sabato 4 ottobre 2014

Epistola sulla storia del Reame di Napoli di Pietro Colletta (Antonio Capece Minutolo)

EPISTOLA OVVERO RIFLESSIONI CRITICHE SULLA MODERNA STORIA DEL REAME DI NAPOLI DEL GENERALE Pietro Colletta OPERA Di ANTONIO CAPECE MINUTOLO PRINCIPE DI CANOSA EC. EC.



L'odio de' sediziosi che intorbidano uno Stato, è per un cittadino consagrato agli interessi della sua patria, ed oppresso dalle manovre di questi nemici dell'ordine sociale, la più gloriosa ed insieme la più onorevole di tutte le testimonianze che altamente proclamano la sua innocenza. Se egli stato fosse così colpevole da passare ne' ranghi de' faziosi, invece di odiare la loro perversità e lasciarli in braccio all'anatema, i faziosi onorato l'avrebbero e compensato. Se fedele alle leggi della monarchia non avesse opposto al partito de' malcontenti che una debole barriera, in tal caso egli oscuro ed incognito non sarebbe stato l'oggetto di un'avversione inveterata, né da vittima della più terribile vendetta. Egli ha dunque dritti tanto più certi alla stima e riconoscenza de' suoi concittadini quant'è più violentemente odiato da' nemici dello Stato, e quanto maggiore è il furore col quale da costoro se ne procura il discredito. Quest'odio, che lo perseguita sino alla regione della morte, sarà agli occhi della posterità la più bella apologià della di lui innocenza, ed il più magnifico documento de' luminosi servigli da lui resi al trono ed alla patria.
Tali potenti argomenti di solida logica (superiori peraltro all'intelligenza de' politici del progresso ed acuta critica) applicava monsignor Tharin Vescovo di Strasburgo alla calunniata Compagnia di Gesù. Sono questi applicabili egualmente al Principe di Canosa calunniato sempre egualmente dalla liberalesca canaglia.



AVVISO INTERESSANTE   AI   LETTORI
OSSIA  PREFAZIONE
 
Scriveva il Bali Sanminiatelli (in un suo opuscolo sulla partenza coatta dal Portogallo dei legittimi eroici Re Don Carlo V e Don Michele I, pubblicato il dì 15 giugno del decorso anno, nell'ultima pagina del medesimo) = che essere non potevasi politicamente nemici del Principe di Canosa, o senza una completa aberrazione di idee, o siv-vero senza esserlo al tempo stesso della causa augusta della religiosa e politica legittimità =. Tale insigne Per­sonaggio rammentava, illustrando e corroborando il finale di detto suo opuscolo con alcuni gravi memorabili accenti che si leggono in una delle molte di lui preziose produ­zioni politico-polemiche.
Pure, a gloria della moderna mancanza di senso comu­ne, non va così il negozio. Sonovi anzi in gran numero dei colali, che mentre si spacciano e vengono riguardati come legittimisti, attaccano, con acrimonia e sotto mille modi e forme, questo veterano intrepido della legittimità, superando nei loro attacchi inconseguenti e nauseanti li stessi settarii e falsi liberali. Alcuni exempli gratia asseri­scono essere testa calda, quando non ha errato in un solo vaticinio, ed altro caldo la di lui testa non agitava ne agita che quello di realizzare il vero segreto e specifico per deprimere in eterno i bollori delle rivoluzioni e dei rivoluzionarii. Altri, meschinamente maligni ed immensa­mente imbecilli, proclamano, che non possiede dono di scelta né colpo d'occhio fisionomista di persone, quando seppe scegliere e conoscere, con tatto pronto e sicuro, nelle sue prolungate militari fazioni di Ponza ec, e nei suoi due periodi di ministro d'alta polizia in Napoli, e quando, fuori di carica, non gradì mai d'essere da veruno intrinsecamente avvicinato. Molti poi protestano che la polemica di lui abbia più danno che vantaggio arrecato alla causa augusta  della  religiosa e politica legittimità, quando fatti lampanti hanno dimostrato e dimostrano ai meno veggenti, che se fossero stati amministrati i di lui specifici governativi  antirivoluzionarii e  del tutto con­sentanei alla giustizia cummutativa e distributiva, invecechè i cataplasmi stomachevoli della politica detta con-ciliatrice di amalgama, le società Europee non galoppe­rebbero verso l'anarchia universale, ed i governi legittimi non si troverebbero nella posizione umiliante e spaven­tevole di non avere altro scampo e rifugio che le baionet­te ed i cannoni.
Dunque simile genia di politici, attraverso la qualità venerabile che pretendono di legittimisti, di zelanti soste­nitori dell'Altare e del Trono, facendo guerra al Principe di Canosa, non ponno essere, in sostanza, che o neutri egoisti, o assoluti imbecilli, o compiici celati delle sette e della diabolica Propaganda. Dunque il Bali Sanminiatelli non errava, ne chicchessia abbia scritto, o scriva in tal proposito in buona fede e con cognizione di causa, non ha errato né errerà a qualificare e caratterizzare i nemici politici del detto insigne Personaggio nel modo dal citato opuscolo stabilito.
Quindi, con qual coraggio o impudenza, simili politici, che si piccano e si vantano di legittimismo, potranno as­salire il Principe di Canosa, senza raccapricciare ed essere lacerati, se fossero sinceri, dai crudeli rimorsi dell'ingra­titudine la più perfida e la più ributtante, pensando ai beni immensi che a tutte le monarchie e legittimi gover­ni ha arrecato questo (ripetiamolo con gaudio) glorioso veterano della buona causa, armato di una costanza e di un vigore sempre crescente per il corso di un mezzo secolo, in mezzo ad inauditi cimenti di disgrazie e di seduzioni luminosissime, nel mentre che tutto d'altronde perdeva della sua rimarcabile domestica fortuna, e di nul­la  veniva ricompensato?
Le gesta del Principe di Canosa sono note all'Italia ed all'Europa, e l'istoria imparziale le registrerà nei fasti sa­cri all'onore patrizio e cavalieresco, negli annali della ve­ra scienza politica e governativa; le di lui opere moltepli­ci ne costituiranno le prove, e collocandolo a lato degli uomini insigni che ammiriamo, lo vendicheranno delle a-marezze ed ingratitudini pregnanti che soffre ed ha soffer­to. Né il sentimento dell'amicizia, che ci gloriamo di pro­fessargli, ci fa travedere, e ci porta ad esagerare in simile pronostico. Serva il dire, che la prepotente onnipotenza di Napoleone non potè scuotere l'imperturbabile fermez­za, coraggio e vigore di Canosa, e che i di lui satelliti intronizzati a Napoli trovarono nel medesimo un avver­sario che sconcertò e più volte distrusse le inique mano­vre loro vilissime. Serva il dire che quando la reale di­nastia dei Borboni trovavasi vincolata in Sicilia, ove più vegetativa che governativa la vita menava sotto le coa­zioni del gravoso protettorato inglese; i buoni sudditi e cittadini fisse teneano le pupille sopra Canosa; Lui solo riputavano capace di parlare la verità al suo Re, di non transigere con gli stranieri dominanti; e difatti sempre degno si mantenne, anzi ogni dì meritò maggiormente si­mile lusinghiera immacolata opinione. In tal modo il par­tito legittimista per Lui aumentavasi ed invigorivasi, di guisachè molteplici sforzi operare doverono i ministri settarii che il regno di Napoli e Sicilia, dopo la restaura­zione, diressero, per menomarlo ed avvilirlo, ne mai però, coi loro diabolici conati, pervennero ad onninamente di­struggerlo.
E per un Personaggio di questa portata, martire quasi diremo della legittimità e della fedeltà, attaccato, assalito da soggetti che si piccano e si vantano di legittimismo re­ligioso e politico, come non credere che tal guerra incon­seguente e maligna sia per produrre uno scandalo este-sissimo fra i buoni, come non vedere questo alla causa dell'Altare e del Trono di gran lunga più dannoso che una battaglia perduta (dietro quanto insegnavano gli antichi greci etico-politici), e come non temere che somministri alle sette ed ai settarii un campo va­stissimo di seduttrice polemica per guadagnare terreno e proseliti?
Ma qui non finisce. Un'occhiata alla condotta ed ai nuovi meriti del Principe di Canosa dopo le gloriose gior­nate francesi lugliatiche, e rinverremo nuovi argomenti per conquidere i suoi avversarii legittimisti pretesi. Lo spirito pubblico legittimista languiva maggiormente nel­l'Italia centrale nel 1831 prostrato dai parossismi della rivoluzione. Tanti e tanti ottimi sudditi della legittimità avviliti, timidi, in ispecie in Romagna, soffrivano le ram­pogne, i motteggi, le oltraggianti calunnie che i settarii, ed i giornali venduti alla Propaganda, ed all'esiziale, così detta, giovine Italia lanciavano frequentemente, con au­dacia demagogica furibonda, contro i migliori Sovrani della nostra penisola, contro il Clero secolare e regolare, ed in particolar modo, contro la celebre e benemerita Com­pagnia Gesuitica, e perfino, oh!  raccapriccio!  contro lo stesso Vicario di Gesù Cristo!!! In questa crisi di paura, d'apatìa, di scoraggiamento nei buoni, chi si alzò animoso a difendere i depressi, a confortare gli spiriti avviliti, a por argine, in una parola, al torrente rivoluzionario? Chi se non il Principe di Canosa imperterrito, mentre altri legittimisti palpitavano del pugnale liberalesco, e delle future minacciate vendette della  diabolica  Propaganda, impugnò il brando, uscì solo avanti tutti per porsi alla testa della nuova crociata dei difensori dell'Altare e del Trono? Chi infuse il novello coraggio al legittimismo ita­liano, onde osarono i buoni proferire la bella confessio­ne = lo sono realista, e me ne glorio; io sono legittimi­sta, e pronto sono a comprovarlo coi fatti; io sono papa­lino, e più felice di tutti, perche nel Capo sommo della Chiesa Cattolica Apostolica Romana riconosco eziandio il mio sovrano temporale? = Questo vigore legittimista, questo unico soprabbondante riparo alle devastazioni li­beralesche settarie, tutto è dovuto al Principe di Canosa (tanto ingratissimamente trattato e bersagliato da quegli insetti dorati che si fanno chiamare politici legittimisti), è dovuto al diluvio dei suoi opuscoli che disingannarono infiniti sedotti, ed arrossire fecero e ricredere i liberali di buona fede; è dovuto al giornale della Voce della Ve­rità, suscitato a di lui pensiero, premure ed istanze, gior­nale che altri ne svegliò di eguale spirito intrepidi e dot­tissimi, come La voce della ragione ec, giornale che esal­tò i vantaggi religiosi e politici delle missioni apostoli-che, quali  riportarono  e riportano frutti  ubertosissimi, che fanno e fecero schiantare di rabbia i corifei balbu­zienti delle odierne infernali dottrine; giornale infine che presagì, consolidò e commendò l'istituzione pregiatissima  in Italia dei militi volontarii, istituzione pure, la cui idea è dovuta al nostro veterano della legittimità.
Ma qui non termina ancora. Un'ultima considerazione emettiamo sulla persona del Principe di Canosa. Noi pe-ranche si vive e si abita sopra un vulcano. Invero finché la Francia sarà retta, o per meglio dire, lacerata da un capo illegittimo, finché le massime sovversive e chime-riche = della sovranità del popolo, della giustizia e del­la ribellione, della filantropia della propaganda = non sa­ranno rovesciate e distrutte dai governi legittimi colle parole e coi fatti; noi abbiamo purtroppo ad ogni istante da temere un nuovo rovescio, un nuovo parossismo rivo­luzionario; ed in tal caso li inetti politici pretesi legitti­misti, che fanno guerra al Principe di Canosa, non pen­sano di quale utile può essere la sua persona in tali de­solanti emergenze per il sostegno dell'Altare, del Trono, dell'ordine pubblico in generale. Ciechi che sono, o tra­ditori iniqui! Non vedono forse che in veruno più che in Lui, il popolo delle città e delle campagne  riporrebbe maggiormente la sua fiducia? Di cosa sarebbe, sotto la sua direzione, capace di operare e d'intraprendere contro le masnade rivoluzionarie? Quali concetti intemerati ed on­nipotenti esso solo, in seguito della sua precedente condot­ta, avrebbe diritto di proferire per elettrizzarlo, ed ogni certezza per credere di non parlare senza effetto? Quale stoltezza adunque  o perfidia,  incoerenza  o  aberrazione d'idee è dato di rinvenire superiore a quella di simili bestialissimi politici, che nel mentre cimentano l'interesse pubblico legittimista, tentando minare un colosso propor­zionato per sostenerlo, rimangono d'altronde delusi nei loro maligni farisaici desiderii, giacché, a forza d'attacca­re, di deprimere il Principe di Canosa, lo rendono più chiaro, più risplendente, lo pongono sul candelabro della giustizia e delia verità? Ecco dei veri nemici dei popoli;  imbecilli ed iniqui ad un tempo, ed assai peggiori delle sette e del falso liberalismo. Et nunc Reges intelligite, erudimini qui judicatis terram!!!
Dopo tutto ciò si penserà forse che noi vogliamo con­cludere essere il Principe di Canosa da difetti libero ed esente? Noi siamo ben lontani da tale stolta stranissima pretensione. Septies in die peccai justus. E chi, nel rigor poi del termine, di dirsi giusto può vantarsi? Dunque noi non pretendiamo il vanto pel Principe di Canosa, sebbene adorno di straordinari pregiabili qualità. Quindi noi in Lui abbiamo distinto l'uomo pubblico dal privato. Materia non ci mancava per tessergli elogii lusinghieris-simi anche come uomo privato, ma noi sol qual uomo pubblico l'abbiamo proposto, e come tale conveniamo col Bali Sanminiatelli ed altri molti, che non si può politi­camente dichiararsi suoi nemici. Converremo inoltre che alcuni difetti leggieri, se si vuole, compariscano in un esemplare sì bello ed ammirabile, ma non potremo mai persuaderci che tali inezie che divengono un nulla al con­fronto ed al riverbero dei suoi reali meriti e virtù, possa­no formare soggetto e motivo di guerra accanita che gli fanno persone quali si vantano per difensori della reli­giosa e politica legittimità. Ci convinceremo sempre più di questo assurdo deciso, leggendo e meditando nel pre­sente libro la vigorosa confutazione che il Principe di Canosa ci presenta contro le calunnie sparse a di lui ca­rico nella moderna istoria del regno di Napoli di Pietro Colletta. Vivete sani.
IL BALI SANMINIATELLI suddetto.
 Mio caro amico e compare.
Niente affatto. Assicuratevene in buona fede. Non che darmi la menoma pena, mi è stato graditissimo il dono che mi avete fatto, nel mandarmi la storia del Regno di Napoli scritta da quel reverendissimo Padre della Patria, il defunto Pietro Colletta. È vero che di me scrive quel tristo tutto il peggio che possa immaginarsi: questo stes­so però mi reca il più grande onore. Conciossiachè se venne sempre reputata cosa pregievolissima la lode uscita dalle labbra di soggetto lodevole, non deve per la ragione potentissima de' contrarii essere da riguardarsi onoratissimo quell'uomo contro cui si scagliano a centinaia i dardi dagli uomini riconosciuti come ribelli e traditori recidivi contro ogni legittimo Potere? 1 Dunque, non che disgu­starmi, massimo è stato il mio contento nell'osservare che io era in odio a quel falso liberale, come lo sono, per grazia di Dio, a tutti i confratelli di lui, a tutti i demagoghi.
Che se questa isolata ragione il più gran diletto, an­ziché disgusto dare mi dovrebbe, quanto maggiore questo si deve accrescere trovandomi nel caso di mostrare che quanto di me disse quel maligno fu tutto falso, e tutto dettato da odio e rancore, perché io in un modo pensava totalmente in opposizione de' falsi liberali? Che non sono loro avverso, che per aver fatto tutti i miei sforzi per arrestare il corso delle furfanterie di loro. Dirò ancora, quale maggior piacere di quello di mostrarlo in faccia alla posterità come il più grande somaro? 2
Se dunque somaro (senza contrasto come il dimostrerò) era Colletta cui pure il falso liberalismo, e vecchi pec­catori tanti onori fecero in vita tanto che in morte) cosa si deve credere e pensare degli altri, che la plebe chia­meremo del liberalismo? Or dunque quale maggior con­tento per un apologista della causa dell'altare e della le­gittimità il poter dimostrare alla incauta gioventù quale specie di tristi e furfantacci sian quelli che cercano se-durla ed ingannarla onde fare all'Italia nostra quel regalo stesso, che uomini al di sotto in meriti scientifici e mo­rali di Pietro Colletta hanno fatto alla Spagna ed al Por­togallo!!!  Senza perdermi intanto in ciarle e poco utili ragionamenti, verrò subito alle prese col mio novello Irò, augurandomi farlo saltare le tante volte dall'arcione, quan­te mi verrà incontro colla fragile sua lancia. No, mio caro amico. La sorte del Colletta sarà la stessa che quella del conte Orloff, dell'estensore del foglio letterario di Lon­dra, degli estensori della Giovine Italia, e di tutta quella liberalesca birbaglia 3 che ha osato finora attaccarmi con raggiri, con cabale, con calunnie. Sì; tosto che chiunque di essi ha abbandonato i sotterranei, facendo la guerra di mine nell'oscuro della notte, quando comparsi al chiaro della luce hanno osato attaccarmi colla pubblicità della stampa, al primo incontro fino a questo presente giorno, colla grazia di Dio, li ho costantemente e sempre cacciati fuori di sella passando loro un troncone di lancia per il  petto.
Ed affinchè dire non possa chicchessia che io nel bat­termi a singoiar tenzone col Colletta usi le male arti pra­ticate da falsi liberali e miscredenti (che nella polemica recano i testi degli avversarii mutilati o falsificati), re­cherò alla distesa i testi della storia del Colletta, che mi riguardano (non avendo né il tempo né la voglia di cor­rergli appresso in tutta l'opera), dopo esposti i quali, se­guirà la mia confutazione. Or su dunque, valente paladi­no del secolo del progresso dei lumi, snuda pure il tuo ferro, e vieni allegro e coraggioso ad attaccare il vecchio polemico dell'oscurantissimo cattolicismo, e della legitti­mità. In aria modesta, ma impavida insieme egli ti aspetta nell'arena alla vista meno che de' viventi, della impar­ziale posterità. Squillino dunque le trombe guerriere, e l'attacco incominci.
« Gli eletti al pari del popolo commossi dalla empietà « degli incendii e dal timore di più grandi rovine, con-« sultarono dello Stato; proponendo, chi ordinarsi a repubblica per ottenere facile accordo da' francesi, chi « trattar pace per danaro, chi cercare alla Spagna nuovo « re della Casa Borbone, e chi (fu questo il Principe di « Canosa che qui nomino acciò il lettore lo conosca da' « suoi principii) comporre governo aristocratico, essendo « le democrazie malvagie, e la monarchia di Napoli, per « la fuga e gli spogli, decaduta. Fra pensieri tanto varii e « non consoni a' tempi si sperdevano i giorni. » (a)
 (a) Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, del generale Pietro Colletta. Capolago, Cantone Ticino, tipografia Elvetica, voi. II, lib. Ili, § 41.
Fin qui il testo del falso liberale. Ecco la mia risposta che sommetto agli uomini indifferenti, ed ancora a quelli stessi liberali non giacobini o sansimoniani, né che appar­tengono alla giovane Italia cui rompete di diritto il titolo di canaglia.
Il Principe di Canosa in quell'epoca aveva l'età di trentuno anni. Egli dopo aver compito il corso de' suoi studii in Roma nel Collegio Nazareno, avendo preso in moglie Donna Teresa Galluccio figlia ultima del Duca di Toro, menava una vita tutta applicata. Egli sortiva di casa pochissimo; trattava quasi che veruno; tutto dedito agli studi. La gradita applicazione di lui fu quella di co­noscere la verità della cattolica cristiana religione. Prese le debite licenze, lesse le opere più classiche degli antichi e moderni miscredenti, e de' più famosi apologisti roma­ni. Dopo questo studio, fatto con tutta la possibile rifles­sione e solerzia, si diede a quello de' classici greci (di cui la lingua aveva studiata con assiduo travaglio) e latini. All'applicazione sopra i classici greci e latini, accoppiò lo studio degli autori più celebri del dritto di natura, delle genti, pubblico, e criminale; funzionando spesso perciò da avvocato de' rei militari. Egli aveva dato in quell'epoca alla luce varie di lui opere come la versione de' Dialoghi de' Morti di Luciano; l'utilità della Monar­chia nello stato civile; la dissertazione sul mistero della SS. Trinità; la risposta all'avvocato fiscale D. Nicola Vivenzio ec. ec.
Ciò premesso, agevol cosa diviene il concepire che il Principe di Canosa in quell'epoca, anziché doversi giudi­care un asino, dovea essere invece reputato come un giovane mediocremente istruito, e specialmente nella branca del diritto di natura e pubblico, come nello spirito della scienza de' civili reggimenti, materia, sulla quale aveva colle stampe pubblicate parecchie opere.
Ma se al monarchico reggimento (non decaduto come folleggiando sostiene l'autore; avvegnaché il re Ferdinando IV, lasciato in Napoli avea un governo, e forza da sostenersi, erasi ritirato nell'altro contiguo di lui Regno di Sicilia) il Principe di Canosa avesse per un momento creduto, poter sostituire l'aristocratico avrebbe dato la prova la più luminosa di essere un ribelle ed insieme un somaro. Dunque l'assertiva ultronea, e senza addurne la meno­ma prova, deve in conseguenza esser falsissima. È mio dovere provare la minore del mio sillogismo. Ora nulla di ciò è più facile per coloro, che come me, hanno passato le notti intere impallidendo sopra i classici.
Tutti i politici (alla testa de' quali metterò Aristotile) insegnano che qualunque monarchia moderata tanto (co­me le cristiane cattoliche) o dispotica non può per rivolu­zione far passaggio al reggimento aristocratico. Conciossiachè il corso regolare della vita civile de' governi (in quanto alle forme) è il seguente. Dalla monarchia mode­rata si passa al dispotismo, indi alla tirannide. Da questa per universale sommossa si passa all'anarchia, da questa alla oclocrazia, dalla quale si fa alla regolare democrazia passaggio. E siccome una tale forma complicatissima di governo fu sempre niente adattata all'umana natura; do­po brevissimo periodo, subentra al democratico reggimen­to l'aristocratico, dal quale si fa all'oligarchia quasi sempre passaggio. Nascendo in seguito nuove civili conturbazioni e sommosse, lo stadio della vita politica de' governi prin­cipia da capo.
Che se tanto insegnano i politici in teoria, non viene contraddetta questa da' fatti che leggiamo nelle istorie. Un solo esempio (per quanto dopo tanti anni di lontanan­za da' libri) mi rammento, in cui venne proposto in pro­getto alla monarchia il sostituire aristocratico reggimento. Fu questo in Persia quando stato era da satrapi deciso ammazzare il gran Re della monarchia Persiana pseudo-Smerdi. Siccome però in quel rincontro non universale rivoluzione sceneggiò, ma congiura di ottimati, come Erodoto ci riferisce, così ancorché un tale fatto avesse avuto esistenza, alterata punto con una sola eccezione non avreb­be la regola politica; avvegnaché la congiura nulla ha che dividere colla generale sollevazione, come in Napoli in quell'epoca   sperimentavasi,   tutto   essendosi   alzato   il popolo.
