo le stesse previsioni sopra lo stato futuro della società. Solo differiamo sopra un punto, ed è che io ne tiro la conseguenza che noi dobbiamo affaticarci a effettuare questo stato coi mezzi che sono in nostro potere, e quindi senza la Chiesa; la quale, legata alla causa dell'assolutismo, nega il suo concorso a quella de' popoli: mentre che voi credete non doversi operare che con la Chiesa. Ma se tutti i cristiani restano in questa inazione, che diverrà il mondo; io vi dimando? Oltrechè non è questo un confessare implicitamente che il mondo dev'essere politicamente diretto dal Potere religioso, e per conseguenza un disconoscere, almeno nella pratica, la distinzione delle due società e la loro indipendenza reciproca?» Poscia soggiunge: «Io ignoro ciò che Dio farà della Gerarchia, in che consisteranno le riforme universalmente giudicate necessarie, fin dove elle si stenderanno. Tutto questo mi è ignoto, ed io certamente non ne saprò più in questo mondo. Bensì quello che so, è che qualsiasi cambiamento di questo genere non iscuoterà in alcun modo in me le grandi basi delle credenze cristiane, come qualsiasi cambiamento nella forma di governo non iscuoterà le mie credenze sociali [12]
Nella sesta lettera sfoga il suo livore contro Roma per l'enciclica papale, in cui veniva condannata la sua opera: Paroles d'un croyant. Secondo l'usanza dei liberali, egli rappresenta il Papa come circonvenuto dagli intrighi delle Corti, come una voce non più ascoltata nel mondo, e che «maledice i popoli in nome di Cristo per ordine dei più gran nemici di Cristo [13].» I cattolici liberali non giungono a sì oltracotata forsennatezza. Ma ben sovente dicono ancor essi il Papa raggirato da una combriccola di retrogradi, tratto dall'altrui inganno ad operare contro il proprio sentire, e cose simili.
Nella settima lettera torna sopra i suoi sogni umanitarii della nuova era del genere umano, e profetizza che tra venti anni tutto il mezzodì e l'occidente di Europa sarà repubblicano [14].
Infine nell'ottava lettera il La Mennais si compiace della rivalità d'insegnamento che vede sorgere nel Belgio fra l'università cattolica di Lovanio e la liberale università di Brusselle, persuaso che la libera discussione non può menare che al trionfo della verità. Poscia ripete le sue illusioni sul progresso indefinito e indeclinabile del genere umano. «Io so che qualche cosa si farà, che dei gran cambiamenti si compiranno. Ma questi cambiamenti, di cui io non saprei calcolare l'estensione, avranno per effetto di far avanzare il genere umano. Per me non vi ha dubbio possibile a questo riguardo; e ciò mi basta. Vi hanno cose temporarie, cose di transizione che io ignoro, e mi rassegno ad ignorarle, contemplando con gioia il termine finale che m'apparisce, se io non m'inganno, in seno ad un immenso splendore [15]

V.

Come accennammo, in queste manifestazioni di puro radicalismo, mescolate ad aspirazioni religiose di un vago cristianesimo, si trovano involti sotto forma più cruda i principii stessi che molti illusi de' giorni nostri credono di poter professare, rimanendo cattolici. Voi vi trovate il timore di apparir clericali, espresso, con quella frase più libera d'intera separazione dal Clero. Vi trovate la ripugnanza a dichiararsi pienamente cattolico, espressa colla frase più sozza di voler evitare, se fosse possibile anche il nome di cattolicismo. Vi trovate la confidenza esagerata nella virtù della scienza, espressa colla bestemmia che essa giungerà a trasformare la stessa Chiesa. Soprattutto vi trovate i due principii, tanto accarezzati oggidì, della libertà da concedersi come alla verità così ancora all'errore; e della distinzione tra cittadino e cattolico, quanto al pratico operare dell'uomo. In virtù del primo si veggono persone anche di ottima intenzione e pie sostenere che deve darsi libero corso a qualsivoglia dottrina, vera o falsa che sia, buona o perversa. E non s'avveggono i dabben uomini che questa massima mena direttamente all'ateismo sociale e allo scetticismo religioso? Essa suppone che Dio non comandi nella società umana, e che egli non abbia istituita la Chiesa come colonna incrollabile di verità e banditrice infallibile della sua legge. Fuor di dubbio, se non ci è altra regola per discernere il vero dal falso, il bene dal male, che la propria individuale ragione; niuno ha diritto di far prevalere la propria opinione, a fronte della contraria. Nè lo Stato, anche in nome della maggiorità cittadinesca, può arrogarsi di dar legge a coscienze, proclamate autonome e sovrane. L'uomo, comunque ingrandito per numero, non può mai imporsi ad altro uomo. Il numero dà la forza, non il diritto.