Sia però ciò che si voglia delle dottrine politiche, e delle esperienze che riceve il saggio, quando la storia leg­ge con ponderazione; nulla di tali materie avesse avuto mai cognizione il Principe di Canosa (per quanto avesse con opere pubblicate fatto conoscere l'opposto) come poter immaginare per le mille, che al monarchico reggi­mento sostituire l'aristocratico fosse possibile!!? Igno­rava forse che l'oltramontana armata canaglia tre vetuste rispettabili aristocrazie distrutte avea in Venezia, Genova e Lucca? Ignorava che folleggiano i Galli da democratici, e che però era impossibile che in Napoli tollerata aves­sero quell'aristocrazia che distrutta aveano in Genova, Lucca e Venezia, dappoiché, assai più che la monarchia, ad ogni popolare reggimento avversa è l'aristocrazia? 4
E ciò noi fosse stato. Siccome però la onnipontenza di Dio non ha sopra questa nostra terra data esistenza a corpo materiale qualsivoglia senza forma; né forma aven­do tampoco Dio creata divisa dalla materia; in quale guisa potea il Principe di Canosa concepire la forma sen­za materia, o per rendermi più intelligibile come potea immaginare   un'aristocrazia  senza  materia   aristocratica?
Perdonino la libertà che io mi prendo nel candidamen­te esporre la verità gli uomini patrizii della mia stessa classe di Napoli tanto che di parecchie altre città d'Italia. Erano forse molti nel regno di Napoli que' signori, a' quali per istruzione, per magnanimità, per coraggio to­gato e sagato potersi affidare il governo di un'aristocra­zia? Ma se tra i nobili, uomini stati vi fossero di un tale disimpegno capaci, ed a tante alte funzioni idonei, si sarebbono fatti tanto vilmente bastonare dai Vivenzio,, dai Zurlo, e da tanti di loro sudditi, che passando dal­l'aratro alla toga li tartassarono? Se patrizii di così altamente e cuore intrepido in Napoli stati vi fossero, sa­rebbe nato colà il giacobinismo, e prosperato con tanta alacrità? Né ragionerò diversamente delle altre parti d'Italia. Se Genova avesse avuto alla testa dell'aristocra­tico suo governo la sola terza parte di quegli antichi pa­trizii che la repubblica di loro condussero ad uno splen­dore eminente, avrebbe curvato il capo alla prepotente, ladra, oltramontana democratica canaglia?
Ma cosa dirò di Venezia!! Io mi tacerò piuttosto. Il mio silenzio sarà eloquentissimo. Solo il silenzio difatti e l'umiliarsi innanzi a Dio può essere il partito che pren­der deve il saggio quando lette le istorie della nostra pe­nisola, dopo avere ammirati con istupore le gesta degli antichi Veneti Patrizii, rimira e considera la codarda con­dotta tenuta da' successori di quelli nel rincontro, in cui ogni politica esistenza perdettero. Gli Ateniesi un dì vin­citori in Maratona, indi i medesimi Ateniesi vinti ad Egos-Potamos  è  il  solo  confronto  che  loro  conviensi.
Ora ignorava forse il Principe di Canosa tutte queste cose e questi pubblici fatti, che cadevano sotto gli oc­chi di tutti, sopra i quali ragionavasi ogni dì? Vedendo estinto ogni vigore e spirito patrizio in tutto il rimanente dell'Italia; quali belle ragioni poteva avere per crederlo vigente nella nobiltà napoletana? E non essendo tali, come immaginare il poter formare, senza materia aristo­cratica, una aristocrazia?!!
Conveniva al Colletta, ed a tutti coloro che una tale chimera immaginarono, di mostrare primieramente che il Principe di Canosa un ribaldo fosse ed un somaro, come il sono di fatto tutti quei falsi moderni liberali, che contro ogni legge divina ed umana non cercano che ribellarsi e formare democrazie senza materia democra­tica. Imperciocché se il principio costituente, ed infor­mante di ogni governo di larghe forme, e specialmente della democrazia, è la virtù, in qual maniera augurarsi repubblica quando i cittadini sono senza religione, senza costumi, senza virtù qualsivoglia sia religiosa o civile?
E ciò che solo sarebbe troppo sufficiente per convin­cere ogni illuso; ciò che persuadere dovrebbe l'inesperta, ed ignorante gioventù, che i demagoghi non mai la ren­deranno più felice, ma che di essa si servono soltanto come della carne da macello, e da cannone; questo stesso, dico, che forma la piena mia giustificazione, dimostra nel tempo stesso che il mio avversario (benché defunto) è un somaro, ch'era quello che mi proposi dimostrare.
« Così stando le cose, giunsero nel pieno della notte i « legati della città (ventiquattro popolani caldissimi) tra' « quali era il Canosa, nato Principe, aristocratico per « dottrina, plebeo per genio: tutti guidati dal generale « del popolo Moliterno. » (a) i Vol.. II, lib. IlI, § 43.
Nulla avrei che replicare sopra un tale passo. Avendo dimostrato, che se la mia dottrina era aristocratica, era però subordinata alla monarchia, non ho che controporre.
Così se mi nomina plebeo per genio non s'inganna. Conciossiachè, per quanto costantemente sia io stato av­verso alle dottrine moderne, pertanto tutti coloro che mi conoscono, sanno che ho io amato con sincerità il popolo. Non ci era plebleo, per vile che fosse stato, da me rigettato giammai. Nelle calamità il popolo trovò in me l'amico e l'avvocato. Quando penuria di viveri tor­mentava il popolo, era io quello che intercedeva per lui, e cercava con tutti i mezzi muovere il cuore del buon Ferdinando IV. Napoli non ignora, che anzi è notorio, l'attacco da me sostenuto coi miei colleghi nel 1816 quando per il caro prezzo de' commestibili languiva in Napoli la povera gente, e di fame molti morivano. Di sasso i cuori de' miei colleghi, il Medici avendomi detto non esserci ove prendere il denaro per sovvenire gli af­famati, io risposi esser pronto rilasciare l'intero mio soldo per fare questa buona azione.
Sono plebeo per genio perché sono cattolico romano per convincimento. Non ho mai corbellato il popolo dandogli ad intendere (come praticano, per ingannarlo, i demagoghi) che esso era il sovrano di dritto; che potea far tutto ciò che gli gradiva, che sarebbe stato ricco ed eguale a' più gran signori dopo la rivoluzione, con tutte quelle altre minchionature ed inganni, che verso il popolo usano i falsi liberali: l'ho per altro amato di cuore; l'ho soccorso quando ho potuto, e con tutti quei mezzi che poteano es­sere alla mia disposizione. Se dunque ciò intende il nostro Tacito in farsetto, non gli contrasterò la  proposizione.
Io sino dal principio scrivea, non intendere punto fare la critica alla storia di Colletta. Non ne avrei il tempo, né meriterebbe che mi dassi questa pena. Scrivo soltanto, perché non lascio senza risposta ciò che si scrive contro me. Ripeto, non ho attaccato mai nessuno: attaccato però mi sono difeso. Per quanto dunque non sono per notare altri isterici errori, che quelli che mi riguardano, pure questo riscontro, siccome il Colletta dice che il Principe di Moliterno veniva alla testa della legazione che il corpo di città spedì a Championet, così noto in questo luogo che quanto dice è positivamente falso, per cui inventata di pianta è la concione che il nostro novello Tucidide (di Pasquino) pone in bocca del Principe di Moliterno.
In quell'ambasceria spedita dal corpo di città a' de­mocratici soldati affamati non ci erano di patrizii che il solo D. Michele Pignatelli de' principi di Monterò tondo, ed io che era, pel seggio capuano, uno dei due deputati di Buon Governo o della interna tranquillità. Al generale Championet parlò D. Giovanni Ferrara popolano, ch'era un ministro del negoziante D. Gennaro Verrusio, che tanto ne imponeva sul popolo, e meritatamente, essendo uomo di probità, di carità, e ricco di talenti naturali, av­vegnaché era profano ad ogni sorte di lettere. Ho voluto notare ciò, onde avvertire i leggitori di quella storia af­finchè giudichino quale fede merita quello schifoso Re-verendisimo Padre della Patria. Se in un fatto notorio, e sincrono (come direbbero i Greci) ha preso un tale gran­ciporro, cosa sarà del rimanente della storia? Una con­giura contro la verità, oggetto principale di ogni storia. È vero, che il Principe di Moliterno andò ancora esso legato all'esercito francese, ma ci andò posteriormente. Né pare che avesse mai dovuto fare quel discorso che gli pone in bocca il Padre Colletta. Conciossiachè chi avrebbe fatto quel ragionamento al generale nemico! Non è rego­lare che poi si fosse chiuso nel castello di Sant'Elmo, ed, innalzata bandiera nemica, dopo avere abbassata quella del proprio monarca, mostrarsi ribelle al Re, e traditore di quel popolo che avea in esso lui riposta ogni di lui fiducia. Apparisce ancora per la seconda volta che il re-verendisismo Padre della Patria è uno scemonito men­dace. Che era ciò che mi proposi dimostrare.
 Andarono alla pena i condannati, e tra loro il giovane Principe di Canosa, dichiarato fellone perché propose, come altrove ho riferito, il mutamento del principato in aristocrazia; tre degli otto giudici, più severi « lo punivano di morte; gli altri benigni, perdonando l'inezia del voto, lo gastigarono di soli cinque anni di « carcere. » (a) (a) Vol. II, lib. V, § 7.
Né una sola parola di vero dice il nostro Cornelio Ta­cito redivivo, per quanto di quel giudicio si ricordino tutti, e ne avrebbe lo storico potuto conoscere la verità (se pure la verità i falsi liberali cercassero giammai) dall'ultimo scrivano o sgherro di quel tribunale, che pa­ragonare si potrebbe a quelli, in cui il liberalismo si determina punire gli ecclesiastici, i legittimisti o qualsi-voglia onesta persona.
Nulla di vero. Conciossiachè, essendo stato (per que­sta sola causa politica) al tribunale della giunta di Stato uniti i direttori tutti delle segreterie di Stato (avendo alla testa il venerando luogotenente generale del Regno l'eccellentissimo sig. Principe del Cassaro siciliano) i giu­dici furono molto più di otto.
Falsissimo che tre furono gli giudici che punivano di morte il giovane Principe di Canosa. Attraverso della ferocia di quel tribunale, non che della frammassoneria influente (che fin d'allora riconosceva in me avversario da essere temuto, se la politica perduto non avesse il senso comune) pure non fu che un solo di quei cannibali togati, che principiò a votare di morte contro quel Prin­cipe di Canosa che, essendosi battuto col popolo contro gli oltramontani filibustieri, non potea essersi misurato coll'inimico straniero che per il Re, non per l'aristocrazia. Appena però poche parole in questo sentimento di voto proferite avea il pazzamente feroce Vincenzo Speciale, che il venerando Principe del Cassaro (modello del patri­ziato per fede verso il Re, per onore, e vigor togato in­sieme, non che per maniere splendide e costumi inteme­rati) aggrottò le ciglia, e mosso ad ira, rivolto verso quel togato carnefice gli disse: ancora questi a morte?!! La mossa di quel primo rappresentante del Re rispettabile nel tempo stesso e rispettato, se non fece arrossire, ed impallidire insieme lo Speciale, noi fu perché quell'uomo vile era stato dalla madrigna natura negato ad ogni uma­no sentimento. Egli però dal voto di morte passò a quel­lo di esilio perpetuo.
Nessun altro osò dare voto di morte al Principe di Canosa:   giudici che anzi vi furono che votarono per la libertà. Don Francesco Migliorini (che divenne in seguito segretario di Stato pel ripartimento della giustizia) votò, affinchè relazione fosse stata fatta a Sua Maestà per espor­re i meriti del giovane Principe di Canosa, onde guider­done, non che pena, fosse stato al medesimo dato. Ed invero io non che combattere col popolo per la causa del Re, ed avere dalle finestre gettato in gran copia denaro al popolo per maggiormente animarlo al combattimento; grande rischio passai di essere fucilato sul momento da' rivoluzionarii. Mercé i buoni ufficii dell'ottima Duchessa d'Andria Pignatelli, il Principe di Canosa potè sortire dal suo nascondiglio, munito di salvacondotto di Championet ed altri generali francesi, che non si seppero negare alle preci della  rispettabile Duchessa,  alla  quale il giovane Principe di Canosa nelle peripezie della famiglia di lei prestati avea interessanti servigi.
Attraverso  di   tutto  ciò  siccome  l'avversione, che  il Principe di Canosa avea verso le politiche novità era troppo conosciuta, né poteano nascondersi le relazioni, ch'egli avea coi capi del popolo (alla Maestà del Re at-taccatissimi,  anziché  alla  sognata  ridicola  aristocrazia), così, partito che fu da Napoli il generale Championet (che potea dirsi ben diverso del rimanente della demo­cratica birbaglia), venne il giovane Principe di Canosa as­salito in casa nel più buio della notte da cinquecento guardie nazionali. Nel corso del giorno, condotto nel castel di S. Elmo non ismentì giammai il suo carattere, né sia per timore, sia per adulazione, verso i prepotenti oppressori, pose in forse i conosciuti di lui principii, sia­no stati essi religiosi o politici. Si sostenne sempre con dignità, né nascondendo giammai l'attaccamento verso il legittimo Re. Venne ancora in calde dispute cogli avversarii della religione e della monarchia. Non fu raro anzi il caso, che il Principe di Canosa, sebbene prigioniero ed inerme, si attaccò e gravemente percosse taluni giacobini (con tutta la soddisfazione de' francesi, che disprezzava­no quella vile canaglia). Vive ancora (per quanto credo) uno di essi che alla presenza di molti RR. PP. della Pa­tria venne atrocemente da me bastonato nel castel di S. Elmo, e quando? Quando un sedicente consiglio di guerra, senza costituto, e senza difesa (basta ciò soltanto per conoscere quanto siano esatti i liberali nell'adem-piere le loro promesse) condannato mi aveva a morte, e mi era stata la sentenza notificata!!
Ora tutte queste cose essendo conosciute da tutti i realisti, che si trovavano prigionieri in quel forte, per ordine della bernesca repubblica Partenopea, e trovan­dosi ancora il generale de Gambs (che fu poi uno dei giudici nella causa del magistrato di città) spettatore oculare di tali avvenimenti, si alzava furioso per difen­dere non la mia supposta fellonia, non la mia innocenza, ma i miei distinti meriti, e lo zelo ardente col quale mi avea veduto difendere non l'aristocrazia, ma il monar­chico legittimo reggimento, e la sacra persona del mio Re, col quale non avea altro legame, che quello che Id­dio ne impone verso i suoi rappresentanti in terra, che ha reso depositarii del potere.
Quanto ho finora scritto in confutazione di quest'arti­colo della storia del Colletta, che mi riguarda, considerar si dee come un vero nulla riguardo a ciò che vengo a dire, a ciò che riempirà della più grande sorpresa i miei leggitori.
Quello che vengo a porre sotto la considerazione di coloro cui rimane in questa età di vere tenebre e cor­ruzione, un avanzo di buon senso, è che il generai Col­letta ribelle al Re nel  1799, indi nella seconda ostile
invasione de' Francesi, e per la terza volta nell'epoca della bernesca costituzione del 1820, nomina me (Nesto­re insieme ed Achille della legittimità) fellone, suppo­nendo il dimostrato mendacio che nel 1799 voleva al monarchico sostituire l'aristocratico reggimento!!
Or se io per disprezzo vengo da quel fior di canaglia nominato fellone, cosa dovrei io, e tutte le persone che non hanno interamente perduto il senso comune, dire di lui? Se io combattendo col popolo nel 1799, arrestato da' giacobini indi condannato a morte: poscia uno di quei pochi che la regia dinastia in Sicilia seguirono, indi ac­canito sostenitore della gloria del Re per tre anni in Ponza colla spada alla mano; poi colla penna nelle Spagne da Legato ec. ec, merito la taccia di fellone; quale epiteto merita il Colletta, non che tutti coloro che occupano ne' diversi Regni le prime cariche militari e civili, mentre la legittimità tante volte tradirono, quanti loro i rincontri se ne presentarono!!
Né rimane sulle labbra della sola anarchica birbaglia una tale abberrazione d'idee e falsità di giudizii: essa invece si sente nella bocca di taluni politici che dovreb­bero essere attaccati alle legittime monarchie; e ciò che come più vituperevole deve riguardarsi è, che un discor­so tanto stolidamente stravagante viene da atti esterni confermato, e da operazioni che fanno rimminchionire gli uomini del più basso volgo.
Né uscendo da' due soggetti del Colletta, e del Prin­cipe di Canosa, mentre colui tre volte ribelle, esiliato dal paese proprio come recidivo fellone veniva con altra canaglia anarchica a lui consimile festeggiato in un certo paese di monarchico legittimo reggimento, e alle putride di lui ossa furono resi funebri onori, che per nessuna ragione meritate aveano, mentre autorevole soggetto di quella città contribuiva alle spese di tale funerea imme-ritata pompa, ed il pubblico di buon senso scandalizzava •colla presenza di lui; il Principe di Canosa veniva dal­l'altra parte sorvegliato da imprudenti osservatori, veni­vano prese, lette e talvolta rubate le lettere sue, ed in fine cacciato in bando, e perché? Perché cadde il sospetto (come dissi in altra mia opera, e meglio svilupperò in altre che anderò a pubblicare) essere l'autore di un certo cenno biografico scritto contro un politico forse il più tristo che sia comparso dopo la restaurazione, di uno che traditore del Re, del popolo della propria patria era morto nella generale esecrazione!!
Perché dunque tanto rigore contro il Principe di Ca­nosa, tanta poca educazione verso un magnate d'Italia, uno insignito di Gran Croci, attuale Ministro di Stato nella prima Corte d'Italia! Si seppe poi che il cenno bio­grafico non era, né poteva essere suo, sibbene se ne co­nobbe l'autore in un certo signor Giuseppe Torelli già al servizio della regina Carolina!
Ma ne fosse stato esso l'autore. Perché veruna mo­lestia si recò all'editore e disseminatore dei futuri destini d'Europa, delle novelle dell'abate Casti, delle rovine di Wolney, non che di tante altre pesti, di tanti altri libri che scuotevano dalle fondamenta l'altare ed il trono?! Perché taluni politici legittimisti di quel paese, parlando e pensando come il confettato Colletta, riguardavano me come fellone ed i veri recidivi ribelli, predicatori della miscredenza e dell'anarchia, come rispettabili ed oneste persone!! Dunque il controsenso, non che l'abberrazione totale delle idee e de' giudizii, non è della privativa de' soli RR. PP. della Patria, ma dei politici legittimisti. Non era il Cenno biografico ma le massime cattoliche e legit-timiste che erano in odio a taluni. Inipossibilia sed vera!
Quando in conseguenza delle false misure prese dopo la restaurazione, principiarono a scorgersi sintomi di nuove sommosse e rivolgimenti, un politico dell'amalgama a me diceva nel principiare il 1816 (era io Ministro della Polizia generale in Napoli) mi dicea  i popoli sono veramente incontentabili; ed ora che Napoleone trovasi in S. Elena, principiano di nuovo a fermentare contro i governi legittimi. E pure! Potea usarsi una maggiore dolcezza e generosità? Si sono lasciate loro non tocche le ricchezze, che fecero nell'epoca della rivoluzione! Non sono stati rimossi da quelle cariche, né sono stati tolti quei titoli e quelle distinzioni delle quali verso loro furono tanto prodighi gli usurpatori! Sono veramente incontentabili i popoli. Bramerei sapere cosa vogliono?
 La giustizia, io allora gli risposi, e bramano che noi altri che amministriamo, non avessimo fatto divorzio col senso comune. Voi che mi parlate del popolo, dovreste parlarmi de' rivoluzionari. Sono questi di fatti e non il popolo, che si trovano sempre in agitazione e « scontenti, e lo saranno sempre perché negati alla tranquillità, nemici di ogni potere legittimo e di ogni ordine pubblico. Quello stesso aver lasciati pacifici possessori di quanto acquistarono a danno altrui, la stessa « generosità di lasciar loro gli onori, e le cariche che avevano ricevute da una tanta cattiva sorgente, mettendoli nella favorevole circostanza d'influire ed intrigare,  hanno influito ed intrigato sempre contro quella legittinnità che odiarono, detestano, ed insidieranno sempre mai. Gente perversa, ogni tratto di clemenza fatto « verso loro lo hanno interpretato non come azion generosa, ma come un effetto di paura. Eccoli resi maggiormente avversi, supponendo che da un momento «all'altro la legittimità, trovandosi in forze li opprimerebbe, e siccome tengono per indubitato che sono temuti, agiscono con energia, per la nota massima di Publio  Siro  che  dice:   animus qui scit  vereri, scit  tuto « aggredì. »
 Dall'altro canto l'estesissimo (un dì) partito de' sudditi fedeli, e buoni amici della legittimità, mirando, che coloro stessi, che per tanto tempo, nelle diverse fasi della maledetta rivoluzione, li pessundarono, nelle stesste cariche rimessi, continuavano a trafiggerli; che que' « mendici, i quali, solo in premio dei misfatti (e di quello di fellonia in particolare), dallo stato della miseria, « a quello dell'opulenza passarono col danno di tanti ottimi religiosi spogliati; di tanti onesti cittadini confi-« scati, e de' pubblici utili stabilimenti saccheggiati dall'affamata rivoluzionaria birbaglia, continuano a possedere quelle enormi ricchezze insultando l'onesta mendicità, non è possibile, che attaccati col cuore rimanessero a quella politica, che mentre liscia e carezza i nemici micidiali del monarca, del popolo, della religione, ingrotta le ciglia, si turba, e malmena quelli che averi  perderono e sangue sparsero, prestando servigii importanti alla legittimità; è impossibile, io dico, che attaccati come prima fossero ad una politica più ingrata forse « che ingiusta. Ed ecco come le misure prese dopo la « restaurazione nel momento che un palmo di terreno « non fecero acquistare nel campo de' rivoluzionari amnistiati, e regalati, posero tutto il mal umore in quelli « che per lustri la causa della legittimità con tutti i più eroici sforzi difesero.
I popoli sono incontentabili, cosa vogliono i popoli? Essi vogliono, ripeto, la giustizia, quella virtù, emanazione di Dio; quella virtù più antica della specie umana perché consostanziale allo stesso Iddio. Che se la virtù della giustizia necessaria non fosse, per qual mai ragione Iddio creato avrebbe il paradiso e l'inferno? Ora con qual sentimento potea il Duca    il Visconte trovarsi mendico, mentre i suoi beni mirava in mano del perverso demagogo regicida; ed osservando « che colui, il quale nelle diverse fasi della rivoluzione si mostrò sempre attaccato alla causa del male, signoreggiava sopra loro con carica eminente, acquistata per  misfatti nell'epoca della desolante rivoluzione. Ed ecco « come la giustizia ferita tanto nella branca commutativa « che distributiva, pose in scena un nuovo codice, che condurre ci deve a pessimi risultamenti, non essendo sperabile, che buone conseguenze possa produrre ciò che si trova in opposizione all'essenza di Dio.
Che se questa era la dottrina che io manifestava al politico amalgamatore, prognosticando, fino al 1815 nuo­ve rivoluzioni, tanti fatti, e l'esperienza successiva a tutti dimostrò non essermi ingannato ne' miei concepimenti. Tanto rigore verso gli amici, e difensori della buona causa, mentre tanta indulgenza usavasi  verso i  miscre­denti e la rivoluzionaria canaglia!!  Da quale e quanto orrore non venni io preso, e quale acerbo dolore io non soffrii nel mirare che mentre in Francia  nessun  rigore usavasi verso quel fior di canaglia, che con libri empii ed osceni cercava distruggere nel popolo ogni religione, e far perdere il costume, si conducea poi in giudizio, e si fece porre al pubblico scherno sullo scabello del tribunal correzionale il Principe de' polemici francesi, per­ché aveva manifestato contro le quattro proposizioni gal­licane una opinione che fu sempre adottata da quattro quinti dei cattolici!!   Perché mentre nessuna noia reca­vasi agli scrittori atei, ed a quelli che disseminavano la dottrina di Epicuro ed Aristippo, tanto rigore venne spie­gato contro il più insigne de' polemici?! Or quali sono state le terribili conseguenze di quel tratto di scandalosa ingiustizia distributiva? !
Dicono taluni, che io colla mia polemica più male che bene recato abbia alla causa della legittimità! Dunque per ben difendere la buona causa, conviene adulare, e col tra­dire il proprio sentimento, tradire il monarca che si ser­ve, onde dalle cattive misure permettere che ne vengano i più tristi risultamenti? L'adulazione dunque nel secolo de' lumi sarà diventata una virtù, ed il candore, la schiettezza, il dire la verità sarà diventato un vizio, come mentre io fui dichiarato fellone dal Colletta veniva esso proclamato ed onorato in estraneo paese come per­sona onesta!!! Ma come sarà mai possibile che le cose politiche di questa terra possano rassettarsi; come aspet­tarci, o lusingarci di un migliore avvenire quando tra i politici esiste un tanto strano sconvolgimento d'idee, tanta fallacia ne' giudizii? !
Mentre io, reduce dalle Spagne mi trovava in Napoli sempre che aveva l'onore di essere col mio buon Re Ferdinando IV, e quando mi abboccava col lealissimo Mar­chese di Circello disputava contro le teorie che propo­nevano e facevano adottare quelle due sante anime del cav. De Medici, e Tommasi, specialmente un giorno mi opponeva io alle misure che andavano a prendersi con­tro quella ospitale Sicilia che per ben due volte era stata l'asilo della legittimità sventurata. Ma ne vuoi sapere più di Medici? mi disse l'ottimo ingannato monarca. Non è che io pretenda saperne più di Medici, o Signore, o di altro qualunque; ma più di Medici e di tutti, ne sa il senso comune di tutti quei politici che ho studiati, i quali vituperando tali misure, ne annunciano per conse­guenza sicura rivoluzione. Non avendo di me opinione il buon Re, e tutto confidando in quel De Medici, che per ben due volte era stato inquisito di fellonia, non mi die­de ascolto. Se però me l'avesse dato, avvenuta non sa­rebbe al certo la ribellione del 1820 che io gli prono­sticai sin d'allora. Cosa dunque bramato avrebbono quei politici, che condannavano la mia polemica sincera e lea­le? Che io per evitare la taccia d'imprudente, in contrad­dizione del mio sentimento, meno che delle acquistate cognizioni avessi fatto il pittagorico del primo anno, ap­provando quello che il De Medici proponea, e per adu­lazione parlato avessi contro il proprio intimo sentimen­to? Ma è poi questo il modo come comportar si dee un ministro fedele? Un suddito attaccato di cuore al suo monarca? L'esito fece conoscere che io ne sapeva assai più che Medici, ed il buon Re in Firenze (quando non sapea nominarmi che coll’epiteto di profeta) le mille volte me lo ripeteva.
Ma io, che i falsi liberali non sanno chiamare con al­tro nome che quello di mostro, e satellite del dispoti­smo, sono le mille volte di essi più liberale nel vero senso del vocabolo. E in vero due volte io ebbi il togato coraggio di rispondere una volta in Palermo alla immor­tale Maria Carolina, ed un'altra all'ottimo Re Ferdinando IV che un comando che dato mi avevano non potea da me eseguirsi. E perché? mi rispose la buona Regina. — Perché, io replicai, è contrario alla legge. — Ma la legge non la facciamo Noi? E bene noi la sospenderemo o rivocheremo. — Signora giustissima (col più profondo rispetto le soggiunsi) non tutte le leggi sono fatte dai Re. Ce ne sono talune che sono leggi di cui la sorgente si trova naturale, nella legge emanata da Dio, che è il Re de' Re. La legge alla quale si oppone il comando, per equivoco, datomi da Vostra Maestà, è appunto una leg­ge universale una legge di natura. —
Cosa avrebbono fatto nel mio caso coloro che mi chia­mano l'assecla del dispotismo? Fatto un profondo in­chino avrebbero eseguito l'ordine, senza illuminare il monarca con esporgli con tutto il dovuto rispetto il proprio sentimento. Quanto poco conoscono il mostro, coloro che cercano criticarmi senza conoscermi. Per co­storo si può compatire l'ignoranza; in Colletta però fu tutta malizia e mendacio ciò che disse contro me, per cui è qualche cosa peggio che l'asino, che è ciò che mi proposi dimostrare.
 L'altra isola detta di Ponza fu in quel tempo medesimo presidiata di siciliani retti dal Principe di Canosa, che, nuovo allora, andò subitamente diffamato «per opere pessime.» (a) (a) Lib. VI, § 12.
Com'era uomo nuovo il Principe di Canosa? Era già gran tempo, che il Canosa erasi fatto conoscere al pub­blico come autore di varie opere comparse colla stampa. Fra queste troppo chiaro e cognito reso lo avevano le risposte fatte contro il fiscale D. Nicola Vivenzio, quella contro il Principe di Castel Cicala, e i1 generale Acton. Quale tra' più famosi liberali avrebbe osato e mostrato tanto coraggio? Inoltre era stato magistrato di Buon Go­verno, aveva combattuto col popolo contro gli invasori francesi: era stato da un consiglio di guerra condannato a morte, mentre trovavasi imprigionato in S. Elmo; indi altro assurdo giudizio subì dalla giunta di Stato. Dopo tutte queste cose al primo cenno della Regina seguì i reali Principi D. Francesco e D. Leopoldo coll'esercito in Calabria; indi in Sicilia, abbandonando in Napoli pa­dre, madre, moglie, figli, beni, tutto. Ora potea chia­marsi nuovo il Principe di Canosa da altri che un so­maro come il nostro storico di fichi secchi!
Così dice il fanfarone che andò subitamente diffamato per opere pessime. Or quali furono queste opere pessi­me? Quelle di avere retto quest'isola colla massima in­tegrità e delicatezza? quelle di farsi adorare dalla solda­tesca, ed in particolare da' bravi Albanesi, che nelle di loro montagne, dopo tanti anni, ne ripetono il nome con verace amore? Quella di aver salvato la vita al sicario Pezzella, che gli aveva spedito per trafiggerlo quell'ani­ma innocua di Saliceti all'ombra malefica del quale ven­ne schiuso lui insetto velenosissimo!! Quali dunque so­no le opere malefiche? Il non aver ceduto agli inviti e seduzioni di nemici che le mille volte in cento guise il tentarono. Forse tutte queste cose sono delitti per i filo­sofi del progresso. Ma i filosofi del progresso si trovano al di sotto degli asini. Arciasino dunque è il mio avver­sario quod erat demonstrandurn.
« In quel mezzo fu imprigionato Agostino Mosca perchè sopra i monti di Gragnano, dov'era atteso il Re « Giuseppe, stava in agguato ed armato per ucciderlo. Aveva in tasca una lettera della Regina di Sicilia, scrit-« ta di suo pugno, istigatrice velatamente al delitto, ed altra più scoperta della marchesa Tranfo dama di lei: portava sul nudo del braccio destro una maniglia di capelli legati in oro, dono della stessa Regina, fattogli, ei diceva, per mano del Canosa, ad impegno de' promessi servigli. Convinto del tentato misfatto, fu condannato a morte, e giustiziato con orribili pompe nella piazza del mercato, in mezzo a popolo spaventato e « muto. »  (a) (a) Lib. VI, § 12.
Si parlò moltissimo di questa pretesa congiura, e del tentato assassinio nella persona di Giuseppe Napoleone Re delle mele cotte nel 1807 in quell'epoca in Napoli, indi con tanta gloria nelle Spagne da stuzzicare l'appe­tito fino di taluni falsi liberali, che ardentemente lo bramerebbono Presidente di una di quelle repubbliche im­maginarie che vanno passando per la pazza e delirante di loro fantasia. In quel processo, fatto contro Mosca, colla solita in­tegrità e buona fede liberalesca, si credè doverci fare sceneggiare me, che nulla sapea di quell'intrigo; che non mai mi dilettai ammettere nella tattica militare gli assa-sinii e '1 pugnale secondo il costume liberalesco e della Giovane Italia in particolare.
Terminato dunque che fu quel processo, e data ese­cuzione a quella sentenza contro lo sventurato Agostino Mosca, suppose Cristofaro Saliceti doversene e potersene fare un merito col pubblico, e colla buffa maestà Giuseppino-Napoleonica, cercando passare come un gran mi­nistro di polizia. Ad ottenere quest'intento in tutta la pienezza del supposto bramato splendore, cosa immaginò quel perverso? Di pubblicare colle stampe un rapporto sulla pretesa congiura, e tentato Giuseppicidio!!
Quanto è mai difficile il pubblicare stampe in tali in­frangenti! Ci vuole dottrina, buona fede notoria e ve­rità. I falsi liberali si piccano poco della dottrina, della verità e buona fede ne' giudizii. Eglino credono a tutto supplire colla malizia e la perfidia, la quale se vale, e serve benissimo pel momento, ricoprendo il governo di tutto l'odio ed il pubblico disprezzo, gli prepara la ca­duta.
Molti in Napoli eran conscii delle baronate e falsità usate dalla polizia di Saliceti per moltiplicare i delitti promovendoli:> ed in particolare onde mandare a morte lo sciagurato infelice Agostino Mosca. Egli suppose con questo Rapporto fare ancora a me un torto nel paese, quasi facendomi passare per un mandante di assassinio, e di sicarii. Il Saliceti stava meco molto di cattivo umo­re, tanto per averlo fatto rimanere varie volte come uno stivale, e tanto perché avendo mandato a fare talune ambasciate ( tentandomi, onde divenissi traditore del mio Re) avea da me ricevuto risposte da farlo imbrividire.
Erano allora calde calde le battaglie di Iena ed Auster-litz che avevano riempiti gli animi di panico terrore da per tutto. Per quanto dunque mendacii e baronate fos­sero stati commessi in quel processo, e per quanti molti fossero al fatto di essi, supponea Saliceti che veruno in alcuna parte del mondo osato avrebbe ( specialmente col­la stampa)  pubblicarli.
Ignorava però il povero diavolo di quale umore io mi fossi, quanta poca paura avessi mai sempre avuto de' furfanti, e che il mio ubi consìstenti l'avea nell'eroica Maria Carolina Regina di nome e di operare generoso, energica protettrice de' fedeli suoi servitori. Avuto dun­que che ebbi nelle mie mani quell'iniquo Rapporto, e vedendomi tanto mendacemente ed insolentemente di­pinto, mi avvampai d'ira nel mirarmi in tal modo trat­tato da quel Corso, del quale se altro non avessi cono­sciuto, sarebbe stato bastante il sapere di certa scienza che mi avea mandato a sedurre affinchè diventassi ri­belle insieme e traditore.
Istizzito, come mi trovava, scrissi in un baleno la mia risposta al Rapporto del ministro della polizia generale, e questo stampato colla rapidità del lampo; prima che alcuno se ne avvedesse, mandai molti miei fidi emissarii in varii punti della città, disseminandone centinaia di esemplari per tutto Napoli; indi molti altri ne inviai nelle provincie. E siccome tutti quelli vennero in gran parte distrutti dalla Polizia; così in Palermo la immor­tale Regina Carolina (che con grande clemenza gradi il tratto del mio coraggio e del mio zelo nel difendere la maestà di lei contro la rivoluzionaria canaglia) ne fece fare altra copiosissima edizione, la quale al solito (co­me avviene a tutte le mie opere) scomparve, dopo poco tempo per opera del liberalismo.
Or siccome io mi trovo un esemplare di tale mia risposta (che sarà tra le prime che ripubblicherò, piacendo a Dio) così da un tale squarcio della storia del Colletta risponderò, le parole stesse riportando, colle quali pol­verizzai il Rapporto del tiranno liberale Saliceti.
Benché parlato siasi ripetute volte di sopra, dell'infelice Agostino Mosca, della spedizione di lui, della « falsa confessione, e della morte di lui; nulla di meno « pur da saggio dicea l'illustre Padre Maestro Mamacchi, « uomo nella letteraria repubblica di eterna rimembranza, che talune cose fa mestieri, anche dopo le due pagine ripetere, e rinfacciare nel volto impietrito de' miscredenti e de' furfanti. Io credo bene che dopo tutto ciò si è esposto, ogni uomo di senno conosca come falsa la confessione di Mosca, similmente che false dimcstrate si sono tante ultronee assertive dell'iniquo Saliceti agli uomini morali, che conoscono Canosa, basterà solo l'essere a giorno, che Saliceti asserisce, e Canosa contradice. E tornando al proposito di Mosca, tutto l'equipaggio del suo legno, tutti i compagni della « immaginata di lui spedizione degli argonauti non ignorano, ed al caso saranno sempre di contestare, ch'egli « per Ventotene non già ove risiedeva Canosa, sibbene per Capri era stato dalla Sicilia spedito, e che difatti in Capri andò, e credea da colà potersi condurre in Positano, ovvero nel Perù, che tenea nel suo capo, supponendo in quel luogo l'esistenza di quindici nascosti milioni! Mancandogli taluni mezzi alla riuscita « dell'impresa, credè il nuovo Colombo rinvenirli presso Canosa in Ventotene. Ecco dunque l'oggetto di un non premeditato, né concertato incontro con Canosa; Canosa lo vide, lo ascoltò, lo compatì. Cercò dimostrargli la futilità dell'impresa romanzesca, il pericolo evidente  a cui si esponeva. Siccome per altro per istrana organizzazione  di  cerebro  in  taluni  esseri,  ingiustamente chiamati uomini, la logica e la sana eloquenza produce « nel di loro intelletto un effetto tutto diverso da quello « che produrre dovrebbe; così Mosca fermo rimase nella « sua opinione, e riscaldato nella fantasia dai fiumi dei  l'oro che scorrere pur vedea negli ideali nascondigli verifìcò col fatto, ciò che un dì disse Seneca: tìmorem « mortis cupidine rei alienae, saepe vinci videmus. Anzichè dunque in questo congresso trattarsi tra Canosa, « Mosca e suoi argonauti di Giuseppe, di Saliceti, e del Diavolo, che prenda e l'uno e l'altro, si parlò de' pericoli evidenti, a' quali quel babbuino, senza alcun profitto andava ad esporsi, ed anziché ricevere da Canosa il dono delle traccie da Saliceti impostore, insubordinato ai grandi della terra, e villano insieme si enunciano, ricevè in dono pochi ducati, capaci a far tirare innanzi la sua impresa, ed unitamente l'infausta avverata profezia, che sarebbe stato egli impiccato, dopo  poche ore della sua discesa nel continente, tanto perchè la sua figura era notissima, tanto perché il suo  corpo abile non era a fuggire, ed involarsi nelle montagne, quanto finalmente perché essendo stato egli per « molto tempo in Capri, possibile non era che dalle spie e dagli emissarii, i nemici appieno stati non ne fossero avvertiti. Dopo tutto ciò senza spirito di satira, ma solo per effusione di cuore pienamente convinto della verità, non si sa per Diana comprendere, come Saliceti volendo dimostrare il preteso assassinio di Giuseppe, abbia scelto pel falso corifeo dell'operazione Agostino Mosca, che pure al solo mirarlo nel volto conosciuto si sarebbe tanto adattato alla supposta ardita « impresa, quanto lo era Bruno ai politici maneggi, ed alle acute speculazioni d'intrigo. Mancava forse a Saliceti nella turba immensa de' birbanti che lo accostavano lo scegliere e rinvenire uno che abile fosse a far supporre ciò che avea ideato verisimile, ed in seguito « rivestire la processura, e l'aneddoto di quegli episodii,  che pur maneggiati da un uomo astuto, a cui non man-« can mezzi, condurre si possono con facilità e gradi « troppo prossimi di probabilità, che usurpano tal voi ta « presso taluni la denominazione di evidenza? Gran fatale verità! Diffìcile enim est quod vere iustum, et « verum est ab eo quod tale videtur discernere! come - disse Andronico Rodio. Dal di lui Rapporto dunque, dalle lettere che ha impresse, dalle riflessioni che sopra queste ha fatte, dagli assassinii che sotto nomi di giudizii ha in vista di tutto ciò comandati, fa mestieri asolutamente conchiudere, che la reputazione di furbo, di accorto, di politico, di eccellente birbante in somma, non l'abbia Saliceti, che usurpata da un pubblico stolto, cieco ed imbecille. Egli è questo, a mio parere, « il più grande argomento di cui il Massimo Iddio si serve, onde illuminare la corrotta umanità sulla causa di tanta disavventura, che la opprime. Egli è questo il più terribil flagello, che vibrato direttamente dalla mano ultrice del Dio delle vendette flagella gli uomini senza il concorso dell'umana sapienza, ma anzi per l'opposto onde dimostrare maggiormente il suo bracciò, a traverso della stoltezza stessa di quegli uomini medesimi, de' quali nella pienezza della sua iracondia gli è piaciuto servirsi per fulminarci anziché punirci. Sembrami chiaro quindi, che la presente scena di orrore non sia essa edificata né regga, fuori che sopra l'impostura e la contraddizione, che l'ammaliata uma-« nità con occhi di apopletico istolidito rimira pure con « ammirazione e stupore. Taluni tra i grandi della terra « in un momento che poggiando lor sicurezza nella mutua difesa, ne' trattati, nell'equilibrio dell'Europa, quasi diceva, dimentichi di Dio e del di loro appoggio nel santuario, sicuri per loro stessi si credevano ed invulnerabili, ha pur Dio saputo per umiliare l'orgoglio dei « primi, e per punire tanti traviati di loro sudditi e consultori, prima far sorgere una bernesca assurda democrazia, ed indi questa prodigiosamente distrutta, cavar  fuori dalla più orrida e meschina tra le isole d'Italia (di cui la natura par si arrossisca di averla prodotta)  uno sciame de' ribaldi, nati da schiatte oscurissime dietro gli aneddoti i più indecenti, e questi non forniti « di meriti né fisici né morali, avendo seco loro per compagna, la sola audacia di tiranneggiare l'universo, il quale sbalordito ravvisa in essi quei colori, che pur  chicchessia occhio né acuto, né oftalmico saputo avrebbe in altro tempo scorgere e rinvenire. Per quanto profano esser possa chicchessia nella sacra e grave meditazione de' codici della divina alleanza, pur sfuggita ad alcuno non sarà la notizia di quell'incirconciso Assur, che pur tanto un dì malmenò il popolo eletto e il tempio sacro del maestoso e grande Dio di Gerosolima. Quell'uomo stolto, fiero ed orgoglioso, pur si  credea esser egli un grande della terra, e che dal risultato de' talenti di lui politici e militari, tanto malanno sopra gli Isdraeliti ne traboccasse. Sciagurato birbante!  ben ne avverte il Profeta, ch'egli, il vile, non era animato che dal braccio potente e vendicativo di un Dio offeso, il quale per suo mezzo versava sul capo de' peccatori il calice amaro ricolmo delle celesti indignazioni; ma indi in seguito compiuti i grandi disegni di  Dio, fu egli, il poltrone, gettato nella Geenna. Ed in vero se un uomo pio e di fino intendimento, ponendo « da una banda mente ai lumi ed ai dettami, che gli uomini più saggi nella politica lasciati ci hanno, dall'altro rimiri la condotta che in ogni genere tengono i tiranni dell'universo, pur non è possibile che non si avvegga, che attesi i lumi tutti della filosofia, egli è un male assurdo, che tuttora la macchina degli errori « pur si sostenga senza essere il fuoco desolatore animato dalla bocca potente di Dio: Facilius est, disse « Plutarco, urbem sine solo condì posse tuto, quam opi-« nione de Diis penitus sublata, civìtatem coire, aut « constare. Che se uscendo io nel momento dalla sfera « di saggio satirico ragionatore, mi è pur piaciuto affogato dal torrente della verità che m'inonda e mi inebria, farla da ispirato1 e predicante, pur altresì mi piace « di lasciare a Saliceti e satelliti di lui compagni un vaticinio, il quale come poggiato sulle verità e cognizioni « divine tanto che umane, non può sicuramente andar « fallito. Il Regno dell'iniquità sarà distrutto in meno  giorni di quegli anni nei quali si è sino alle stelle inalzato. E siccome tonando a destra felicemente previdi un dì ( agli stessi dati poggiandomi ) la precipitosa caduta della gran donna prostituta di Babilonia, così mi auguro in Dio stesso di vedere in seguito la caduta del novello Nabucco, e de' Misosandrcpon di lui seguaci.
Ecco quello che io scriveva nel 1807 contro quel co­losso di Napoleone, l'aggrottato ciglio del quale impal­lidir facea i più forti ed i più potenti tra i Grandi di questa terra. Pure il mio cuore non soffrì l'insulto vil­lano del Saliceti, e lo zelo ardente che io mi sentiva bol­lire in seno per l'onore del Sovrano, di cui difendeva lo stendardo, mi fece in modo parlare, e scrivere, e pub­blicar per le stampe contro l'onnipotente Napoleone, in modo dico, che nessun potentissimo in quell'epoca osato lo avrebbe. Né io abitava nella Cina, o nel Giappone. Io mi trovava a diciotto miglia lontano dal nemico universale, quante ne passano da Monte Circello, ove egli comandava, a Palmarola prima isola di mia giurisdizione.
Io predissi in quella mia opera la sua rapida caduta, e fu quella la mia prima politica profezia pienamente verificata secondo il prognostico fatto. Cortesissimi Giu­seppe Napoleone, e Saliceti mi onorarono con una taglia di 25 mila ducati. Non mai divenni più attivo ed ener­gico quanto dopo aver saputo, che era stato posto il mio capo a taglia, quasi che un furfante fossi, un tristo o un ribelle, o uno che avuto avesse per un solo istante l'ignominia di essere stato suddito dell'usurpatore! !
Chi si rammenta quei tempi, può solo calcolare il me­rito di quel coraggio e di quell'ardire!! Ora tutto viene calcolato come nulla, e tutto quello con mille altri con­secutivi servizii non fanno il menomo peso nell'animo dei miei avversarii. La storia però si alzerà giudice se­vero delle mie azioni come di quelle degli altri. — Ri­marranno sorpresi i posteri come dopo tante perdite da me sofferte, sagrifìzii fatti, pericoli corsi, dopo uno zelo tanto ardente, fino a venire alle prese col medesimo on-nipotentissimo Napoleone, osare taluni potessero attac­care la mia condotta superiore ad ogni calunnia, delica­tissima 11 materia di amministrazione di peculio publico, mentre ora la vita tiro meschinamente innanzi penosis­sima, e tale da farmi meritevole dell'epiteto dal generale Mina adattatomi del Bellisario delle Due Sicilie.
 La Polizia restò per molti mesi discreta ed inosservata nelle mani del cavalier De Medici, però che le « massime benigne del Congresso di Vienna duravano. Di poi ne fu Ministro il Principe di Canosa, del quale  dirò l'origine, i costumi, e le arti. Nato in Napoli di nobile famiglia, visse oscuro fino al settimo lustro di  età, quando per merito del casato entrò nel consiglio della città. Era l'anno 1798 allorché l'esercito francese guidato da Championet stava nemico alle porte di Napoli; non vi era Re né Reggente perché fuggiti, non « esercito perché sciolto, il popolo tumultuava, i repubblicani si adunavano in segrete combriccole. Convocata in consiglio la municipalità per provvedere a' pericoli, Canosa disse il Re decaduto giustamente per lo abbandono che aveva fatto del Regno, e doversi allo stato novello reggimento, l'aristocratico. La qual sentenza, vana impossibile ( due sole specie di governo conten devano, monarchia e popolare), destò riso negli uditori, ed a lui poco appresso tornò in pianto, perché insospettitane la democrazia fondata dal vincitore, il Canosa fu posto in carcere. Ne usci alla caduta di quel  governo, e come il folle desiderio di aristocrazia, infesto alla repubblica, lo era del pari al Monarca, fu il Canosa condannato a cinque anni di prigionia; di sei « voti, tre furono per la morte, i tre più miti prevalsero, e la sola volta che l'empia Giunta di Stato sentisse pietà, fu per uomo che indi a poco spegnere doveva mille vite. Era in quella pena quando per la pace di Firenze, fatto libero, tornò privato ed oscuro alla famiglia. Ma nel 1805 la corte Napolitana di nuovo fuggendo, egli offerse alla Regina i suoi servigii, ed  accolto passò in Sicilia.