Ma diversamente va la bisogna, quando l'uomo e la società si concepiscono sotto l'autorità divina. Dio, assoluto padrone di tutti e di tutto, può imporsi all'intelletto colla rivelazione, e legare la volontà col precetto. Egli può esercitare questo suo diritto, come gli aggrada, o per sè stesso o per mezzo di suoi rappresentanti; e lo Stato, che riconosce Dio, può e dee prestare il suo braccio a far rispettare i divini ordinamenti. L'agguagliare, ne' diritti la verità e l'errore si fonda come in premessa nell'apostasia sociale da Dio. Chi vuole la prima cosa, dee logicamente volere altresì la seconda. E così il Liberalismo da questo lato mena necessariamente al Modernismo assoluto.
Sommamente ingannevole è poi la ragione, che arrecano, cioè che, lasciata in libera lotta la verità e l'errore, la prima immancabilmente sarà vincitrice. Ciò avverrebbe, se la verità e l'errore combattessero nell'ordine astratto come due forme platoniche, per sè sussistenti. Ma amendue combattono nell'ordine concreto, individuate entrambe nell'uomo; e bene spesso l'una senza il presidio della scienza, come accade nelle ignare moltitudini, ed osteggiata da furenti passioni; mentrechè l'altro, oltre il potente aiuto di esse passioni, ha per sè il lenocinio della viva immaginazione, dell'accessibile sofisma e della seducente eloquenza. Se l'errore affrontasse la verità nella sola persona de' dotti ed adulti e morigerati, de' forti insomma; anche noi non dubiteremmo della vittoria di questa. Ma esso va ad assaltarla nella persona de' deboli, vale a dire de' popolani, de' giovani, de' magagnati dalle lusinghe del vizio. In costoro la verità, per difetto non suo ma del soggetto, non ha forze bastevoli da resistere, e soccomberà senza fallo, se non viene protetta dai poteri pubblici, il cui còmpito principale è appunto la protezione del debole.
È curioso poi che con aperta contraddizione confessano ciò i liberali stessi nella faccenda del Socialismo, alla propagazione del quale oppongono argini politici. Non veggono gli sconsigliati che ciò che ha luogo per l'errore socialistico, lo ha parimente per l'errore religioso e morale. Ma l'egoismo fa lor velo alla mente e li fa seguire due norme diverse.
Se socialmente funesto è il principio della libertà accomunata alla verità e all'errore, forse è ancor più funesto l'altro principio liberalesco, della distinzione tra il cittadino e il cristiano nel pratico operare dell'uomo. Esso mena alla turpe teorica delle due coscienze, e al sottraimento della vita civile e politica dalla morale. In virtù di questa distinzione nel senso liberalesco si veggono talvolta persone, che pur si vantano di cattolicismo, dichinarsi ad azioni offensive di Dio e della Chiesa, scusandosi con dire che queste son da loro operate sotto l'aspetto politico o civile, prescindendo dal religioso. Ma dunque ci ha una doppia legge morale, sicchè un'identica azione sia onesta insieme e disonesta, secondo che all'una o all'altra si riferisce? Ovvero il libero operare dell'uomo, in quanto cittadino, è scevro da moralità ed esente dalla legge divina? Se ogni azione libera dell'uomo non può non rivestire carattere morale ed essere buona o rea, e se la bontà o reità delle nostre azioni si deriva dalla lor convenienza o disconvenienza col fine ultimo e supremo; niuno può, operando vuoi come cittadino vuoi come semplice uomo, fare astrazione da quella qualità che lo pone in relazione col fine predetto. Tal è la qualità di cattolico per chi ha la ventura di trovarsi nella vera Chiesa di Cristo. Egli dunque non può prescinderne giammai negli atti della sua vita, quali che sieno. Ogni sua azione dee a quella conformarsi o almeno da quella non disformarsi.