 Politica infernale muovea in quel tempo la Casa de' Borboni, o che ella sperasse il rinnovamento dei prodigii del 99, o che la prosperità del Regno perduto « le fosse odiosa, pose ogni arte ad agitarlo colle discordie civili. Spedì Fra Diavolo, Ronca, Guariglia, in varie provincie, tessè congiure, rianimò gli smarriti campioni del 99. Profuse doni e promesse, diede premio « ai delitti. E acciò regola e durata avesse quell'inferno  si volea per le trame un orditore sagace, ai ribaldi un capo, alle congiure un centro non lontano dal Regno: a tale uffizio andò Canosa su lo scoglio di Ponza.
 Era, in quell'isola un ergastolo, ch'egli dischiuse, con quei galeotti, e con altri pessimi condotti da Sicilia, o attirati da Napoli, ordì nel Regno per cinque anni trame, ribellioni, delitti, e fu cagione di mille « morti, o da lui date, o dall'avversa parte per vendetta e condanne. Mancò quasi materia al brigantaggio, e « nell'anno 1810 Canosa non sazio tornò in Sicilia. Tro-«vò orte amareggiata da lord Bentink; ed indi a poco vide espulsa la regina, il re confinato, ed il civile reggimento rivolto a tale che per Canosa non era luogo. I servigi di Ponza non altro gli fruttarono che la promessa del ministero di Polizia, qualora piacesse ai cieli « di rendere al legittimo re il trono di Napoli.
Funesta promessa mantenuta nell'anno 16. Era nel regno la setta de' Calderari, che doveva per voti sostenere la monarchia dispotica, opprimere i Carbonari, i liberi-Muratori, i Murattiani, i Liberali: ed erano Calderari uomini malvagi, che provenivano dalle disserrate prigioni ne' tumulti del 99 dall'anarchia di quell'anno, dal brigantaggio del decennio, e dalle galere di Ponza e Pantelleria. Molti in quindici anni, o nei ci-« menti, o per condanne furono morti, o pur troppi ne lasciò vivi l'ira della fortuna, i quali speravano al ri-« torno de' Borboni trionfo e potere, ma respinti dalla politica si nascosero.
 Di loro si fece capo, o lo era il Principe di Canosa, che divenuto Ministro gli agitò coi mezzi e nel segreto « della setta, accrebbe il numero, distribuì patenti ed armi, diede comandi e consigli: attendeva l'opportunità di prorompere nella città e nelle provincie, al giorno stesso, su le sette nemiche. E per avvicinare l'animo del Re, Canosa doppiamente adultero, sempre ubbriaco di vino e di furore, esercitava con pompa tutte le pratiche della cristianità, e religioso era tenuto da' Re e dal volgo. Meraviglia vederlo in chiesa genuflesso agli altari, mormorare preci, e baciare sante reliquie, maraviglia vederlo in casa trattare opere inique sotto le immagini del Salvatore e dei Santi, e le sale ripiene di « delatori e sicari e confessori e frati che avevano fama di santità.
Ma tanta ipocrisia noi nascose, perciocché prima del « preparato scoppio, furti, omicidii, assassinii si commettevano; le città di ribaldi, le campagne di grassatori erano ingombre, i carbonari, offesi, rioffendevano, erano minacciate le autorità, conculcate le leggi, la forza pubblica partecipante ai delitti o inefficace a frenarli. Del quale abisso civile cercate le cagioni e trovate in Canosa, furono imprigionati gli emissarii suoi nelle provincie, sorpresi i fogli, palesate le trame. Più che sof-« ferta peste il popolo n'ebbe sdegno, perciocché tutte le « avversità egli perdona al destino, nessuna agli uomini. « Restava intanto ministro: alcuni consiglieri di stato, e « grandi della corte, gli ambasciatori di Austria e Russia « pregavano il Re a discacciarlo, e quegli a stento, per « altrui non per proprio consiglio lo rivocò dal ministero « lasciandolo ricco di stipendii. Volle Canosa partire dal « Regno, tale uomo essendo che non può vivere nella « sua patria che da tiranno. I moti civili durarono lungo « tempo, più lenti, più nascosi, non mai quietati, ed altra sciagura derivò dalla stessa caduta, perché i carbonari trionfando crebbero di numero e di arroganza. Fu nominato non già ministro di Polizia, ma direttore del ministero Francesco Patrizio, caldo partigiano « della monarchia legittima ed assoluta: il quale, se spinto dalle sue passioni era eccessivo, se ricordava le male « sorti del Canosa era mite: la perplessità e la incostanza, difetti pessimi in un ministro, furono i distintivi «del suo governo.»  (a) a) Lib. VIII, § 22.
Avete sentito mio caro compare, la sfuriata?! La pali­nodia del nostro giacobino che ebbro dell'odio e del li­vore di tutte le criminose sette proscritte erutta contro un vecchio patrizio del suo proprio paese, contro un con­sigliere di stato del suo Re! Ma uno solo ci fosse rastro di verità di quanto scrivea quel tristo, quel furfante mor­to in infamante esiglio. Io dimostrerò a voi come al pub­blico, al quale dedico questa mia epistola, dimostrerò ancora meglio di quello che ho fatto finora, che né una sola parola di quelle che contro me scrivea quel famoso storico mentitore sia vera.
E qua io mi rivolgo a taluni miei amici legittimisti, e tra essi prescelgo in particolare il mio amico, il no­bile uomo signor don      Ciambellano di sua altezza Reale l'augusto Arciduca d'Austria e Duca di Modena. Tale brava gente, educati con finezze mal sof­frono leggere ne' miei scritti frasi caustiche e pungenti parole mentre mi azzuffo coi falsi liberali Ora posso io con giustizia venire redarguito, quando la falsa libera­lesca canaglia tratta me in questo modo, unendo al più solenne mendacio tanta inurbanità?
Né vale il dire che essi rispondono villanamente, per­ché io con acrimonia li tratto. Imperciocché come altro­ve diceva, non mai ho io attaccato essi, sibbene sulla difensiva ponendomi ho sempre risposto alle calunnie ed alle ingiurie tanto proclamate contro me, come contro il mio legittimo sovrano, ovvero altro Principe negli stati del quale vivea come da suddito. Così avvenne quando risposi a Saliceti; così quando ne' Pifferi di montagna risposi alle ripetute calunnie del conte Orloff, della biblioteca storica di Parigi, all'estensore del foglio lettera­rio dì Londra.
Si è molto parlato del mio stile caustico usato negli articoli della Voce della Veri tal Non potrà contrastarsi giammai per altro che non ho fatto io che rispondere con penna avvelenata ad uomini che mi hanno cimentato con corrosivi veleni. In qual modo volete curare l'arse­nico e suoi terribili effetti con l'acqua di malva o di ro­se? Sbaglierete la cura, e l'infermo morirà sicuramente in mezzo ai più atroci tormenti. I veleni si devono cu­rare cogli altri più potenti veleni: Dividat haec si quis faciunt discreta venenum, antidotum sumit qui sodata bibìt.
Colletta scrivea in epoca, in cui non si conoscevano altri miei scritti polemici, che quello in risposta di Vi-venzio, del Principe di Castelcicala, del generale Acton. Quegli scritti però per quanto fossero energici non po-teano piccare il liberalismo. Tanto non poteano piccarlo che taluni buffoni, che Napoli in quell'epoca governava­no, mi diedero la taccia di liberale, confondendo quella virtuosa libertà propria dell'onesto energico cittadino (che i suoi diritti conosce come i suoi doveri) colla li­cenza che cerca e chiede il giacobino. Gli stessi Piffari di montagna per quanto strozzino la demagogia (per cui di sei mila e più esemplari non credo ne esistano cento, avendoli tutti comprati e distrutti i demagoghi) non pos­sono attaccarsi come contenenti frasi e parole ingiuriose. Le adattatissime parole di canaglia, birbanti, furfanti, principiai ad usarli ne' miei articoli della Voce della Ve­rità. Ma quel lodevolissimo foglio periodico non aveva ancora vita, o pargoleggiava appena, quando scaraboc­chiava la sua storia il Colletta. Io mi trovava, quando il Colletta morì, in Napoli, onde veder di accomodare i miei interessi, interamente rovinati da molti miei viag­gi, dalle tante peripezie sofferte per la guerra fattami dal liberalismo6, e molto più dall'enorme ritenuta, alla quale venni assoggettato con tutti gli altri (per quanto doveano i miei averi riguardarsi come un compenso di maggiori somme perdute per le rivoluzionarie misure del decennio) in seguito della rovina quasi totale, in cui avea saputo gettare le regie finanze dello stato quello, tra primi miei avversarii, Cav. de Medici, che pure il Principe tra finanzieri tanto moderni, che antichi gli uo­mini della rivoluzione proclamavano.
Dunque il Colletta scriveva contro me quelle calunnie ed infamie non irritato dal mio caustico stile sicuramen­te, ma per odio soltanto di partito, riconoscendo in me il vero avversario della rivoluzione, ed uomo inamalga-mabile colla dottrina de' birbanti ( amici della licenza, non mai della libertà); giacché inutilmente (per la gra­zia di Dio) tentato le mille volte, e in cento modi ' sen­za potere sino al presente rimuovere, o menomare al­meno il mio attaccamento per la causa dell'altare e della regia legittimità.
Ora chi potrà con giustizia redarguirmi, se io dò spes­so, anche sempre pel capo a falsi liberali quelli epiteti che se ad essi competono a me non ispettano sicuramen­te? E in vero, se a quell'infelice che per pura mancanza di mezzi onde tirare innanzi la vita, dopo avere rubato soli dieci scudi ad un viandante sul pubblico cammino, nessuno ha il coraggio opporsi (e tampoco lo sventurato colpevole che si trova in mano della forza) agli epiteti che si regolano di brigante, assassino, tristo, carne da boja e te; perché deve torcersi il muso quando io li adat­to a Mazzini, al sig. la Cecilia ad altra ad altra canaglia di simile pasta e genere. Forse quello che ha rubato sulla strada publica i soli dieci scudi è più colpevole, o reca alla società un danno maggiore di quelli gerofanti della Giovane Italia?! Se vi fosse chi osasse sostenerlo o do-vrebb'essere un imbecille, ovvero uno che non avesse nessun sentimento di vero amor di patria come di verace filantropia. E in vero quali innumerabili, maggiori danni non recò Mazzini, e la Cecilia col solo comparire sulle frontiere della Savoja? Ma se al civile monarchico reggi­mento del Piemonte stato non fosse l'avveduto, il corag­gioso, l'energico Re Carlo Alberto (che il fuoco divo­ratore dell'anarchia spense prima che avesse potuto prin­cipiare a lussureggiare), invece altro inattivo e timido monarca stato fosse a quel posto cosa sarebbe avvenuto? Non ci è bisogno di molto riflettere, né possedere fan­tasia felicissima per figurarselo. Fumano ancora gl'incendiati paesi nella Polonia, è caldo ancora il sangue de' rus­si assassinati sul principiar della rivolta, e le ossa de' ribelli le mille volte sconfitti dal fulmine imperiale bian­cheggiano ancora nelle deserte campagne. Non occorre aprire i polverosi volumi degli antichi storici. Rivoltatevi al Portogallo, fissate lo sguardo sopra la sventurata Ibe-ria. Colà ancora si osserveranno i fausti risultamenti dei Mazzini, dei Ramorini, dei Pepi Lusitani tanto che Iberi. Il sangue de' venerandi sacerdoti del nostro Dio da per tutto rosseggia. Gli atroci misfatti, i più neri tradimenti si vedono. Fortune immense di colossali patrizie famiglie sono interamente, senza risorsa, distrutte.
Ora se quanto scrivo è notoriamente verissimo, se in quanto vi espongo, mio caro compare, evvi figura di elissi, invece che d'iperbola, dovrete convenire, che se non trovate caricato soverchiamente, né taccerete d'inso­lente colui che tratta da birbo, da canaglia, da furfante quello che è stato condannato a morte per avere rubato i dieci scudi nella strada pubblica, molto meno potrete riprendere me, che applico li stessi vocaboli a quei tristi settarii, che chiamerò sempre canaglia.
Passiamo adesso (dopo lunga ma necessaria digres­sione) a confutare il nostro storico Turpino, ritornando a bomba. Nato in Napoli di nobile famiglia, visse oscuro fino al settimo lustro di età, quando per merito del casato « entrò nel consiglio della città. Se in giovane età il pubblicare opere ( ed una tradu­zione tra queste dal greco in latino ed italiano); mo­strare il patrizio coraggio di sostenere i diritti della clas­se baronale e nobile, contro due potentissimi, quali era­no il marchese Vivenzio, e '1 generale Acton, si chiama vivere oscuro, allora ha ragione Colletta. Ma non essen­dovi alcuno1 che darà l'epiteto di oscuro ad una vita tutta assiduamente data alle lettere; né nominerà oscuro quel privato, che esponendosi a mille rischi, attacca intrepido ed impavido ministri di Stato potentissimi (ai quali i giacobini più rinomati e spaccamontagne baciavano mille volte i piedi), allora la ragione sarà dalla parte mia, ed avrò quindi il dritto di nominarlo asino, q. e d. Che se il Principe di Canosa non visse oscuro, come sostiene lo storico degli stivali di D. Quisotte della Man­cia, non era tampoco in quell'epoca arrivato al settimo lustro di età, giacché non aveva, al principiar dell'anno 1799 che soli trent'anni. Ma siccome sette lustri ne fan­no invece trentacinque, dunque lo storico confonde il 30 col 35. Ma ciò farebbe giudicar somaro anche un ra­gazzo che principiasse appena ad apprendere le prime quattro operazioni aritmetiche. Dunque il signor Colletta fu asino, q. e d.
Non furono date giammai dagli antichi sedili nobili della città di Napoli le cariche per merito del casato. Il Principe di Canosa figlio non entrò mai nel consiglio della città. Il consiglio della città veniva formato dagli eletti nobili e da quelli del popolo. Ma il giovane Prin­cipe di Canosa non fu mai eletto di città. Dunque non entrò giammai nel consiglio della città. È vero che nel­l'epoca dell'aggressione francese si trovava nel magistrato di città, ma si trovava in quel posto come aggiunto per la circostanza straordinaria. Era tra gli antichi privilegii della città di Napoli, ovvero della nazione ( tutti perduti dalla nazione medesima, in conseguenza delle furfanterie commesse dai falsi liberali cui è sempre accaduto lo stes­so che al cane di Fedro che passava il fiume con un pezzo di carne in bocca); era dunque tra i privilegi della na­zione che quando straordinarie circostanze minacciavano l'ordine pubblico; riuniti legalmente i cavalieri dei di­versi sedili nobili, come quelli del popolo, eleggevano de­putati che si chiamavano del Buon Governo, ovvero del-Yinterna tranquillità. Questi magistrati straordinarii si univano agli eletti patrizii e popolani, onde consultare o provvedere per il bene pubblico. Il seggio capuano (al quale era originariamente ascritta tutta l'antichissima fa­miglia Capece) dovendo eleggere il suo deputato di Buon Governo pel quartiere capuano, a comun voce e per ac­clamazione scelse tra tutti quel giovane Principe di Ca­nosa, che lo storico asino scrisse, che visse oscuro fino al settimo lustro. Non si permise difatti che tampoco la bussola de' voti passasse, nominato appena che fu dal­l'eccellentissimo sig Duca della Castelluccia Eletto di cit­tà del quartiere Caracciolo. ''.
Non potea essere che una grande bestialità scritta dal­lo storico quella di asserire che per merito del casato en­trò nel consiglio della città. Imperciocché, trattandosi di circostanza gravissima e di universale pericolo, co­me quello della calamità massima dell'ingresso ostile di un'armata democratica rapacissima (come quella compo­sta tutta di giacobini stranieri e traditori napoletani), non era immaginabile il potersi dare una carica di tanta importanza per merito del casato; sibbene il buon senso dovea portarlo a supporre che data in vece fosse stata per merito di saggezza, di lumi politici e di personale coraggio.  Di tali  qualità fornito  il pubblico  credea  in quell'epoca fosse il giovane Principe di Canosa; attra­verso che il nostro storico vuole aver vissuto nella oscu­rità. Egli però per ispirito di criminosissimo partito, on­de non far conoscere che il Canosa, fino da quell'epoca, nella sua patria godesse buona pubblica opinione, si con­tenta piuttosto passare per uomo privo di buon senso nell'asserire che tale carica eminentissima venisse data invece per merito del casato. Ma chi pensa, e scrive in questo modo è una bestia. Bestia dunque è lo storico che confuto, q. e d.
Per quello riguarda l'aver io dichiarato il Re decaduto e il doversi alla monarchia sostituire l'aristocratico reg­gimento ho di sopra detto oltre il necessario per dimo­strar mendace lo storico. Alla mia confutazione nell'ag-giungere ancora la sua il Colletta, raddoppia, senza avve-dersene, il mio  trionfo.  Imperciocché  subito che dice: la qual sentenza, vana, impossibile, che destò riso negli uditori, egli medesimo fa la mia difesa. Conciossiachè se venni io riguardato sempre uomo istruito e di buon sen­so, come  mai  pò tea  contemporaneamente  essere  imbe­cille e stravagante in guisa da pretendere solo ciò che era  (a confessione di lui medesimo)  vano, impossibile, ed anche da muovere il riso negli uditori, che egli con­sultò negli spazi immaginarii di Cartesio?  Se io avessi dato il menomo sospetto giammai, tra le saggie persone, di essere un giacobino, allora potea credersi benissimo che fossi capace di volere il vano, l'impossibile fino a destare riso-. Essi si sono difatti sempre in ciò distinti, e sempre più nella vanità e stoltezze si rendono chiarissimi. Si dimostra ciò maggiormente da ciò che si legge in seguito, cioè che la stoltissima mia opinione  (se fosse vera) mi tornasse in pianto, perché insospettitane la de­mocrazia fondata dal  vincitore, il Canosa fu posto  in carcere. Non come aristocratico il Canosa fu posto in carcere dalla democrazia, come vaneggiando dice lo storico bu­giardo, ma come realista e fanatico realista (come mi chiama la rivoluzionaria canaglia). Egli però per togliere a me l'onore di essere stato imprigionato come un sud­dito fedelissimo al mio Re (che appena conoscea di vi­sta) e di aver prestato al Re medesimo servigi oltre mi­sura, mentisce ( secondo il liberalesco costume ) e dice invece che venni arrestato come aristocratico.
Ed in vero quale maggiore sciocchezza sarebbe stata commessa dal governo democratico (che poi non erano in quell'epoca tanto asini come i presenti) di arrestare uno per un delitto vano, impossibile, che destava il riso? Più, non dice l'imbecille, che io negli ultimi aneliti della Partenopea repubblica moribonda venni condannato a morte in S. Elmo da un consiglio di guerra, composto da giudici giacobini. Ora perché quella sagata, e togata canaglia mi avrebbe condannato a morte, facendomi an-nunziare la sentenza dall'orologiaro Vitaliani, divenuto Ceffo di brigata dell'esercito democratico!! Mi avreb-bono condannato a morte per un delitto (che egli stesso chiama) impossibile!! No mentitore. Io fui sem­pre realista. Fui sempre legittimista, come cattolico per intimo convincimento. Io venni imprigionato, non per essere un suddito fedelissimo al Sovrano datomi da Dio; ma per avere radunato uomini ed armi in difesa del Re N. S. (a)  (a) Rex non moritur.
Rimasi sempre lo stesso (per un vero miracolo della grazia divina, giacché non me ne dò il menomo personale merito) in seguito di tante ingiustizie, ingiurie e danni che mi vennero ca­gionati non dalla legittimità (come dice il generai Mina) ma da que' tristi, i quali mentre servono i Re sono i peggiori avversarii della monarchia, avvegnaché nulla trascurano per discreditarla, e farla odiare da quel popo­lo, che nulla maggiormente detesta che l'ingratitudine e l'umana ingiustizia. Fu il Canosa condannato a cinque anni di prigionia. « di sei voti tre furono per la morte, i tre più miti prevalsero, e la sola volta che l'empia Giunta di Stato « sentisse pietà, fu per uomo che indi a poco spegnere dovea mille vite.
Della mia, ingiustissima, condanna (primo giochetto del liberalismo contro me) dei cinque anni di prigionia che venne gravitato in destrusione nel castello di Tra­pani (cosa che fa tanto più risplendere la mia leale con­dotta verso il Re mio signore nel seguirlo, non ostante ciò, in Sicilia, per grazia datami da Dio), di un tal ne­gozio, dico, parlai di sopra lungamente. Ciò che sembra dover fissare l'attenzione del saggio è che mentre il Col­letta chiama empia la Giunta ài Stato istituita in Napoli nel 1799 (epiteto, che dato a quel tribunale dal Colletta non contrasterò esser per molti dati adeguatissimo) scap­pa fuori dicendo che tre de' votanti furono per me più miti? Perché siccome la virtù come i vizii in ciascun uomo (come c'insegna l'etica filosofia) sono di gradi dif­ferenti; siccome ci è sempre negli individui particolari il più, il meno tristo, così nel caso del giudizio1 del ma­gistrato di città i giudici meno immorali all'evidenza non, dirò, della mia limpida innocenza, ma de' miei meriti straordinarii e distinti contratti colla legittima monar­chia, arrossirono porsi sotto i piedi in un modo così as­surde, come Vincenzo1 Speciale (uomo pazzamente cru­dele, e cortigiano perverso) calpestato avea la giustizia. Anzi, come di sopra scrivea, gli uomini dotti, morali e cristiani come il venerando Principe del Cassare, l'inte­gro D. Francesco Migliorini furono di parere fare relazione a Sua Maestà esponendo i miei meriti (a) a) Fìat relatìo sacrae regiae majestati prò meritis. Lo stesso Martucci (per quanto liberale ma non liberale as­sassino come i moderni) giudicò doverne uscire libero dal giudizio (b). b) Carcer passus cedat in poenam.
Non fu dunque indulgenza, fu splen­dore di vera innocenza, che colpì i buoni, e gelò coloro che perfidi non erano fino al grado che era Speciale. Quali sono le mille vite che ho io spente? È questo uno dei ritornelli più obbligati, di cui la sovrana libera­lesca canaglia si serve col toties quoties contro me. Iena mi chiamò un partenopeo cirenaico frate apostata. Mostro altri molti. Ferocissimo tutti9. Ma chi mai ho io ammaz­zato, fuori che in fazioni di guerra! Io disfido tutti i miei calunniatori a provarlo; disfido, essendo crepato il Col­letta, tutti gli amici, mecenati, compagni di lui, delle mille vite, che dice avere io spente, citarne una sola nella precisa restrizione del termine. Mi sembra una tale pro­posizione sarebbe da considerarsi molto avanzata se si­curo non fossi del fatto mio. Così non parlano i liberali mentitori, ma un vero cattolico legittimista quale io mi pregio essere.
Vennero sibbene sicarii ad ammazzarmi tanto in Ponza che Ventotene. Il tentarono con veleni e col pugnale. Un certo Pezzella fu convinto e confesso, e venne fino da un consiglio di guerra condannato a morte. Ammazzai per altro io nessuno? Feci eseguire la condanna contro il Pezzella? Non mai. Per una stranissima combinazione, che anzi, né quando fui in Ponza, in Ventotene, in Ischia al comando generale delle forze di mare e terra del Re mio signore, tampoco uno subì giammai l'ultimo supplicio quando io colà comandava, o quando occupai la ca­rica di ministro di polizia.