Ma è da tornare all'opuscolo del Perin.

VI.

Il cattolicismo liberale ha in questi ultimi tempi presa presso molti la forma d'opportunismo; il quale consiste in sostituire ai principii gli espedienti. «L'opportunismo conservatore, scrive il Perin, è una delle creazioni più astute e più perfide dello spirito moderno. Esso si presenta a noi sotto le apparenze d'una virtù, che è riuscito a trasformare in vizio. La prudenza; è questa la parola che gli opportunisti hanno sempre in bocca, e di cui essi si servono per coprire la loro apostasia in fatto di dottrina, e la loro tendenze a sempre cedere. Essi hanno per principio di non avere alcun principio, o almeno di agire in politica come se non ne avessero alcuno. Gli opportunisti non sono punto per la rivoluzione; ma essi non vogliono essere del tutto contro di lei. Spiegare coraggiosamente la propria bandiera sul terreno della politica, contro una potenza che oggidì regna e s'introduce dappertutto, è una temerità che muove a compassione la sapienza dell'opportunismo. Qual sarebbe la bandiera da spiegare? Non ci ha che una sola bandiera, intorno a cui possiamo presentemente rannodarci per combattere efficacemente la Rivoluzione, ed è la bandiera di Dio e della sua Chiesa. Proudhon predica a modo suo i due stendardi, quando ci mostra il mondo moderno diviso in due campi: quello della Chiesa e quello della Rivoluzione. Tal è la verità della condizione presente. Ma affermare i diritti della Chiesa è una cosa, che la circospezione opportunista colloca tra gl'impossibili. I savii di questo partito dicono, colla loro abituale moderazione, che sarebbe una pazzia. D'altra parte quanti opportunisti ci sono, i quali, pur temendo e respingendo la Rivoluzione, non hanno fede nella Chiesa ed appena ne hanno un poco in Dio. Per costoro è naturalissimo che invece di lottare di fronte contro la Rivoluzione, cerchino di usare scaltrezza con essa e contenerla a via di espedienti, adescandola col gittarle in pasto una parte delle cose che vorrebbero salvare [16]
L'Autore giustamente dimostra quanto sia perniciosa, ne' suoi effetti, questa politica improvida e sconsigliata. Essa snerva gli animi, indebolisce le forze, e spunta le armi di difesa e di offesa, a fronte dell'avversario. Per opposto ella cresce ogni dì più l'ardire di questo, gli fa guadagnare continuamente terreno, gli accumula i mezzi per assaltare con isperanza di sempre miglior successo. L'ultimo termine di questa tattica sarà inevitabilmente la piena vittoria della Rivoluzione. «Si cercherebbe indarno, (son parole del Perin) in una società caduta in mano dell'opportunismo una forza di resistenza seria. L'opportunismo obbedisce a una legge di continuo svigorimento, il quale deve alla fine abbandonare l'ordine sociale alla Rivoluzione. Tutti i maneggi, tutti gli accorgimenti, coi quali gli opportunisti si studiano di schivare il nemico, affrettano il momento di cadergli nelle mani. Ogni evoluzione dell'opportunismo è una concessione intesa a placare un avversario, che egli in sostanza deve credere invincibile, perchè professa nella vita pubblica principii simili ai suoi. Se non che, ciascuna concessione incoraggia la Rivoluzione, nel tempo stesso che disarma l'opportunismo. Contrariamente ad ogni regola di guerra, si vede la difesa, per proposito deliberato, sminuire le proprie forze di mano in mano che l'assalto diventa più fiero. Nè può essere altrimenti; perocchè quanto più cresce l'audacia dell'avversario, tanto il periglio diviene più grande; e per sottrarsene, conviene, secondo il principio dell'opportunismo, moltiplicar sempre più le concessioni. È