Mi trovava in Firenze quando gli austriaci caduti in grave sospetto di un vespero (alla siciliana) spacciavano i liberali e carbonari fare all'armata, pretesero dalla reg­genza di Stato che fulminata avesse pena di morte contro ogni asportatore di armi qualsivoglia. Qualche sventura­to ci cadde mentre io mi trovava ancora fuori di Napoli, ovvero non aveva preso ancora le redini del ministero della polizia generale. Entrato però io ministro, la legge atroce ed ingiusta insieme non venne eseguita giammai. Si diede il primo caso. Uno venne sorpreso con un lungo stilo. La vittima era sicura. Io mi mandai a chiamare il presidente del consiglio di guerra. Era un bel militare giovane che era stato fedele alla bandiera dell'onore, avendo seguito il Re in Sicilia. Il nome di lui, mentre scrivo, non lo rammento. Io gli dissi che quell'uomo non doveva andare a morte, perché nessuno deve eseguire una legge notoriamente ingiusta essendo da prima ese­guirsi la legge di Dio (a).  (a) Leges humanae vini obligandi cum demum habent si lutuae sint ad humanum modum, non sì onus infungant quod aratione et a natura piane abhoment. Grozio N. I. B. et P.
Ma come posso fare? mi disse l'eletto presidente. Ecco: mandate a prendere l'arma, e lasciatamela vedere. L'arma venne, ed io avendoci rotta la punta gliela restituì dicendogli: adesso sarete salvo: se alcuno vi dirà come sia andata la faccenda; direte che lo stiletto si è rotto nelle mani del ministro di polizia, per cui mancando l'ingenere del delitto, direte che il consi­glio di guerra non può aver luogo, ma l'inquisito doversi restituire alla polizìa. Così venne eseguito; ed io, dopo averlo tenuto prigione qualche mese, lo restituii libero alla sua famiglia. Canaglia liberalesca, quando hai tu usurpato il potere, ti sei in eguai guisa condotto? Tu chiami me ferocissimo, e me lo ripete il furfante reve­rendissimo tuo visitatore, calato di già nel buio regno di Pluto. Dici che io ho spento mille vite; mentre che, né del sangue di un solo io mi presenterò lordato innanzi al tremendo tribunale di Dio. Ma tu che invece nell'epo­ca soltanto di Giuseppe Napoleone (che l'infame polizia atterriva sempre con congiure, di cui tre quinti essa n'era autrice) nel solo Regno di Napoli sedicimila trecento ed otto vittime immolasti in poco tempo, cadute tutte sotto la scure de' magistrati di sangue; tu idra infernale; tu carnefice del diavolo, e flagello agitato dell'ira ultrice del Dio delle vendette, tu nomini feroce?! Sì, la giunta di Stato del 1799 fu crudelissima, ma (siccome tra gli uomini tutto è confronto e parallelo) al tuo cospetto lo stesso Speciale è un Apollo; la giunta di Stato parteno-pea, posta al confronto tuo della Giovane Italia è lo stesso che paragonare Cibele con Aletto! Me tu stuzzichi, urti e pungi falso infame, liberalismo!! Tu scuoti la giub­ba al vecchio lione, che si risente sempre delle antiche ferite del cacciatore? Tu meco non guadagnerai mai nulla; scegli qualunque vuoi campione dell'ignominia. Nelle tue vecchie sozze ulceri io porrò impavido le forti mie branche, e ti lacererò come irco vilissimo.
Detestava il buon Ferdinando IV, giustissimo per na­tura, gli scellerati recidivi ribelli. Fedele però agl'impe­gni presi col congresso di Vienna, tutto avea posto in obblio, e rimunerava, in seguito de' giuramenti, gli stessi suoi avversarii e traditori. Quando però taluno ingrato al vomito ritornava de' suoi misfatti, avvampava l'otti­mo e di rabbia, e voleva che la giustizia venisse con ogni severità adempita.
Accaduto nella provincia di Salerno atroce premeditato omicidio un Signore del Regno ricco e potente (per anti­co odio) pensò farne cadere tutta la colpa sopra una fa­miglia ch'erasi sempre segnalata nelle rivoluzioni. Il si­gnare che accenno era caldo legittimista, e gl'incolpati (quattro fratelli) tutti carbonari. Le male arti del signore tutto l'effetto ebbero che desiderava. Il processo dimo­strava con tutta la legale evidenza che i quattro fratelli carbonari stati fossero gli autori dell'atroce premeditato misfatto. E siccome quel signore accostava a piacimento di lui l'ottimo Monarca, così al Re medesimo portò il processo.
Irritatissimo Ferdinando IV contro i creduti rei del barbaro omicidio, mandò tosto a chiamar me ministro allora per la prima volta della polizia generale. Lo trovai turbatissimo, e mi disse « Eccoti questo processo. Osservaio, e fammi sapere il tuo sentimento. Essendo questi vecchi giacobini posso fidarmi di te. Rimetterò il processo a Magistrati integri in seguito, che non siano settarii. Condannati che saranno alla forca (come vuole la legge) tu devi farli impiccare in una forca alta alta, per esempio di tutti. Inchinai profondamente il mio Re, indi, ritiratomi in casa, mi posi ad esaminare con tut­ta la freddezza e ponderazione il processo fatto a carico de' quattro famosi carbonari.
Per quanto la verità mi sembrasse evidentisima, pure mi nacquero sospetti che agitavano l'anima mia. Appunto perché sono carbonari, io dicea meco medesi­mo, conviene essere oculatissinto dovendo darne conto al Re indi a Dio.
Soggetto di ottima morale, e lumi estesissimi in Etica ed arte criminale mandai io nella provincia di Salerno. Né di ciò contento, feci da Salerno venire uomini, di mia fiducia e di tutta probità, ond'essere minutamente di tutto  informato.
Cosa trovo!!! Che mentre i quattro carbonari (che si trovavano da lungo tempo nelle segrete) comparivano le­galmente convinti; erano invece innocentissimi di quel misfatto. Trovai che il signore era un prepotente, il quale non potendo far punire quei quattro settarii per mali gravosissimi recatigli nel tempo del governo decennale rivoluzionario (attesa la generale amnistia) avea a furia d'oro, e colla di lui influenza fatto cadere sopra quelli il peso di una reità da quelli non commessa.
Vado dal Re nel giorno del mio Consiglio di Polizia; il Re appena vedutomi, mi disse: Ebbene Canosa, non mi hai ancora dato conto del processo che ti diedi! Erano presenti nel consiglio ordinario il rispettabile marchese di Circello, e que' due galantuomini del Cav. De Medici e Tommasi Aprii il mio portafoglio, e presentato al « monarca il processo, così presi a dire: Signore, si trat-« tava della vita di quattro uomini. Io doveva darne conto alla maestà vostra ed a quella di Dio. Gravita sopra i quattro incolpati tutta la verità legale, la verità morale  però li dichiara innocenti, e dice che... è un oppressore. — Oh bella! rispose il buon Re, non mi aspettava mai  sentirti avvocato de carbonari!! — Signore, sono stato « e sono l'avvocato della giustizia. Tosto che nel commes-« so delitto non hanno la benché minima parte, non poeva ingannare V. M. né gravare l'anima mia. Se V. M. « vuoi punire i quattro fratelli, è facilissimo facendo loro « dare conto de' misfatti da essi commessi nel decennio. — Ma io ho giurato liberamente l'amnistia, replicò il Monarca; ed io stretto essendomi nelle spalle, il « Re disse: non se ne parli più: falli porre subito in « libertà. »
Fu questo un fatto che non dovea sorprendere alcuno perché io avea fatto il mio dovere, né mi era comprato per una ridicola vendetta l'inferno. Erano però così cor­rotti i tempi, che l'avvenimento sorprese tutti, princi­piando dal Cav. De Medici e Tommasi. Nella provincia il fatto fece gran rumore, e si prese (ciò che non era) per un banale beneficio che io avessi fatto a quella famiglia (a).  (a) Quale est benefìcium Tacito
In somma tutti tenevano in testa che io es­sendo legittimista dovessi fare impiccare per odio i quat­tro carbonari ingiustamente. E perché? Perché tutta la gran parte degli impiegati, alla classe appartenendo de' falsi liberali andavano innanzi col patet exitus. E in vero sopra questa terra non avrei pagato un baiocco la vita di quei quattro settarii. Il colpo era difatti utile et tutum secondo la dottrina di Epicuro.
Ora siccome quei quattro fratelli erano giovani tutti, abbenchè passati diciott'anni sarebbe difficile, che tutti fossero spenti, com'è oltre modo facilissimo che sia mor­to il nemico di loro ch'era molto vecchio. Che ancora nessuno di quei fratelli esistesse, per azzardo, molti della provincia di Salerno devono rammentarsene.
per la grazia di Dio, sono stato nel disimpegno del­le mie cariche giusto sempre ed anche indulgente (dica
ciò che si voglia la sovrana liberalesca birbaglia). Mille sarebbono gli esempi che potrei addurre per difendere il
mio onore calunniosamente intaccato sopra un tale par­ticolare.   Annoierei  per  altro  me  medesimo  più  che  i miei leggitori, se tirassi troppo innanzi questa filastrocca. Citerò  nondimeno due esempi  di persone viventi che, per la grazia di Dio, vivono e si trovano in Napoli. E siccome ambedue sono persone onoratissime, così sono convinto e persuaso insieme, che interrogati lo conteste­ranno a chi che sia, per quanto il lodare me in taluni paesi,  l'essermi  amico è  lo   stesso  che  compromettersi innanzi al numero sterminato de' miei avversarii. Il primo che nominerò è il rinomato generai de corpi facoltativi Don Alessandro Begani. Quando io da Firen­ze venni mandato da Ferdinando IV a riassumere il catu
 abstinueris a negarlo scelere!?
rico pesantissimo della polizia generale, trovai che il ma­resciallo Begani era nelle segrete. Per le resistenze che il Begani aveva fatto in Gaeta (dopo che le armi del Re legittimo avevano conquistato tutto il Regno) io ne aveva formato una pessima opinione, per quanto poi in seguito rimanessi disingannato. Questa cattiva opinione in me era confermata nell'aver sentito che il Begani (che si era ri­tirato in Corsica) ritornato era in Napoli, tosto che venne proclamata la ribelle costituzione del 1820. Per quanto dunque non fosse stato arrestato il generale nel 1821 per ordine mio, pure, nell'essermi stato dato conto de' pri­gionieri, nel sentirci il Begani (secondo il mio pedantesco costume) dissi bene provisum. Ed ordinai indagini.
In una bella mattina (stando mi pare in casa) il mio primo usciere (cacciato di posto due volte secondo il solito in persona mia) Pasquale Chiajese, mi annunciò la signora marescialla Begani. Io scriveva al mio tavolino, e sentendo un tale annunzio dissi: Oh! piano piano con questo titolo di marescialla.
Or siccome io sentiva tutti in ogni giorno ed ora, cosi dissi al mio Pasqualino: falla entrare. Entrò di fatti la signora. Io la ricevei con volto serio, ma cortese nel tempo stesso come convenivasi al grado del consorte, ed alla sventura (sempre sacra per me) di lei. Con tuono fermo e rispettoso quella dama principiò subito a par­larmi del marito con commozione. Io gli replicai che il consorte di lei non era stato arrestato per mio ordine; sapendo però che era una buona pelle; avea disposto che ci rimanesse. Che se la signora bramava che affret­tassi le informazioni contro di lui, credeva che se ne sarebbe dovuto pentire e molto.
Intrepida la dama principiò a difendere la condotta del marito. E siccome io cercava stringerla (abbrevio per non recar noia) così essa con documenti alla mano (tutti portati seco) che cacciava, mi facea leggere. Po­che parole, la marescialla mi convinse in tutti i punti. Avrei, è certo, potuto sofisticare e forse con vantaggio, trattandosi di una signora. Siccome però mi avea con­vinto, il sofisticar di vantaggio sarebbe stato del costu­me liberalesco. La conversazione terminò, ma io non aveva manifestato alla signora la mia decisione. Nel licenziarla, incerta la marescialla, mi domandò cosa ave­va risoluto, e cosa dovesse sperare o temere. Allora io le risposi: che siccome aveva conosciuto che il marito era innocente, così lo avrebbe avuto tra le sue braccia il giorno seguente. Farei il poeta descrivendo lo stato di giubilo di quella rispettabilissima signora. Partì su­bito allegrissima. Ed io fedele alla mia promessa, invece di mandarcelo il giorno seguente, glielo mandai dopo un'ora che la marescialla era partita.
Il valorosissimo e perito Capitano di Fregata Don Domenico di Martino venne pessimamente dipinto dalia giunta di scrutinio. Gli si dava per carico (da veri car­bonari mascherati da realisti) l'avere servito il governo costituzionale nel 1820 ed essere appartenuto alla pro­scritta setta de' carbonari. Il consiglio di Stato aveva prese, col generai Frimont che interveniva, misure severissime. Il perdere il suo grado militare (che si era acquistato, con un lungo servizio e le azioni più strenue e generose) era la minore disgrazia che avrebbe colpito quell'onestissimo padre di famiglia. Parlò il ministro di polizia. Dissi che sulla mia propria vita assicurava che tutto dovea esser falso, per quanto sembrasse le­galmente provato. Dissi che D. Domenico de Martino non potea essere carbonaro, perché essendo cattolico (ciò che mi costava) il cattolico non disobbedisce agli ordini del Sommo Romano Pontefice. Dissi che il de­creto de' miei colleghi sarebbe stato sul mio onore e mio capo ingiusto. Il Re Ferdinando ch'era convinto essere io un galantuomo ed alla sacra di lui persona lealissimo, ordinò non potersi dubitare del mio giu­dizio; quindi D. Domenico de Martino (zio del coman­dante del pacchetto a vapore il Francesco I per cui facile sapersi da tanti viaggiatori padri della patria) rimase nel suo posto, onore e soldo corrispondente.
Ma quanti altri ne potrei citare luminosissimi, fo punto però; giacché suppongo tutti rimanere convinti che Colletta fu calunniatore q. e d.
 Offerse alla regina i suoi servigi, ed accolto andò in Sicilia.
Ancora ciò è falso. La Regina invece richiese i miei servigi. Essa mi mandò i suoi ordini per lo mezzo del marchese di Circello, che me li proferiva balbettando. Credeva il buon vecchio che uomo vivo, risentito, non asino, come i falsi liberali, si sarebbe sicuramente ne­gato, se non per altra causa (che ce n'erano mille come quelle di moglie giovane, figli teneri, genitori vecchi, libreria carissima; non parlo di patria perché riputai patria sempre il paese ove si trova il Re legittimo, spi­rito e anima della patria) se non vi fosse stata altra causa, ripeto, quella eravi del giusto risentimento per le ingiurie sofferte dalla giunta di Stato. Mentre tutti credeano che mi fossi negato; e molti supponeano (tra quali il Duca d'Ascoli) che io mi sarei vendicato (come molti in effetto fecero) io invece senza far terminare il discorso al marchese di Circello (la consorte di cui trovasi vivente, per grazia di Dio in Napoli Donna Cri-stina Ruffo di Calabria) e dissi VENGO, ed andai di­fatto, per quanto Giuseppe Napoleone e Saliceti pel mezzo di D. Sergio Frisicchio mandassero ad offrire carica importantissima. Pudori tamen malui bonaeque famae servire, quam salutis meae rationem ducere.
Di tutte queste belle cose ed azioni eroiche (ne sia lode soltanto a Dio) nessuno parla, ed anzi che gloria, onori, guiderdone si devono da una parte soffrire gl'in­sulti (per quanto io gli dia datteri per fichi) dalla so­vrana liberalesca canaglia, e per l'altra vada mendicando il pane carico di famiglia, ed essendo lodato da altra banda, sento intuonarmi da veri liberali l'epiteto di BELLISARIO delle due Sicilie.
E a ciò regola e durata avesse quello inferno, si « voleva per le trame un orditore sagace, ai ribaldi un « capo, alle congiure un centro non lontano dal Regno: « a  tale ufficio  andò Canosa su lo scoglio di Ponza.
È certo che il Principe di Canosa sopra lo scoglio di Ponza, con debolissime forze (per grazia, anzi per miracolo di Dio) divenne il più terribile martello contro i francesi, ed i rivoluzionarii per attività, per ingegno nel concepire gli stratagemmi, per coraggio, nel presen­tarsi impavido in mezzo gl'inimici del suo Re, batterli spessissimo, e, non potendolo, scappare dalle mani di loro come un pesce da quelle del pescatore. Esistono molti ancora, i quali dalla bocca stessa del prode Gioacchino Murat, (che come valoroso militare era ben diverso dal sibarita vigliacco Giuseppe) il solo Principe di Canosa figlio è quello che fa sempre naufragare Saliceti! È verissimo (e lo dicea ancora quel generai Mina che mi nomina il Bellisario delle due Sicilie), io mi resi arram­picato sugli scogli di Ponza con pochi miei bravi, e con un pugno di valorosi albanesi (che tutti mendicano an­cora peggio che me, un pane che non trovano, essendo tutte le ricchezze cadute quasi esclusivamente nelle mani dei nemici della monarchia) ancora più formida­bile a' nemici della religione della legittimità di quello Argante lo fosse sulla breccia di Gerusalemme ai cam­pioni della Croce.
Ma cosa avrebbe mai preteso il signor Colletta, con tutti quelli uomini veramente generosi, che, dopo aver adorato l'albero della prostituta libertà, e giurato, gri­dando da spiritati, libertà o morte si prostrano poi in­nanzi al rosso giacobinico barretto, trasmutato, per in­cantesimo (come sempre, a marcio di loro dispetto, avviene) in diadema ora imperiale ed ora reale?! Che Ferdinando IV dopo essere stato assassinato più da' sudditi ribelli, che dall'inimico straniero, si fosse che­tato, nulla fatto avesse per ricuperare il suo Regno di Napoli (quasi che nella folla perduto avesse un fazzo­letto, come io in una sera dicea, predicando, ai capi del popolo in santa Lucia in Napoli, alla barba de' francesi) anzi che docile e rassegnato, ceduto ancora a' rivoluzio­narii la Sicilia avesse, e perché? Perché l'onnipotente giusto (parola del primo proclama pubblicato in Napoli dal tristo Saliceti) assegnato in retaggio l'aveva al Numa Pompilio delle Gallie, sibaritico Giuseppe Bonaparte!
E da me cosa pretendeva quella ribelle vilissima partenopea canaglia? Cosa credea dover esigere da prodi sventurati miei emigrati, da valorosissimi e leali miei Albanesi? Che dopo avere noi con non ordinario eroi­smo lasciato gli oggetti più cari, sia in Napoli od Alba­nia, tutto sacrificando all'onore patrizio monarchico ed all'onor militare, non avessimo fatto il nostro dovere, o venisse fatto con quella freddezza propria degli im­piegati mercenarii? Più desiderato avrebbono che (se­condo il costume de' rivoluzionarii) tradito avessimo il Monarca che, datoci da Dio, ne dovea esser considerato come l'immagine, e che le isole che aveva l'onore di comandare, la flotta, le armi tutte rassegnate da noi state fossero umilmente alla coronata birbaglia, come taluni, immensamente perversi un dì, i figli immolavano all'idolo di Moloch!!
E fino coll'ofìerta di un milione quei vili tentarono sedurre il valente Principe di Assia Philipstadt, che Gae-ta capitanava, e me con quella di cinquecento mila du­cati! Non sarei in vero (se accettata avessi l'infame of­ferta) il Bellisario adesso delle due Sicilie: forse le pri­me cariche ancora occuperei, e de' primi onori sarei fre­giato in Europa (per il sistema più che assurdo, incon­cepibile  della politica  amalgamatrice )   sarei  nondimeno agli occhi di tutti gli onesti uomini un infame, ed agli occhi della posterità imparziale il mio nome andato ne sarebbe esecrato ed esecrabile, come quello di quei sud­diti e militari vigliacchi, sacrileghi e traditori, i quali uni­ti  agli scomunicati  stranieri,  osarono  dar  la  scalata  al venerando sommo sacerdote del Dio vivente in eterno, Pio VII, che all'eminente dignità di legittimo monarca dello Stato Pontificio, quella riuniva del primo ministro di Gesù Cristo, il cui solo maestoso aspetto muove in me, oltre gli affetti tutti dell'amor filiale, benanche quel­lo  di sentirmi rimbrividire  nelle vene  tutto il sangue, meditando la sedia sulla quale si posa, e l'immenso spi­rituale potere da Gesù Cristo concessogli.
Pare dunque che se era un orditore sagace, e se come tale il mio Re legittimo, e l'immortale e sagacissima ed intrepida Maria Carolina, come tale mi aveva mandato sopra l'isola di Ponza, non feci che il mio dovere nel non dare un solo istante di tregua a coloro, che altro non erano che usurpatori e ribelli. E' verissimo, ed io me ne glorio, e ne vado fastoso; tenni quella canaglia in un perpetuo inferno, senza dare loro un momento solo di pace. Pretensione bellissima! Era stato rubato un Re­gno, che è un paradiso terrestre, e pretendevano rima­nerci ancora tranquilli, senza chi osasse molestarli. Veri asinacci! Ma se ciò fosse un male, trattandosi di usur­patori e ribelli, quanto maggiore considerar si dovrebbe quello della Giovane Italia, che né un momento lascia in pace la legittimità. Così mentre impiega tutta la sua eloquenza nel criticare la ferocia della giunta di Stato del 1799 (che poi non mandò a morte che qualche cen­tinaia di giacobini, con taluni pochi innocenti) e perché non si scatena contro i tribunali di sangue di Giuseppe, che 16308 trucidarono? Ma chi ragiona in questo mo­do, chi s'irrita pel male minore, mentre non si scuote pel maggiore è ingiustamente somaro. Dunque profonda­mente somaro fu il Colletta q. e d.
« Era in quell'isola un ergastolo, ch'egli dischiuse: con quei galeotti e con altri pessimi, condotti da Sicilia o attirati da Napoli, ordì nel Regno per cinque anni tra me, ribellioni, delitti, e fu cagione di mille morti, o  da lui date o dall'avversa parte per vendetta e condanne. »
Ma si può dare mai storico tanto balordo, da tutto ignorare fino le cose più minime. Ed osano cotali pigmei ignorantissimi misurarsi mecoi! Conciossiachè dice che in Ponza eravi un ergastolo; e questo invece trovavasi a molte miglia lontano, cioè in Ventotene. Asserisce che io aprii tale ergastolo, mentre ciò venne antecedente­mente al mio arrivo eseguito da taluni che avevano avu­to commissioni da eseguire sul continente. Pochissimi in­dividui vecchi, e negati al mestiere delle armi furono quelli, che io trovai in S. Stefano, e (come la prudenza consigliava) li levai da quel pericoloso sito per mandarli in altri della Sicilia. Così dice lo storico ( asino vera­mente per eccellenza) che io mi trattenni in Ponza cin­que anni, mentre invece non furono che tre gli anni che io comandai in quelle isole. In somma non ne indovina una sola, e delle cose più ovvie e comuni. Ecco quali sono gli insetti che dalla putredine sorgono per tormen­tarmi!
Ciò poi che riguarda i galeotti, coi quali dice l'arcive­scovo Turpino che io faceva guerra a' francesi, egli ne mente per la gola. Né fu il primo a mentire circa tale particolare, conciossiachè prima di lui mentì per la go­la l'esecrando Saliceti nel suo mendacissimo rapporto di cui poco sopra facea menzione. Io dunque sopra una tale accusa risponderò all'arcivescovo Turpino nel modo stes­so che in Ponza scrivea contro il sommo sacerdote di lui Cristofaro Saliceti.
« Se Canosa avesse avuto la smania di avere per compagni galeotti, sarebbe rimasto in Napoli, o già di gran tempo, ai ripetuti inviti sarebbe entrato nel partito di Saliceti. Non solo galeotti in fatti sono quelli,  di cui si serve Giuseppe nell'esercizio delle diverse cariche, ma sono anzi di più l'avanzo più miserabile delle forche. La frase per quanto viva, per tanto vera, non è già di Canosa, sibbene del Caporuota Don Michelangelo Cianciulli, che ora vergognosamente la fa da segretario di Stato di Giuseppe. Nell'abbondanza del suo cuore questo vecchio saggio e dotto giureconsulto, disse ciò essendogli proposto uno sciame di giacobini, avanzi delle forche del 1799 per impiegarli negli affari di giustizia e di polizia. Del rimanente Canosa è nemico egualmente de' giacobini e de' galeotti, né appresso di sé ha altri assassini fuori di quelli che gli vengono interpellatamente spediti da Saliceti, o da altri subalterni dell'infame di lui polizia. »
 I servigi di Ponza non altro gli fruttarono che la promessa del ministero di polizia qualora piacesse ai « cieli di rendere al legittimo Re il trono di Napoli.
Storico veramente asino! non che ignorare le piccole cose, come abbiamo avuto occasione di vedere, ignora benanche interamente lo spirito delle persone di cui scri­ve, de' paesi di cui parla, e de' tempi per quanto, come i greci dicevano, sincroni. Con Colletta non ci è neces­sità di arte rettorica o di sottigliezza logica per dimo­strarlo bestia, lo apparisce a tutti al primo colpo d'oc­chio perito.
Egli dice che venne a me promesso il ministero di po­lizia nel caso fosse stato Napoli nuovamente del legittimo Re. Dunque ignorava il somaraccio che il Re Ferdinando IV pieno di buon senso, non volea sapere nulla delle novità rivoluzionarie, ed era in quell'epoca nella piena risoluzione di tutto volere restituire ad pristinum? Trop­po inoltre conoscendo l'ottimo Ferdinando quale, pel pubblico, molestissimo magistrato era quello della polizia (se non cade in mano di un angelo incarnato) era di lui pensiero in Sicilia non volerlo in Napoli installare, ma fare che le cose rimanessero com 'erano prima che da Napoli si partisse, quando comandava il Duca d'Ascoli.
Argomento fortissimo di quanto asserisco è che in Si­cilia trovandosi il Re, e correndo tempi pericolosissimi (i francesi in Napoli, gl'inglesi e giacobini in Sicilia e molti tra finti emigrati ancora), non volle ciò non ostan­te mai decidersi tormentare i sudditi suoi colla pesante, molestissima istituzione della polizia. Lasciò quindi i ca­pitani come si trovavano, ciascuno comandando il dipar­timento proprio1 per quanto quell'antica istituzione sicula fosse alquanto imperfetta.
Ferdinando IV, ripeterò mille volte, pieno di buon senso, era tanto avverso alle rivoluzionarie novità, e tan­to ne conoscea l'interno male, ed i pessimi risultamenti per la monarchia legittima (e di fatto tutto era istituito per la repubblica e le monarchie militari rivoluzionarie), che, con saggio avvedimento e con fina politica, fece bru-giare per mano del carnefice pagina per pagina, quel co­dice napoleonico, che in taluni regni legittimi trovasi in pieno vigore, o perché taluni che governano sono ignoranti, ovvero perché, nel servire in apparenza la legitti­mità, cercano in sostanza servire la rivoluzione. Dunque l'idea di eleggere un ministero di polizia non entrò in capo giammai a Ferdinando IV, quindi potea molto me­no prometterlo al Principe di Canosa.
Più io fui sempre, per grazia di Dio, un galantuomo. Le calunnie, il convocio, gli schiamazzi de' falsi liberali contro me non saranno mai capaci di altro che di ren­dere più gigantesca la mia opinione, non che presso i legittimisti, ma presso gl'indifferenti, ed i veri liberali che mi rendono giustizia abbenchè di sentimenti diversi. Se dunque io sono un galantuomo, e se nessuno mi nega qualche talento e perspicacia, può credermi quando dico, che, conoscendo che il ministero di polizia, non essere mestiere di galantuomo non lo avrei desiderato giammai né accettato tampoco.
Reduce dalle  Spagne lo  accettai, ma perché  supposi che se non avrei potuto fare il bene, avrei impedito molti mali: Fino in fatti da Milano, trovandomi nel teatro del­la Scala reduce dalla Spagna nel 1815, sentendo leggere certe gazzette, mi avvidi delle trame de' rivoluzionarii, i quali, colla pelle dell'agnello sul dorso, stavano organiz­zando una nuova rivoluzione che non era conosciuta che dagli uomini di sopraffino intendimento. Da quell'istan­te in poi me ne confermai sempre più, e lo andava ripe­tendo al Re tanto che al marchese di Circello. Mi guar­dava dirlo soltanto a Medici e Tommasi, come mi guar­derei leggere un pezzo di Vangelo al Muftì in Marocco, giacché la mia lettura sarebbe inutile per convertirlo, e sicura per farmi impalare.
Per tale ragione dunque soltanto accettai una carica, la quale se sapea disimpegnarla, se ne avvide per tre anni Saliceti, ma mi era assolutamente antipatica, e non per il mio modo di pensare. Lo      immaginava poter impedire una nuova rivoluzione nel mio paese che vedeva nascere, e pargoleggiare fra tutti quegli asini liberali, e quindi salvare la patria mia da quel flagello straniero, che puranco prevedeva.
E ci sarei riuscito felicissimamente, se tutti gli stru­menti dell'orchestra suonato avessero d'accordo. Come però andare innanzi con Medici e Tommasi, puerilmente invasati di filosofia, d'illuminismo, di novità, che suppo­nevano che per chiudere le piaghe non eravi rimedio più adattato delle cantaridi e butirro d'antimonio!!!
 Il           Re Ferdinando era ottimo, e il buon senso di lui lo facea essere tutto d'accordo con me. Egli però mi conoscea poco, mentre avea ogni fiducia e tutta l'opinionein que' due defunti scimmioni ricamati.
Non aveva per me che l'ottimo signor marchese di Circello. Ciò che vedeva io, esso pure vedeva; che se quel signore non erasi consumato sopra i libri, aveva però una grande esperienza, ed una pratica di mondo estesa e profonda, si potea dire di lui ciò che di Piatone dicea il Dottore Africano: Rem vidit causam nescivit. Come que' medici di buon senso che hanno studiato po­co, e veduti molti ammalati, il prognostico di lui era sicuro. Per il maggior vantaggio per la causa della legit­timità, il marchese di Circello era conosciuto e ben ve­duto dal Re N. S. Uniti dunque si potea fare moltissimo (quante volte tali discorsi con quel venerando patrizio si fecero nel 1821!): come tirare innanzi però quando al marchese mancava ciò che si chiama vigore!! Ecco perciò che spesso rimanea solo esposto al fuoco granel­lato ed alle mine {iacobinico more) de' due RR. PP. della Patria, de Medici e Tommasi che avevano preso tut­to l'ascendente sopra l'ottimo monarca!
Vedendo io dunque che la rivoluzione progrediva, e che io non avendo forze da impedirla, andava a fare la
figura o dell'asino o del traditore (dopo aver tutto ras­segnato a S. M. per ben tre volte in iscritto, e molte più a voce non curando essere chiamato fanatico, testa calda, allarmista) non volendo, dicea, farmi rompere il bic­chiere nelle mani rinunciai una carica che, ripeto, sapea disimpegnarla, ma mi era antipatica.
Che se taluno volesse in me trovar contraddizione tra quello che scrivo e ciò che ho operato, mirando che io nel 1821 cedei agli ordini del Re mio signore in Firenze che volle che io la carica riassumessi di ministro di po­lizia, dirò che lo stesso fine del bene del mio paese mi fece fare quel secondo sagrificio. Mirava la necessità d'in­trodurre uomini voracissimi nella mia povera patria!! Mi figurava farceli stare poco. Questo pensiere manifestato, rovinò tutti i miei patriottici disegni.
Il discorso, caro compare, sarebbe lungo. Annoierei voi e i leggitori. Coloro che bramano saperne altro, si associeranno alle mie opere. In una di esse questo pezzo di storia interessantissima verrà sviluppato in una ma­niera tanto minuta da non far desiderare nulla a' più cu­riosi. Né sarà trattata alla maniera del Colletta o di altri storici congiurati tutti contro la verità. Io lo tratterò con documenti alla mano, e con pezzi officiali degli stessi di­plomatici, miei accaniti avversarii. Per ora mi sono dilun­gato più che abbastanza. Basterà conchiudere, come il solito, che Colletta ha scritto ciò che non sapeva, ma quello che gli veniva in testa. Ma un autore che scrive così la storia, è un asino. Asino dunque è Colletta, q. e d.
« Era nel Regno la setta de' Calderari, che dovea per voti sostenere la monarchia dispotica, opprimere i carbonari, i liberi muratori, i murattiani, i liberali. ».
Ma cosa sapea quel balordo di Colletta che la setta de' calderari dovea per voti sostenere la monarchia di­spotica?1Se io medesimo, ministro due volte della polizia generale, avendo voluto approfondire questa mate­ria, tanto poco ne conobbi e seppi che cade ancora dub­bio nell'animo mio se fosse mai in realtà esistita, ovvero della cosa non ci fossero che parole accompagnate da po­ca o null'azione? Ma il Colletta franco quanto un santone maomettano, e più che quelli sfrontato ed impu­dente (come tutti i somari) sostiene in tuono autentico l'esistenza di loro, ed anche i voti!!  Vera bestia!
È difficile che possa darsi una setta, ed è ben difficile che voti faccia per sostenere la monarchia dispotica. Do­po la democrazia di fatti e l'oligarchia non evvi bestia più brutta della monarchia dispotica; ed in particolare quando il despota è miscredente o asino, cosa poi non tanto difficile ad avvenire. Ci possono esser benissimo partitanti della monarchia dispotica, come molti medici partitanti sarebbero del cholera e della peste se di mezzo non gliene andasse la pelle. Questi però non possono es­sere che quelli che circondano il trono del despota, e par­tecipano dell'orrenda mensa di Tieste. Sette però non può esservene, come verun uomo che a mediocri talenti, unisca un solo briciolino di religione, può essere amico della monarchia dispotica.
Asini calunniatori, come sono i liberali, tra le tante bestialità di frequenti, sostennero essere io l'amico e di­fensore della monarchia dispotica l'assecla ancora della tirannia; ma come poterlo solo immaginare! Come soste­nerlo dopo tanti fatti in contrario?! E chi de' liberali si oppose come e quanto me al fiscale Vivenzio, al principe di Castelcicala, al generale Acton, e a tanti altri quando pretendevano ciò1 che non era notoriamente giusto; quan­do cercavano invadere i dritti miei, o della mia classe patrizia? Ed in Sicilia non fui io quello che, con tutto il rispetto, dissi personalmente alla Regina Carolina, ciò non si può fare? Ancora da ministro feci lo stesso tre volte. Ora sono dunque gli uomini come me, gli amici della monarchia assoluta, e gli assedi della tirannia?! (a) (a) Mentre consegno questo mio foglio al bravo giovane signor Domenico Accarisi, figlio del cavalier D. Filippo (vero martire della legittimità), mi dice che io di sopra ho detto presso a poco le stesse cose. Io però gli ho risposto: dunque se una volta è stata parata una stoccata, non si deve perciò pararla la seconda, ed anche la centesima volta?

Può dirsi, che qualche volta nel difendere la causa del­la legittimità sono potuto sembrare ad uomo emuntae naris, essere andato io un poco in là. Ciò per altro che può scandalizzare il ciuccio, non farà la menoma sensa­zione ed impressione nel saggio. Imperciocché, se il po­lemico deve opporre una reazione (quando conosce il suo mestiere) proporzionata all'azione, deve per neces­sità eccedere. Seneca perciò insegnava « Quaedam prae cipimus ultra modutn ut verum et ìustum redeant. » Tali pensieri e riflessioni non essendo della stagione del progresso de' lumi, intendo dirle agli oscuranti, i quali, come Cicerone, sanno come si deve intendere il ragionar dell'oratore, e come il sentenziare del giudice.
Veramente! Carbonari, liberi muratori, murattiani, e liberali!! Tutti morti (utinam) e da chi? Dai calderari, sopra i quali cade forte dubiezza se sieno o no esistiti? Ma non vedete, amico mio, essere un cotale storico una vera bestia?!! Lo ha sostenuto ancora qualche diploma­tico, ed io ne conservo documenti. Ma cotali signori me­ritano lo stesso epiteto.
« Di loro si fece capo, o lo era, il Principe di Canosa, « che divenuto ministro gli agitò coi mezzi e nel segreto « della setta, accrebbe il numero, distribuì patenti ed armi, diede comandi e consigli: attendeva l'opportunità di prorompere nella città e provincie ec. »
Non è quello poi che sempre ho detto io, ma che mi si vuoi contrastare per principio di civiltà, ma con poca giustizia, e nullo buon senso. Se io difatto chiamo asini e birbanti i miei avversarii, ragionando io in guisa la giustizia degli epiteti che loro dispenso, non ci è altro che dire contro me che non voglio seguire la moda, la qual vuoi mutare alle cose i vocaboli per tutto confon­dere (a). (a) Dicea Lock nella sua opera de intellectu humano « Quibus familiare est nomina rerum loco sumere de actionibus judicantes « in errorem saeoe ducuntur. »
Non è così della liberalesca canaglia, che nel dare a me tante diverse attribuzioni che non mi competono, non che provare e dimostrare ciò che dicono, ri­mangono colla bocca aperta come pappagalli, facendo ben conoscere non saprei tampoco ove si abbiano la testa, parlando ancora spesso contro l'interno proprio convin­cimento. E in vero chi ha mai replicato alle risposte che le mille volte loro ho dato per le stampe? Chi ha risposto a' Piffari di montagna?
Come potea esser io il capo de' calderari, quando (si credere dignum est) sorsero quelli nel decennio; ed io prima che il generai Giuseppe Principe Francese lordas­se di sua presenza il Regno di Napoli, io mi trovava al seguito degli infanti delle due Sicilie, D. Francesco, indi Re, e D. Leopoldo Principe di Salerno? Dunque somaro.
Come potea farmi capo de' calderari reduce che fui dalle Spagne, quando aveva io giurato nelle mani del Re (ne ce n'era bisogno, perché prima del Re ogni so­cietà segreta era stata fulminata dal Sommo Romano Pontefice) aveva giurato, ripeto, che non avrei fatto par­te giammai di società segrete. È vero che i RR. PP. della Patria, dopo aver giurato alla repubblica, giurarono all'oppressore delle repubbliche, giurarono indi al mo­narca legittimo; in seguito alla costituzione, e giurerebbero fedeltà alla peste ed al diavolo. Per poter logica­mente, ed eticamente supporre me capace di giurare e spergiurare, doveva prima il reverendissimo Padre Pietro dimostrare che la mia morale la stessa fosse che quella de' suoi buoni cugini. Tosto che notoriamente consta, che i miei principii sono in tutto e per tutto in oppo­sizione di quelli della rivoluzionaria birbaglia, il solo so­stenere che io, spergiurando, mi era fatto capo de' calderari, è una proposizione che non avrebbe fatta una bestia.
Ma non solamente il Padre Pietro è un asino ed una bestia, come ho avuto l'onore di dimostrare agli amici e mecenati di lui, ma era un uomo di mala fede ed un vero birbante. Imperciocché siccome è nel preciso do­vere il ben ponderare, riflettere, considerare la dottrina di colui che si vuoi confutare (a), (a) È vetissimo essere della moda de' dotti del progresso de' lumi, il parlare, ragionare, criticare, e disputare di ciò che non s'intende affatto, né si è mai studiato. Mille conosco io miscredenti filosofi immaginarii, e politici da gazzette, che dicono e scrivono contro la religione, i frati, il Papa senza avere né una volta aperto soltanto un apologista della religione, uno storico ecclesiastico veritiero, così tanti cercano dimostrare al volgo, essere la monarchia il peggior de' governi, la democrazia il migliore, senza cono­scere la definizione tampoco dell'una come dell'altra. Ma tali sog­getti si chiamano uomini per abuso di vocabolario, ed il corso di logica per essi lo seppe inventare (dopo però Aristotile) monsignor Busca governatore di Roma: Cum negantibus prima principia baculo est utendum. Così il signor Col­letta nel voler criticare quella parte della mia vita poli­tica che ha rapporto colla setta dei calderari, essendo uo­mo del menomo ingegno e criterio, come di buona fede dovea leggere, considerare e riflettere ciò che io sopra un tal particolare avea (prima del 1825) scritto ex pro­fesso, sopra l'accennata materia. Cinque mila correano allora in Europa esemplari de' Piffari di montagna. Se può essere che Colletta non li avesse mai letti, è impos­sibile che non mai sentito ne avesse parlare. Dunque era nel dovere di leggerli, onde venire al fatto di ciò che io rispondea alle suddette imputazioni datemi dal Conte Orloff, dalla biblioteca di Parigi, dall'Estensore del foglio letterario di Londra (a). (a) Conseguente il radicalismo inglese, e non ridicolo e buffone come l'italiano, tradusse in gran parte i Piffari di montagna; e l'estensore del foglio letterario perde tutti i suoi associati. Ciò si chiama essere conseguente. Tampoco tal erudizione sapea il Padre Pietro?!!
Ogni regola critica però persuadendo chi che sia, che il Padre Pietro, aven­do letto benissimo i Piffari di montagna, abbia finto non averli letti, al fine di non arrestarsi nel corso del calun­niarmi; e caratterizzandosi dal buon senso generale un tal procedere come quello di un uomo di mala fede; e l'uomo di mala fede, essendo il vero birbante: con ogni giustizia e verità il Colletta dunque fu un birbante, q. e d.
 E per avvincere l'animo del Re, Canosa doppiamente adultero, sempre ubbriaco di vino e di furore, eserccitava con pompa tutte le pratiche della cristianità, e religioso era tenuto dal re e dal volgo. Maraviglia vederlo in chiesa genuflesso agli altari, mormorare preci e baciare sante reliquie; maraviglia vederlo in casa tratttare opere inique sotto le immagini del Salvatore e dei Santi, e le sale ripiene di delatori e sicarii e confessori « e frati che avevano fama di santità.
Mira bestia! Mira asino le mille volte più grande de' più magnifici di quelli della Marca! Io, compare mio, quando posso con giustizia e verità dare dell'asino per le corna ad un liberale, sono più contento, che se ne avessi potuto prendere vendetta qualsivoglia. Troppe delizie godo nel nominarli ed essere convinto che sono real­mente asini; avvegnaché essendo tali, ci è ancora poco da temerli per la cosa pubblica. Cosa può fare un asi­no? Ancora che dia un calcio, è sempre un calcio da somaro. All'incontro quando io ficco loro i miei artigli sul dorso, li lacero e li sbrano come il lione suoi fare al povero ciuccio.
Hai dunque sentita la batteria oratoria, caro il mio compare che mi ha sparato sopra il Padre Pietro!! Al­tra consimile nella scorsa primavera me ne scaricò in­dosso un altro Padre della Patria chiamato Fra Paolo! Meschini! Ambedue incendiato mi crederono e distrutto dal Vesuvio e mongibello rispettivo, che mi avevano vo­mitato sul dosso. Meschini! Ne quicquam umbone pependerunt. Ripeto e '1 ripeterò le mille volte. Asino e birbante. Ed acciocché nessuno si formalizzi, così passo a dimostrarlo.
Cosa entra nella storia il doppiamente adultero che per iscrivere quel parolone sonante e polissillabo? Eb­bene. Lo fosse. Sono stato un peccatore, e me ne pento innanzi a Dio ed a' ministri suoi. Egli sarà stato dop­piamente casto, ma tre volte ribelle, e sempre spergiuro. Se il doppiamente adultero non ha che fare colla storia, e il tre volte ribelle e sempre spergiuro impudentissimo ci ha che far benissimo, caratterizzandolo per un birbo ed infame, io  sarò  dichiarato buon  critico  ed  esso  un asino.
In oltre se io doppiamente adultero mi sono pentito, posso lusingarmi di misericordia e perdono, il Padre Pie­tro però doppiamente casto (con tutti i RR. PP. delle Patrie, buoni cugini, ec. ec. casti tutti quanto Senocrate) ma canaglia tre volte ribelle e sempre spergiuro, essendo ostinato, irreconciliabile coll'ordine (a' ricreduti difatti crederà solo il giudeo Apella) ed impenitenti anderanno in eterno a casa del diavolo. Ma siccome il pentirsi è da uomo saggio, il rimanere ostinato ed im­penitente da bestia, dunque bestia è il Colletta, e tutta l'ammiratrice canaglia, q. e d.
Dice essere io sempre ubbriaco di vino e di furore. Ciò che scriveva di me il Padre Pietro lo copiava an­cora il Padre Fra Paolo. Sembra che lo scelse per mo­dello. Bel Tiziano era difatti il Padre Pietro. Ambedue però tali RR. PP. della Patria avrebbero dovuto dimo­strarlo. Se generalmente (ed in questi tempi in parti­colare) si crede poco alle dimostrazioni le più evidenti, come prestar fede sopra la semplice di loro parola al Padre Pietro, come al copista di lui Padre Fra Paolo?! Ma siccome il Padre Pietro dovea sapere che agli sper­giuri recidivi come lui non può prestar fede che la sola politica amalgamatrice (a) (a) Che potesse credersi a' ricreduti prima del ritorno di Lui­gi XVIII in Francia, passi pure. Io non ho loro creduto giammai. Ma il creder loro dopo i cento giorni di Napoleone; dopo gli af­fari di Napoli, di Piemonte, della Romagna ed Italia centrale, anziché da saggio è da....
così il supporre che i saggi e 1 pubblico potessero non ostante prestargli credenza è pensiere da vero somaro. Dunque nel nominarmi ub­briaco nella sua storia l'arcivescovo Turpino recidivo spergiuro ha dato prova di essere somaro, q. e d.
Con un volto di porfido d'Egitto, con un volto che i greci chiamerebbero cinops il Padre reverendissimo asse­risce che esercitava con pompa tutte le pratiche della cristianità, e religioso era tenuto dal Re e dal volgo. Nego suppositum. Scusi la scolastica insolenzà, ma ra-gionatissima. Conciossiachè io non mai esercitai le pra­tiche della cristianità, che quelle solamente del puro precetto della Santa Madre Chiesa; né tampoco ne avrei avuto il tempo; dappoiché facendo il ministro di polizia come conviensi, non si ha tempo per nulla. La pompa che dice il Padre Asino non è vera affatto; avvegnaché fino la santa messa, ne' giorni di precetto, la sentiva in casa. Andava benissimo a confessarmi e comunicarmi quando il sacerdote di Cristo me ne credeva meno in­degno. Per quanto non mai sia stato filosofo; né mi sia vergognato il confessare il mio Redentore Gesù Cristo; pure io andava a fare i miei doveri cristiani nella reli­giosa Casa dei Vergini, confessandomi il Padre Masturso superiore de' signori della Missione di S. Vincenzo de' Paoli: cercando andarci sempre ne' giorni feriali, ripeto, non perché mi vergognassi farmi vedere a' piedi del sa­cerdote, ma per essere meno distratto, veniva a fare i miei cristiani doveri in un modo opposto tutto alle pom­pe che vuoi dare ad intendere a' gonzi il Padre Somaro. Risus teneatis amici! Quando mai il Re Ferdinando mi ha tenuto per religioso! Molto meno il volgo! Se per religioso inteso avesse dire il Padre Pietro, che io non veniva riguardato' come spirito forte avrebbe detto bene; avvegnaché fino da' primi anni del mio matrimonio di­venni cattolico per interno convincimento. Esso però in-tendea dire bigotto. Ora tale opinione non l'ho avuta giammai, anzi non poteva averla, secondo scrive lo stesso mio avversario, locchè forma maggiormente il suo torto. Imperciocché, essendo doppiamente notorio adultero; ubbriaco sempre di vino e di furore, avendo spente mil­le vite, ed infine essendo un notorio spergiuro, come capo de' calderari, è ben difficile, anzi impossibile che, con questi piccioli peccati veniali addosso, avessi potuto illudere il Re ed il volgo molto più (a) (a) Altro mio avversario cattolico democratico, dicea di me pur anco le stesse cose con termini diversi. Oltre avermi incolpato di otto (uno di più de' sette) peccati mortali, sostenea che la mia opinione di veterano milite della cattolica religione e della legit  col farmi credere religioso. Cosa ne dicono di tale mio argomento i mece­nati e protettori del Padre Pietro? Cosa ne dice l'acu-tissimo, sapientissimo impregnanuvole; lo stesso genio di Fra Paolo di lui copista? Mi sembra che senza gra­vemente peccare in orgoglio possa meo jure dare anche un'altra volta del somaro al signor Colletta, q. e d.