un cammino fatale e sempre più accelerato verso l'abisso. La vittoria della Rivoluzione è dunque certa; poichè a misura che ella si mostra più violenta, l'opportunismo, per restar fedele a sè stesso, deve mostrarsi sempre più indulgente e più rassegnato. Si aggiunge costantemente debolezza a debolezza, e la moderazione opportunista s'avvia per un disfacimento progressivo d'idee e di posizione a una catastrofe inevitabile. Il modernismo moderato degli opportunisti mena la società, che disarma, all'ultima sventura, alla vittoria cioè definitiva del modernismo puro e semplice, il quale intende di espellere dalla società il Padrone del cielo e della terra, come, non ha guari, espelleva dalle loro dimore quegli uomini, che avevano la modesta pretensione di servire, lontani dal mondo, secondo la loro coscienza, Colui, che tutti son tenuti di servire [17]
Il lettore non si dispiacerà di questa lunga citazione; perocchè essa esprime l'oggetto con tanta precisione e lo dipinge sì vivamente, che ce lo pone in certa guisa dinanzi agli occhi. Ed è necessario ben ravvisarlo. La società presentemente corre tremendo periglio, e si aggira intorno a un abisso, di cui non è dato scorgere il fondo. Essa vi precipiterà senza fallo, se alla Rivoluzione, che ve la sospinge, non si oppone pronta e vigorosa resistenza. Ma ogni resistenza riuscirà vana, se essa non è sapientemente intesa e fortemente adoperata. Stolto è il pensiero di vincere la Rivoluzione o almeno ammansarla, [= ammansirla N.d.R.] venendo a patti con essa. Mal si patteggia con chi ha giurato di spegnerti. Da un nemico siffatto non salva la conciliazione, ma il conflitto. È questo il caso di ricordarsi di quella sentenza di Cristo: Non veni pacem mittere, sed gladium [18]. [«Non son venuto a metter pace, ma guerra.» Matth. X, 34. N.d.R.]
Vero è che a mettere in uggia coloro che così pensano, e ad assottigliarne le file, la rivoluzione ha inventato i soprannomi di intransigenti, di zelanti, di fanatici, di uomini del tempo che fu, e non sappiamo che altro. È questa un'arte finissima, che ella adopera per allontanare quanti più può dall'esercito, che la fronteggia, e all'opposto per ingrossare il numero degli opportunisti, che loda a parole ma in cuor suo disprezza. Per mala ventura il tristo giuoco pur troppo riesce ad inganno di molti, in cui l'amor di Dio e della Chiesa è semispento, e vivo l'amor di sè stessi e de' proprii vantaggi, e della propria pace; egoismo, che essi anche a sè medesimi cercano di nascondere col velo della moderazione.
Ma da debolezze siffatte ben si servano immuni i sinceri cattolici, i quali antipongono Dio e la Chiesa ad ogni riguardo o suggerimento di privato interesse. Essi terranno testa alla Rivoluzione, senza dietreggiare d'un passo. Fidenti in Dio e nella santità della causa, per cui combattono, opporranno armi ad armi, assalto ad assalto; e respingeranno sdegnosamente ogni frodolenta proposta di finta pace. Per non errare poi nei giudizii, o negli affetti, o nelle operazioni di guerra, essi terranno sempre docile l'orecchio alla voce, e fermo il guardo ai cenni del Vicario di Cristo, che Dio ha dato loro per condottiero in questa santa milizia, ed a cui solo egli ha promesso immancabile assistenza di lumi e di grazia, per trionfare di Satana e delle sue masnade.


NOTE:

[1] Mélanges etc. pag. 123.
[2] Ivi p. 124.
[3] Psalm. LXXII, 27.
[4] Pag. 129.
[5] [Ivi. N.d.R.]
[6] Pag. 131.
[7] Pag. 131.
[8] Vedi pag. 134.
[9] Pag. 137 e 138.
[10] Pag. 143.
[11] Pag. 147.
[12] Pag. 150.
[13] Pag. 157.
[14] Pag. 161.
[15] Pag. 165.
[16] Pag. 179.
[17] Pag. 178.
[18] Matth. X, 34.