« Meraviglia vederlo in chiesa genuflesso agli altari,  mormorare preci e baciare sante reliquie, meraviglia vederlo in casa trattare opere inique sotto le immagini del Salvatore e dei Santi, e le sale ripiene di delatori  e sicari e confessori e frati che avevano fama di san­tità. »
Maraviglia veramente è il vedere come un bugiardo asino come il Colletta non fosse stato, vivente, preso a calci in quel servizio da quanti conoscendo tali ridicole imposture, stomacati non ne rimanessero. Maraviglia il vedere come gli stessi RR. PP. della Patria non gli aves­sero, vivente, dati schiaffi e sputi nella faccia nel sen­tirlo in tale guisa folleggiar da fanciullo. Conciossiachè dovendo sapere i PP. delle Patrie esser tutte menzogne sciocchissime quelle che scrivea contro me quel falso li­berale imbecille, e conoscendo d'altronde che a me fu­ma il capo; che sono animale che non porto in groppa; timità era falsa. Mi chiamava perciò il novello Nabucco coi piedi di creta, e il Mago della selva Nera. Minacciando da Ferraut che mi avrebbe rotti i piedi e il talismano. A quel mecenate di lui mandai a leggere la mia risposta. In essa dimostrava, che se io avea i piedi, avea esso la testa di creta, e se lui volea rompermi il talismano, io gli avrei rotto il grugno, se una certa riverenza religiosa ed un certo rispetto al primo uomo della terra per dignità, disarmato il mio risentimento non avesse; risentimento riacceso dalle tante trasonerie, e fanfaronate, e da certe pive che disse un certo .... avermi il Padre Paolo fatte riporre nel sacco. Ci vogliono altri musi. Per tre anni non bastò l'animo, né a Giuseppe né a Murat farmele riporre. Mira se Fra Paolo e che le aveva cantate in musica figurata e con canto fermo, fino all'onnipotente Napoleone, (dal braccio del quale mi trovava lontano soltanto 18 miglia) dovea dico prenderlo e legarlo come matto, e prima che andasse alle stampe, vendere al pizzicagnolo i suoi scartafacci. E in vero dovendo supporre che io avrei risposto alle scioc-chezze ed insoienze di colui ( per quanto fosse asino ) doveano ancora conchiudere che la causa de' falsi libe­rali ne dovea rimaner compromessa e maggiormente di­leggiata da me. Vaglia di fatti il vero. Cosa hanno mai guadagnato colla di loro polemica i falsi liberali meco? Li ho sempre battuti, fracassati, polverizzati, e tre quar­te parti del buono spirito in Romagna si deve a quelle risposte fatte a' dottori del liberalismo, che con tanto poco buon senso, non conoscendomi, sono venuti a rom­permi li stivali e le corde del mio mandolino. Se la ca­naglia non avesse ostacolato me o i sovrani legittimi che io serviva, io me ne sarei rimasto tranquillo; giacché come mille volte ho scritto, io non ho attaccato alcuno giammai né fatto da aggressore. Dunque cosa ci hanno meco guadagnato? Sempre nulla, dappoiché sempre i miei fendenti hanno aperto loro il capo fino ai denti, come sta ora accadendo a Colletta.
Né io mi credo un grand'uomo! Dio me ne liberi da tanto stolto orgoglio. Ed ancora che lo fossi, cosa ci sarebbe di mio? Tutto sarebbe di Dio che dispensa i suoi doni più o meno a chi gli piace. Ma oltre ciò, e da ciò prescindendo, io conosco benissimo, né essere grand'uomo, né averlo potuto diventare, ancora voluto lo avessi, avendo troppo presto lasciata la penna per la spada. Dunque so veramente pochissimo. Fatto sta che per mia fortuna però i miei avversarii sono meno assai del nulla, essendo sapienti negativi. Perciò li ho presi sempre a pedate, né credo peccare gravemente di superbia se ho la presunzione di fare sempre loro lo stesso. Fra Paolo, mirando così maltrattati i figli suoi in spiritu et charitate, convenendo in ciò che non potea ne­gare il gran battere, e l'averli le mille volte stramazzati al suolo, scrisse, (per onor delle armi liberalesche) che ciò mi era sempre riuscito, perché i carbonari non ave­vano saputo attaccar me nella parte debole. Convien dire, che il nuovo Paride abbia avuto rivelazione, che non essendo stato tuffato tutto nell'acqua dell'invulne­rabilità, agevole potea divenire ferirmi in quella parte del corpo rimasta asciutta. Ciò può darsi benissimo, né io ho mai preteso essere né Giove, né Marte, né alcuno degli dei immortali. Rimarrà però sempre vero, che se io sarò in qualche delle ignobili parti del corpo mio vulnerabile, esso con i suoi assedi lo sono di fatto nelle parti più nobili. La pugna dunque del reverendissimo Padre Pietro e di Fra Paolo Gonfianuvole sarà sempre difficile, pericolosa, non che incerta. Mentre di fatto di­rigerà i suoi colpi ai piedi, mi presenterà la testa ed il petto, che io potrò agevolmente trafiggere e troncare. In oltre esso per quanto è valente per giostrare negli spazii immaginarii di Cartesio, pertanto nel mondo rea­le si battono sempre male i pappamosche e gonfianuvo­le. Inoltre io non ho avuto mai bisogno andare accat­tando le mie armi né in Parigi tra le intelligenze servite da organi; né nelle fucine del non senso di Londra. Le armi sono tutte mie, me le fabbrico da me medesimo dopo avere studiato l'arte del fabbro in Grecia da Piato­ne, da Aristotile, da Luciano ed altri, come nell'antico Lazio da Cicerone, da Livio, da Tacito ec. ec. Che se esso farà spiritare i fanciulli colle parole oltramontane zeppe di consonanti; io ricreerò le orecchie de' dotti col­le mie belle sonore sentenze tratte da Demostene e da Tullio. Si provi pur dunque a ferirmi nei luoghi ignoti
finora a' carbonari, che io l'aspetto impavido nell'arena. Né crederò peccar gravemente di superbia o presunzio­ne, se gli prognostico che ne farò un pasticcio in cassa, e lo trasmuterò nel brodetto nero degli Spartani. Esso, mi dicono, asserire non esserci a memoria d'uomo chi del mio paese abbia potuto mai far paura ad uno del suo! Questo avrà potuto essere per quanto mille espe­rienze mi rendono sicuro che sia un buffone, come da buffone è la proposizione ridicola. Basta, se ciò può es­sere, può esser pure, che io formi eccezione alla regola. Ripeto io, non attacco nessuno, per quanto non rifiuto cimento di sorte. Né penna, né spada di alcuno (a di­spetto de' miei 67 anni) mi fece paura giammai. Vaie­ranno queste quattro parole in risposta a talune traso-niche spampanate di cui i cerretani sogliono far uso col volgo che ancora (nel secolo del progresso) li deride; uomo avvisato è mezzo salvato, dice un antico proverbio. Dunque in cervello Fra Paolo. Tenete le mani a casa, e la lingua stretta tra i denti, o al posto che gli si con­viene, fate l'eremita com'è del vostro istituto. In caso diverso, mio caro solitario mascherato da Archiloco, sap­piate che ancora io, non essendo in odio agli Dei, ho avute le mie rivelazioni sopra le parti deboli vostre come ancora di taluni vostri aderenti. Il mezzo di cui meco si è servito Apollo è quello di una santa pinzocchera che andava girando... Basta, siate prudente, giacché sie­te velenoso come il serpente, altrimenti io prenderò il Zoilo, come il Mecenate e Saffo ed Aspasia e tutta la paternità e maternità liberalesca e del giusto mezzo, e posti tutti in un sacco vi getterò come il Padre Pietro nell'inferno, qualche anni prima del tempo. Ci siamo intesi. Buona notte.
E ritornando a bomba col mio tersite Colletta chia­merò tutto il mondo in testimonianza. Chi mai mi ha veduto genuflesso (a) (a) Fino da che feci la campagna di Calabria coi Reali Principi D. Francesco e D. Leopoldo che io non potei contare più sulle mie ginocchia. Dall'epoca dunque che fui in Sicilia io non potei ingi­nocchiarmi giammai soffrendo una sensazione molestissima quando m'inginocchio. Quando devo confessarmi dunque conviene che ponga prima due cuscini per terra, come consta a tanti sacerdoti miei confessori. Da ciò può rilevarsi bene il gran mentitore che è l'infamissimo Colletta!!
agli altari, mormorar preci, e ba­ciare sante reliquie più di quello che ad ogni cristiano conviensi! Quali erano le opere inique che si trattavano da me sotto le immagini del Salvatore e de' Santi!'. Quali le sale ripiene di delatori e sicarii!! Quali i con­fessori e frati che avevan fama di santità! Poeta buffo­ne, mentitore e infame insieme. So bene che i falsi libe­rali sono mentitori per sistema, conosco troppo che senza senza menzogna le barracche di loro sarebbero portate vie da ogni venticello, in un istante, e le vendite ne anderebbero fallite. S'intende dunque mentire, essen­do questa la mercé della bottega, e senza menzogna il falso liberalismo non prolungherebbe la sua esistenza un solo minuto. Ne quid nimis, però cari i miei reve­rendissimi PP. delle Patrie est modus in rebus. Io ub­briaco! Ipocrita baciando santi, reliquie e il diavolo che li porti!!! Ma quanti hanno meco pranzato, quanti mi videro in chiesa, quanti mi conoscono non doveano pre­vedere che avrebbero detto quando mai!! E poi il mio amico D. Antonio Maineri torce il muso quando sente o legge che io li chiamo canaglia, ed impudentissima canaglia. Com'egli li nominerebbe quando non esiste sinonimo?
Ma tanta ipocrisia noi nascose, perciocché prima del « preparato scoppio, furti, omicidii, assassinii si commettevano;  le città di ribaldi, le campagne di grassatori erano ingombre, i carbonari, offesi, rioffendevano, erano minacciate le autorità, conculcate le leggi, la forza pubblica partecipante ai delitti o inefficace a « frenarli. Del quale abisso civile cercate le cagioni e « trovate in Canosa, furono imprigionati gli emissarii « suoi nelle provincie, sorpresi i fogli, palesate le tra me. Più che dalla sofferta peste il popolo n'ebbe sdegno, perciocché tutte le avversità egli perdona al destino, nessuna agli uomini. Restava intanto ministro: alcuni consiglieri di stato, e grandi della corte, gli ambasciatori di Austria e Russia pregavano il Re a di scacciarlo, e quegli a stento, per altrui non per proprio consiglio lo rivocò dal ministero lasciandolo ricco di stipendii.
A tutta questa filastrocca risponderò con tre brevi accenti. Non c'è niente. Quale scoppio, quali furti, omi-cidii ec. ec. Tutto insomma falso.
È verissimo, che per ingannare il Re (ed io il sapea; ma nulla mi curava lasciare una carica antipatica in cui non potea fare il bene) è verissimo dunque che il falso liberalismo facea mille trame e raggiri per far credere al Re ciò che non era. Tutte queste cabale però erano co­nosciute da tutti, e il Colletta fa pompa di tutta la sua mala fede nel fingere ignorarle. Si finsero fogli, patenti, armi. A tutte queste ciance però è stato risposto ne' Piffari di Montagna, come nei Piccoli Piffari. Che se questi non poterono essere conosciuti dal Colletta (di­sceso nell'inferno pochi mesi prima che vedessero la luce), i primi non potea ignorarli. Circa poi il preteso sdegno del popolo non ne esiste una sola parola, se per popolo il Colletta non intende i carbonari e falsi liberali.
Circa gli imprigionati emissarii nelle provincie lo stes­so storico ne dimostra colle proprie sue parole la falsità! Conciossiachè tosto che dice restava ministro, chi era quello che li faceva arrestare?! Io dunque faceva arrestare i miei emissarii medesimi! Ma ciò è assurdo. Ed ogni assurdo essendo qualche cosa di peggio dell'a­sinità! Dunque Colletta è un asino. Quod erat demonstrandum.
Non è vero tampoco che i Consiglieri di Stato pre­gassero il Re a cavarmi dal mio posto. Conciossiachè altri consiglieri di Stato non erano in attività che il Marchese di Circello e il Cav. de Medici: lo stesso Marchese De Obsequiis (o Riverenza come chiamavano in Napoli Tommasi) non era consigliere, ma Ministro Segretario di Stato; carica (in Napoli) inferiore. Che il Marchese di Circello avesse fatto parti contro me è im­possibile. Il De Medici e Riverenza l'avevano fatte be­nissimo, ma non alla scoperta. Essi giocarono meco sempre di mine, perché temevano che il Re s'insospet­tisse, e paventavano ancora la lingua e la penna mia.
Che il ministro di Austria e di Russia avessero fatto allora la guerra a me non lo credo, almeno non lo so. Non ci era nulla di politica per il secondo, e nulla d'in­teressi per il primo che potesse spingerli ad operare in tal modo. Una cosa ci sarebbe potuto essere, e sarebbe che fossero stati settarii. I settarii difatti mi fanno tutti la guerra, che se non vogliono farla, sono obbligati dal­le insinuazioni e comandi degli invisibili. Io però non ho veruna notizia de' ministri di Russia ed Austria di allora, anzi ho taluni indizii per crederli onesta gente.
Non mi rivocò il Re dal ministero, sibbene io chiesi ben tre volte la mia dimissione. Il Re non fece che ac­cettarla dopo molto tempo. Tutto il contrasto era che veniva consigliato ad accettarla, ed esso col di lui buon senso resisteva, perché prevedeva quello che in effetto avvenne. Siccome queste e tante altre cose io le seppi
coda, venne portato ad essere osservato da Don Gio­vanni latta, magistrato ch'era liberale sì, ma tra i po­chissimi non asini. Esperto giureconsulto criminale, os­servò subito le animosità commesse in quella processura e consigliò, che di quell'informe processo si fosse fatto un sagrifizio a Vulcano! Previdi quindi benissimo ciò che potea accadermi, e me ne andai a vivere in Toscana. Pedes arma leporum anima bella! Coi liberali, o co' giu­sti mezzisti non istare un momento!? Essi che tanto i dritti degli uomini millantano, sono di tutto capaci per opprimere!
« Nel qual tempo il re in Firenze consultava col Principe di Canosa le regole di governo. Canosa come ho riferito in altro libro, cacciato in esiglio l'anno 1816 si ricovrò nella Toscana; vidde in Livorno il Re al passaggio Laybach, ma senza indizio di regal favore, lo rivide al ritorno, e il Re lo scelse ministro del suo Regno, e del suo rigore. Nel congresso di Laybach,  avuto rispetto a giuramenti del Re, si erano fermate, per decoro del nome, sentenze oneste di governo: riprovare la rivoluzione dell'anno 20; dichiarar forzata la libertà del monarca, e però invalidi gli atti di quel tempo, punire i capi di Monteforte; ma pochi, e non colla morte, spingere a fuggire i colpevoli, ajutarli, alla fuga per evitare lo scandalo dei giudizii, rifare lo « stato del 1820, rigidi sull'avvenire, benigni al passato, coprire col silenzio e con la dolcezza un fallo co-« mune de' soggetti e de' reggitori.
 Le quali benignità spiacevano al Canosa, che però « concitando gli sdegni del Re, consigliava di pregare « i sovrani del congresso a rigidezze maggiori; e scritte « alcune lettere in forma di orazione, ed inviate a Laybach dal Re col nome del suo ministro, non valsero a « mutare i benevoli proponimenti. Di poi per i fatti di Rieti e per le rivoluzioni del Piemonte, sicuro ed inasprito l'animo di quei potentati, di nuovo pregati dai Re di Napoli gli dierono libero impero. Felice il Ca-« nosa della sfrenata tirannide, fermò le massime di governo che furono.
Punire ne' sudditi ogni colpa, vendicare ogni offesa del lunghissimo regno del suo signore; schierare alla memoria gli odii presenti, e quelli del quinquennio, del decennio francese, della costituzione di Sicilia, della repubblica napoletana, de' primi moti del 93, opprimere i mal sofferenti di assoluto governo « con la morte, le prigioni, gli esigli, schivare i giudizii, « come lenti, presto punire per proprio senno, rompere  il trattato di Casalanza, e tutti i precedenti o trattati « o perdoni, prendere il destro per nettare il Regno de'  nemici dei troni.
« Canosa, come ho riferito in altro libro, cacciato in esilio  l'anno 1816   si  ricoverò  nella  Toscana. » (a)
(a) Lib. X, cap. II, § III.

II nostro Tacito redivivo mente per la gola, e rimen­te. Il Principe di Canosa non venne mai cacciato in esi­lio nel 1816. Egli volle partire da Napoli volontaria­mente. Di sopra nel confutare il § XXII di questa stessa storia scrivea che volli appartarmi dal Regno temendo a tutto senno che il liberalissimo D. Luigi De Medici, combinatosi con i carbonari e murattisti, poteano tes­sergli calunnie, che diventare poteano fatali. Troppo co­noscendo il procedere de' falsi liberali (veri tiranni nel fondo, quanto civilissimi in parole d'inganno) sapea bene di che erano capaci nell'ordire processure. Ci era ben anche molto a temere per parte di loro pel patet exitus. Né s'ingannò (come s'inganna ben di raro ne' suoi presentimenti). Partì dunque, il ripeto, di propria
volontà, anzi il Re Ferdinando IV con quella perspica­cia che gli era naturale, non che approvare la partenza, gli fece passare un generoso soccorso pel viaggio. Come va dunque che lo storico dice esiliato? (a)
(a) Grande importanza mette sempre la sovrana liberalesca canaglia al preteso esilio mio! Io non sono stato giammai esiliato nel 1816.Volli andar via dal Regno per le ragioni di sopra, e le mille volte esposte. Nel 1822 tampoco si può dire fossi stato esi­liato, come in seguito mi capiterà il destro di dimostrare colla mia solita chiarezza ed evidenza. Mi venne consigliato partire, giacché la mia presenza avrebbe turbata la digestione di taluni stranieri lupi voracissimi. E in vero se io mi andai a licenziare dal Re; se il medesimo pianse nel vedermi partire; se mi fece somministrare somme generosissime, cosa c'entra l'esilio?! Pure tutta la canaglia settaria mi rompe sempre il chiavicembalo col-l'esilio! Anche quegli asini in miniatura de' giacobini modenesi nell'epoca della gloriosa di loro repubblica mi chiamarono esiliato! Grande importanza  deve porre a  tale parola  la  democrazia  de' somari !

Ma il bufone autore del Prato fiorito, non che men­tire al pubblico, mente ancora a se medesimo. Conciossiachè se al § XXIII del libro Vili dice: volle Canosa partire dal Regno, tale uomo essendo che non può vi­vere nella sua patria che da tiranno come va che venni mandato in esilio come pretendere l'autore? Siccome dunque tra il volere e l'essere forzato ci è la differenza de' contrarii; e chi non conosce la diversità che si trova tra gli opposti è un vero puro asino. Asino dunque fu il Colletta, quod erat demonstrandum.
« Vide in Livorno il Re al suo passaggio per Laybach, ma senza indizio di regal favore, lo rivide al ritorno, e il Re lo scelse ministro del suo Regno e del suo rigore. »
Nulla di tutto ciò! Ancora in una cosa tanto semplice il Colletta si mostra mentitore. Per quanto difatti venne detta la prima parte in que' tempi di perpetuo scorno per Napoli dalla Minerva, e forse altre gazzette partenopee, è pure altresì vero che io risposi per le rime e le pa­role a quella stoltissima letteraria liberalesca canaglia. La mia risposta si trova unita ai Piffari di montagna. Possi­bile che quella risposta non l'avesse letta il Colletta! Se non la lesse fece male e si mostrò un asino. Una discolpa stampata nel 1820, potea ignorarla nel 1825 fin dove arriva la storia di lui? Onde coloro che leggeranno la storia del Colletta non rimangan ingannati dalle men­zogne di lui, che me riguardano, dirò al proposito non essere affatto vero né l'uno che l'altro che scrivea quel bugiardo. Conciossiachè il Re Ferdinando quando mi vide in Livorno mi mostrò tanto favore, che non è pos­sibile esprimerlo. Esso, la Duchessa di Floridia e tutta la Corte nell'incontrarsi la prima volta gli occhi di loro con i miei diedero segni evidenti di vergogna nel mirar­mi in volto. Né potea essere diversamente, se pure stati non fossero veramente tutti stolidi. Miravano difatti l'uomo che tre volte in iscritto al Monarca prognosticata avea la ribellione, additandogliene le cause che doveano produrla, e ciò cinque anni prima che fosse scoppiata. Osservavano colui che l'aveva a tutti in ogni luogo pro­gnosticata; e finalmente in me vedevano l'autore de' Piffari di montagna che tre mesi prima dello scoppio al pubblico l'avea annunziato. Noi viviamo in un secolo di vere tenebre d'ignoranza e perfetto controsenso: nel rimanente in qualunque altra età vissuto fosse uomo che, per azzardo, riunite avesse tutte le mie circostanze, sarebbe uomo stimato, prezzato, e che nel pubblico ne imporrebbe. Ciò che però dice il Colletta, a dispet­to di tutti i controsensi non ebbe luogo in altro che il Re non mi usò esternamente quegli atti di bontà che sarebbono stati analoghi a meriti miei, e servigi resi ed al verifìcato vaticinio. Tenne un tale contegno nella sup­posizione d'irritare maggiormente (a) i suoi e miei ne­mici.
(a) Non può esservi più grave errore di quello generalmente adottato da molti moderni politici, quello cioè di credere che gli uomini veramente tristi, come sono i settarii e falsi liberali, in seguito di misure che loro dispiacciono possono diventare maggior­mente nemici del governo. Questo errore nasce dalla crassa igno­ranza, in cui gli uomini della nostra età sono delle scienze morali. Conciossiachè gli etici filosofi insegnano che quando l'uomo è arrivato ad un certo grado di passione, non può andare più oltre. Ciò che solo può accadere è che gli uomini perversi del movimento. O per timore o per accresciuta irritazione possono un mese una settimana prima far ciò che avevano prefisso e stabilito fare dopo l'elasso di altro tempo. Ma non saranno taluni politici atti a com­prendere che ciò, anziché male, è un vero e positivo bene? Tutto ciò che è immaturo deve avere un esito infelice. E in vero perché le rivoluzioni hanno fatto sempre fiasco? Per la sola ragione che i somari settarii si sono affrettati sempre.
Trattai non ostante benissimo l'ottimo Re in pri­vato; ebbi ancora in quel rincontro da lui generosi soc­corsi; ed in un giorno in cui arrivò una lettera, per rispondere alla quale erano necessarii lumi diplomatici, non trovandosi presso S. Maestà soggetti che potessero risponderci adeguatamente ordinò che io ci rispondessi. Ciò eseguii in un momento dettando io, e facendo scri­vere al primogenito mio figlio Fabrizio, non sapendo di chi fidarmi. O nulla dunque seppe di tutto ciò lo stori­co, attraverso della occhiuta polizia liberalesca, ovvero lo tacque onde mentire.
Così mentre il Re, reduce da Laybach, arrivò in Fi­renze, io non mi mossi dalla città di Pisa ove abitava. Anziché recarmi personalmente in Firenze ci mandai il nominato mio primogenito Fabrizio, onde in mio nome ossequiato avesse Sua Maestà, ed avesse addotto cause di salute per non esserci andato personalmente. Fu il Re Ferdinando quello che mi mandò a chiamare in Pisa, e per ben due volte, dappoiché non potei obbedire la prima trovandomi effettivamente indisposto.
Enumera in seguito il Colletta tutte le risoluzioni prese tra il congresso di Laybach e il Re Ferdinando. Quelle è possibile che state fossero vere, verisimili sono certamente; avvegnaché analoghe a quella reale beni­gnità, usata da' monarchi legittimi per lunga stagione, che ben tardi conobbero non essere il sistema indicato dall'arte  per  medicare  una  tale  politica  infermità.
Per quanto però potessero essere vere le risoluzioni del congresso che lo storico enuncia; pertanto io non ne so nulla, né il Re Ferdinando me ne fece confidenza di sorte; il dire quindi che tali benignità spiacevano al Canosa è una vera e pretta menzogna. Falsissimo per la stessa ragione sono i consigli di rigore, il concitare gli sdegni, lo scrivere lettere in forma di orazione, e tutte le buffonate che  sogna nel  paragrafo  III.
« Punire ne' sudditi ogni colpa, vendicare ogni offesa « del lunghissimo regno del suo signore; schierare alla « memoria gli odii presenti, e quelli del quinquennio, « del decennio francese, della costituzione di Sicilia, « della repubblica napoletana, de' primi moti del 93, « opprimere i mal sofferenti di assoluto governo colla « morte, le prigioni, gli esigli, schivare i giudizii come « lenti, presto punire per proprio senno; rompere il trat-« tato di Casalanza, e tutti i precedenti o trattati o per-« doni, prendere il destro per nettare il Regno da' ne-« mici de' troni. »
Non occorre che mi travagli per dimostrare che quanto espone in questo luogo quel gran Somaro sia una... di menzogne. Il fatto, anzi tutti i fatti aven­do dimostrato, che nulla venne praticato del rigore che accenna, dimostra abbastanza che nulla fuori di ciò che dice, e tutto al più avrebbe potuto essere un mio peccato di pensiere. Più non pò tea tampoco cadere nel­la mente che ad un politico matto. E in vero; ce ne fosse stata tutta l'intenzione, come porla in pratica? Era veramente impossibile! Come potersi incaricare e porre in disamina gli affari del 1793, trent'anni quasi dopo che erano accaduti? Conveniva chiamare in giudizio i morti. Ciò può venire in mente ad un falso liberale che tutti si dividono nelle tre classi o di furfanti, o di men­tecatti, o di asini. Così quel somaro francese che diri­geva la polizia di Milano in tempo della buona memoria della repubblica cisalpina, letto ch'ebbe il celebre sonet­to Italia, Italia a te cui feo la sorte ec. ec, avendo sa­puto che autore di esso era il famoso Filicaja, ne ordi­nò l'arresto. Altri asini repubblicani sgherri di lui, che tampoco avevano sentito nominar mai il Filicaja, in giro si posero e movimento per condurlo legato al Caifasso della Senna. Saputa la cosa terminò in cachinni, risate, disprezzo mirando che si volea carcerare un morto. Asi­nità cotali dunque sono proprie de' repubblicani di nome e tiranni di fatti. Come andare cercando coloro che avevano aberrato nel 1793!!
Ancora calunnioso lo storico viene dimostrato dal co­nosciuto sistema del Principe di Canosa. Che la sovrana liberalesca canaglia lo voglia accreditare come feroce va benissimo. Ciò conviene alle mire delle sette; che lo stesso proclamino tutti quei sciocconi (anche non rivo­luzionarii) i quali, senza causa di scienza, ripetono ciò che hanno sentito proclamare; pazienza, ciò è nella na­tura imperfettissima del volgo: che voglia sostenersi sul serio che io sia feroce, che abbia fatto correre il sangue a rivi; che abbia spente mille vite come dice il buffone Colletta è la maggiore di tutte le menzogne, smentita da tutti i fatti. Ma non che il mio temperamento mi fa essere nemico tisicamente del sangue (a riserba de' mo­menti di escandescenza) ma i miei studi mi hanno con­vinto e persuaso, che lo spargimento del sangue non è rimedio indicato per le infermità di opinioni. Il sangue fa i martiri; e gli esilii rendono i rivoluzionarii più peri­colosi, perché li trasmutano in apostoli del partito. « Trajanus cum videret Christianissimum per tormenta « aligeri noluit alterius in Christianos inquiri » disse Pli-nio nel suo panegirico a Trajano. Dunque io per caratte­re morale e fisico per istudii fatti sulla materia e per lun­ga esperienza, anziché ferocissimo, come dicono gli asini liberali sono stato invece sempre indulgentissimo.
La massima delle pene alla quale si possono e si devo­no assoggettare i delinquenti per opinioni criminose, de­v'essere il disprezzo ed il ridicolo, in cui si devono far cadere in tutti i modi. Ciò poi che conduce le trame rivo­luzionarie ad una perfetta paralisi; il rimedio vero che non avrebbe fatto parlare più di rivoluzioni è quello di togliere a tutti i dilettanti e professori e mercadanti di rivolte ed opinioni, ogni influenza civile. Il germe della ribellione sbucciò più rigoglioso dopo la restaurazione, perché si lasciò ai rivoluzionarii tutta l'antica influenza nello stato civile, superiore di molto a quelle che aver potessero i legittimisti e gli uomini leali e di onore. L'in­fluenza dunque da un lato; il nullo timore di pena dal­l'altro (nel caso andasse fallito il colpo, per la conosciuta stazionaria teoria dell'obblio ed amnistia) fece venire il prurito di nuove rivoluzioni; e loro si rese facile concer­tarle e portarle innanzi per quella grande influenza la­sciata a falsi liberali, non che i grandi mezzi che aveano per nudrirle e farle progredire, mentre gli uomini attac­cati all'altare ed alla legittimità non erano nella debita proporzione muniti di mezzi per fare loro la guerra di contromine.
Quello dunque, con Colletta, dice contro me in questo genere l'asinina sovrana liberalesca canaglia è tutto falso di pianta. Siccome non ho io timore che di Domine Dio; così non ascondo il mio sentimento. Invece di stragi, di forche, di mannaie, di relegazioni, di esigli, politica tutta da carnefice, io invece avrei tolto ai falsi liberali ogni carica sia la più minima, io avrei procurato impoverirli, facendo loro pagare i liberaleschi schiribizzi con fiumi d'oro che avrei dispensati agli uomni utili alla monarchia.
Che se ancora ne' tempi della maggiore tranquillità fu dottrina politica non mai contrastata, che nelle cariche situare que' soggetti si dovessero i più morali ed intelli­genti, come i più attaccati al social reggimento, qualsivoglia, che servivano, come potersi mai supporre che i falsi liberali, che scandalizzato avevano il popolo, ora inchi­nandosi all'albero della prostituta libertà, ora al militare usurpatore, indi al Re legittimo; poi alla costituzione, in­di al diavolo, giurando e spergiurando per sistema, fos­sero uomini da governare? Fossero uomini da imporne al pubblico? Fossero uomini da ispirare fiducia al monarca, ed alla nazione?
Girolamo Cardano, che se era un iniquo, più profon­do politico fu dello stesso Macchiaveili, raccomandava (nei tempi torbidi e di partito) impiegare piuttosto nel­le cariche gli asini compromessi, di quello che i dotti (giacché impiegare i nemici non si suppone tampoco per ipotesi altro che nel secolo del progresso) indifferenti. La ragione addotta da quell'antico acutissimo politico è chiara e semplice. Conciossiachè siccome l'uomo com­promesso ci sta per la pelle, e sa molto bene che arri­vando a prevalere la fazione ribelle, non che l'impiego, perderebbe la vita; così in ragion diretta che il pericolo per il governo si avanza, deve per necessità raddoppiare di zelo; e la vessazione dell'intelletto rende l'impiegato somaro attivissimo. Per lo contrario l'impiegato dotto indifferente verso l'una o l'altra parte che combattono, siccome non ha nessuna opinione pronunciata né si trova compromesso, non importandogli nulla se l'uno o l'altro resti trionfante nella ragione inversa che vede la demo­crazia p. e. trionfare, esso si raffredda nello zelo, che tanto sarebbe necessario spiegasse, e ciò appunto per­ché non vuole compromettersi, e brama che l'inimico trionfante lo conservi nella carica. Ora se a tale politico ragionamento, appoggiato sul senso comune (ora in ostra­cismo) non ci è che rispondere, cosa diremo di quegli impiegati che prima di servire la legittimità, servirono quella stessa ribelle fazione che si crede debba nuova­mente trionfare sopra la legittimità. Io comprendo bene che il non senso della moda non farà tampoco compren­dere la forza erculea di questo mio ragionamento; la posterità per altro, dando il suo giudizio, renderà a me giustizia, e guarderà con disprezzo coloro che mi nomi­nano testa calda, e credono esagerate le mie opinioni. Per quanto sia la giustizia il primo e più solido fon­damento di ogni civile reggimento; e debba il gover­nante rispettare come sacra la proprietà dei cittadini, pure la politica insegna diminuire quanto è più possi­bile le forze degli avversarii del governo coll'impoverirli il più che sia possibile. Senza onore e virtù cittadina di sorte il governo repubblicano francese (scimiottato in se­guito dalle altre ridicole repubbliche) conoscendo troppo bene, che gli ecclesiastici, come gran parte de' signori non poteano giammai dividere seco loro le opinioni, cosa fecero? Impoverirono gli uni e gli altri. Non consiglie-rei giammai un monarca ne alcun governo morale ad imitare la canaglia armata. Ogni proprietà essendo sacra, non si può né si deve giammai far servire la giustizia alla politica che in casi rarissimi.
Ma quando senza violenza e senza offendere il dritto sacro delle proprietà altrui, si può impoverire l'avver­sario del governo, ed arricchire i suoi fedeli, quanto sarebbe accettabile? Ora se questo stesso laudevolissimo politico oggetto si fosse potuto ottenere non che senza violenza e senza offendere la giustizia, non favorendola, cosa stata sarebbe più di questa accettabile? Ecco il caso preciso in cui si trovò la politica nel momento della restaurazione. Quale cosa più utile che ordinare che tut­to il venduto o regalato da un governo ribelle o usur-patore (che non può fare atti legali di sorte) ritornasse a' legittimi antichi padroni? Si eseguivano i precetti del­la giustizia commutativa; si ristoravano e rinforzavano gli amici e si toglieva una forza tanto preponderante dal­le mani de' nemici che erano precisamente i possessori de' beni altrui chiamati, stoltamente nazionali.
Quale scandalo nel mirare quel gran signore, che se­guì il suo monarca in tutte le sue sventure, che il figlio la ribelle rivoluzionaria masnada gli sagrificò e gli con­fiscò i beni, ritornato, dico, quel signore unitamente al suo Re, ricondotto da Dio sull'avito di lui soglio, ridotto mendico, vivendo con un tenue compenso, mentre mira le antiche proprietà della vetusta nobile di lui famiglia cadute tutte in mano di chi? Di un vile mozzorecchio del foro, il quale divenne grande nel suo paese dal punto che divenne regicida; ed indi con incoerenza stranissi­ma, e con ispergiuro comparso il servitore umilissimo, lo schiavo, il satellite, il carnefice di Napoleone!!! Sen­tite, mio caro compare. Io sostenendo tali dottrine mi sono acquistato il brevetto di uomo di opinioni esage­rate e di testa calda; la patente però che i posteri da­ranno a coloro che tali cose consigliarono non lo so. So solamente che a mio giudizio sono queste misure state quelle che  hanno fatto germogliare  la  maledetta rivoluzione, e noi hanno gettato ne' mali e pericoli in cui ci troviamo. Tutta la forza di cariche, ricchezze, onori, influenza nelle mani degli antichi traditori e ri­belli conosciuti, mentre noi leali onorati, vilipesi, ra­minghi e cadenti per la fame, non avendo potuto ricu­perare tampoco il perduto. Ecco il perché ne' miei pro­getti quello eravi di togliere quanto più fosse stato pos­sibile a dolosi compratori quegli acquisti che loro non appartenevano. Molte memorie però circa il modo da ciò eseguire, senza compromettere, feci io al Re Ferdinando tanto che al principe ereditario Francesco Duca delle Calabrie. Che sangue, che stragi, che schierare alla memoria gli odii!! Io avrei tolte tutte le cariche agli indegni (che attraverso di tutti i benefizii saranno sem­pre nemici, perché iniqui e spergiuri) e darle a compro­messi e buoni cittadini, e loro avrei tolto il più possibile de' beni malamente acquistati. Ecco il mio sistema, ciò che nissuno ha detto, perdendosi invece in delirii e mendacii e calunnie e buffonerie.
« In quel mezzo arrivò in città ministro di polizia il Principe di Canosa, che volle al pubblico annunziarsi,  prima che per editti o per fama con spettacolo atroce, ormai scordato dal popolo, ignoto a più giovani, la frusta. A mezzo il giorno nella popolosa via di Toledo fu visto in militare ordinanza numeroso stuolo di soldati tedeschi... ed alcuni sgherri di polizia, i quali accerchiavano un uomo, dalla cintura in basso coperto di ruvida tela, piedi scalzi... portando in mano ed appesi al collo fregi settarii, ed in capo un berretto di tre colori, collo scritto carbonaro. Quel misero accavalcato sopra di un asino, aveva dietro il carnefice, che ad ogni picchio di tromba con sferza di funi e chiodi gli flagellava le spalle... Chi domandò i particolari di quei supplicii, udì che il flagellato era un settario gentiluomo di provincia, e che dopo la frusta « penerebbe in galera quindici anni, non per giudizio di  Magistrato, ma per sentenza del ministro della polizia, Principe di Canosa or ora giunto in città. »
Che bel pezzo oratorio veramente commovente! Ma cosa avrebbe bramato il signor generale canaglia? Che dopo tante proibizioni ed ordini contro tutte le sette proscritte; dopo che colla infame di loro ribellione i carbonari co' murattisti contro un monarca che usato loro aveva tante clemenze; dopo avere co' delirii ed asi­nità di loro condotto nel Regno un esercito straniero, che rovinò e distrusse le nostre finanze non fosse stato frustrato il sig. gentiluomo di provincia refrattario agli or­dini, ed asino (come tutti) da farsi ritrovare in flagrante cogli emblemi dell'empia setta proscritta. Dovea carezzar­si, dovea darglisi forse ancora un impiego e una pensione per il coraggio dimostrato. Ecco cosa avrebbe preteso!
Bugiardo però anche nel riferire le cose vere, asseri­sce che il flagello che usava il carnefice era composto di funi e chiodi. Nulla di ciò. Io aveva anzi ordinato che non si dovesse percuotere in modo da esser necessario soccorso chirurgico nel  ritornare in prigione.
Bugiardo è ancora nell'asserire che dopo la frusta do­vesse subire la pena di quindici anni di galera! Nulla di ciò. Eglino dopo pochi giorni in casa ritornavano. Non aveva difatto altro oggetto fuori di quello di umi­liare i settarii.
« Perciocché visto lo stato della città, la divisione de' cittadini, la viltà, la paura, la pazienza del popolo, Canosa scrisse al Re che poteva punire senza pericolo, ed avuta risposta, punisse: fece chiudere in carcere il general Colletta, il generai Pedrinelli ec. » (a) a) Loc. cit. lib. X, § V.
Non esiste né una sola parola di verità. E in vero, di chi avrei dovuto aver io paura nel punire? De' carbo­nari, de' quali la codardia aveva io medesimo le mille volte sperimentato. Ridea che anzi io in Firenze quando taluni mi diceano essere il 1820 una cosa ben diversa dal 1816 quando altra volta era io stato ministro della polizia. Ma diverso perche? io rispondea. Cerche ora so­no tutti carbonari, mi veniva replicato. « Vale lo stesso, rispondea. Se i settarii del 1820 sono della qualità stessa che quelli del 1816 (da me le mille volte sperimentati): siccome la quantità non altera, né cambia la qualità, io mi rido del milione de' carbonari. Ci sarà  solo un altro malanno per loro quello cioè che essendo molti s'imbroglieranno maggiormente e caderanno nel fuggire.  Ciò che io dicea in Firenze si verificava contemporaneamente nelle frontiere, all'avvicinarsi del­l'armata austriaca. Pochi volteggiatori ponevano in fuga battaglioni e reggimenti di carbonari. Fenomeno tutto nuovo nella storia della ignavia e poltroneria. Prima di-ceasi e reputavasi massimo vigliacco colui che fuggiva al primo comparire dell'inimico. I settarii de giorni nostri però non alla vista, ma al solo sentire da vaga voce, che l'inimico accostavasi (senza tampoco informarsi del numero) le colonne intere fuggivano al solo sentire che pochi esploratori si accostavano. Il comando militare de' Gran Maestri delle sette di giorno è sempre quello del chi si può salvare sì salvi. Col pugnaletto poi di notte dietro la schiena a tradimento sono essi valentissimi con­tro il pavido padre di famiglia, contro la donna! Se tutto ciò è puramente evangelico, quali prove doveva io fare, dopo averne fatte infinite ancora da giovane privato in tempo della bernesca repubblica partenopea? 10 Falsissimo è dunque che io avessi mai scritto al Re in questo tuono, che anzi più volte gli dissi in Firenze non avere il menomo sospetto in questo genere, trovandomi io ministro di polizia.
Non è per altro ciò di cui voglio redarguire in questo luogo il nostro Tacito di Porta Capuana come un dotto signore nominava il nostro storico Pulcinella. Ciò che lo dimostra veramente asinaccio è, che tra le persone che io feci imprigionare, pochi giorni dopo aver preso pos­sesso della mia carica, nomina se medesimo!! Sino da' suoi tempi dicea Tucidide (o Polibio, giacché sono in dubbio, né ho libri né i miei avversarii in pronto tam­poco) dicea dunque Tucidide « Hominum historia, partim invidia aut odio; partim gratia aut adulatione opprimit ac pervertit veritatem. Or dunque se il si­gnor Colletta non fosse in verità stato il vero Tacito di Porta Capuana non dovendo ignorare queste cognizio­ni elementari, volendo calunniarmi, cosa dovea fare? Nascondere al più possibile (almeno) presso coloro che leggono solo per ammazzare il tempo, certe cose, né scri­vere che io lo aveva fatto imprigionare. Il leggitore di­fatti (stupido che esso sia) leggendo carcerato l'uomo che ha scritta la storia, verrà a fare subito quelle rifles­sioni che scorrono da loro stesse. E principiando ad in­formarsi (cosa che non sarebbe accaduta se per poco una certa prudenza usata avesse) chi sia il Principe di Canosa, e chi era l'avversario di lui Pietro Colletta, di quali cose verrà al fatto? Eccole.
Sentirà da tutti i galantuomini, che il Principe di Ca­nosa ebbe le sue opinioni, che furono avverse a quelle della moda, ma che ebbe fino dal principio un sistema stabile e fermo, invariabile, né amalgamabile colla men­zogna. Che il sistema di lui non venne creato dall'arti­ficio di volersi fare un nome, o per mercanteggiare opi­nioni; sibbene fu il risultamento di un'intima convinzio­ne formatosi in lui in conseguenza di lunghi studii e di profonde meditazioni poste a cimento colla pratica ed esperienza di molti lustri. Apprenderà colui che si darà la pena di prendere queste informazioni, che il Principe di Canosa non variò sentimento giammai, a' tempi adat­tandosi, o ponendo la prua in guisa che spirava il vento. Che non giurò egli che una sola volta (a),
(a) Era in Pisa quando nel 1820 avvenne in Napoli quella ribel­lione che io aveva preveduta, ed annunziata al Re mio signore ed a tutti, cinque anni prima, indi tre mesi prima al pubblico co' Piffari di montagna. Mi venne l'ordine di giurare quella costitu­zione che ignorava. L'annunzio me lo portò il mio parroco, allora, degnissimo signor D. Reginaldo Panichi « Poffare il mondo, dissi, « a me proporre uno spergiuro!? L'ordine però, siccome veniva « dalla parte (passiva) del Re Ferdinando, così io risposi = Se il « Re ha giurato liberamente e vuole che io giuri fede a quella « Babilonia, lo farò. Siccome però il Re non ha dovuto giurare « con libertà, così giuro sub conditione. » Si chiese altro giura­mento. La mia risposta fu identica. Mi venne tolta la pensione...
né la fortuna o i disastri da' quali venne colpito colui cui aveva giu­rato, lo fecero cangiare giammai tampoco in apparen­za, (a)
(a) Sopra S. Elmo, condannato a morte, mi venne proposto fare un proclama al popolo, in prezzo di mia libertà. Il proclama dovea consistere nel sedurre il popolo onde dai suoi doveri si allontanasse. Io mi negai apertamente. Mi salvò l'arrivo di Nelson come ho narrato in altre mie opere, in cui mi difendo dalle calunnie datemi dalla sovrana liberalesca canaglia e giusto mezzo.
 Sarà informato, che il Principe di Canosa abben-chè le mille volte irritato (principiando dal 1799) con notorie ingiustizie ed ingratitudini, ebbe pure dal mise­ricordioso Dio tanta forza da rimanere saldo ne' suoi do­veri, né prestare ascolto giammai agli eloquenti dema-goghi ed a' lusinghieri egoisti che cercavano co' sofismi e seduzioni farlo traviare da' suoi doveri. Ancora gli stessi liberali di buona fede assicureranno che il Prin­cipe di Canosa fu sempre un uomo illibato in materia di pubblico peculio, che mentre i suoi colleghi hanno lasciato tesori in eredità agli eredi, il Canosa invece ha meritato da un gran generale rivoluzionario l'epiteto di Bellisario delle due Sicilie. Non che dunque guadagna­re un soldo dalla costanza dimostrata in difesa della causa dell'altare e legittimità, ci ha invece perduto tutto il suo in guisa da non poter tampoco vivere decente­mente, non che nel grado come Iddio lo fece nascere, e come mantenevasi la famiglia di lui prima della sem­pre maledetta infamissima rivoluzione. Oltre queste, ancora di molte altre cose verrà al fatto, nessuna obbro­briosa al Principe di Canosa in tutto ciò che ha rapporto alla politica.
Ma passando il leggitore medesimo a prendere le sue informazioni sopra il generai giacobino Pietro Colletta, cosa apprenderà? Che il ritratto di questi è precisamen­te in opposizione a quello del Canosa. Conciossiachè se quest'ultimo giurò una sola volta al sovrano di lui le­gittimo, il Colletta giurò e spergiurò quante volte si volle. Democratico nel 1799 e ribelle contro la legitti­ma monarchia. Giuseppista e Murattista nel decennio. Giurò di nuovo al Re nella restaurazione; congiurò e macchinò contro il Re nel quinquennio. Giurò spargere tutto il sangue di lui preziosissimo in difesa della costi­tuzione. Fuggì come un lepre con tutti gli altri eroi co­stituzionali (attraverso delle tante fanfaronate a bocca ed in iscritto alle stampe), al primo apparire di una sem­plice pattuglia austriaca. Verrà al fatto, che il signor Colletta fece l'adulatore a Cristofaro Saliceti, e che sorse fango orgoglioso dal letamaio del governo usurpatore del decennio per essere stato secondato da quell'eroe di Saliceti... osserverà di più il leggitore, che il Canosa ri­mase leale a dispetto delle ingiustizie ed ingratitudini sofferte; mentre per l'opposto il Colletta che tanto do-vea alla clemenza del Re e monarchi legittimi; che Colletta mentre dovea essere le mille volte impiccato dopo la restaurazione, essendo invece rimasto generale (fatto dall'usurpatore), tradì il Re nel quinquennio, dopo tanti ricevuti benefìzi. n Dunque dirà chi legge: questo ha ca­lunniato Canosa, perche era un furfante che operava, non che pensava {giacche i falsi liberali non pensano) in modo opposto precisamente a Canosa.
Ma chi si pone, a ragion veduta, scrivendo, nel caso di far fare di se medesimo giudizio tanto turpe, convie­ne che sia un asino.
Asino dunque fu sempre Colletta, q. e d.
« Altro tristissimo (un certo Avitaja) nel mezzo della notte conferendo, come solea col ministro Canosa, si levò all'improvviso, e vacillando su i piedi chiese aiuto: accorse il solo che poteva il ministro; ma quel moribondo gli appoggiò la fronte sul petto e spi­rò. » (a)  (a) Loc. cit. Kb. X, § V.
Tutto falso. Non ci è altro di vero, fuori che morì uno di notte in casa mia, mentre disimpegnava la mia carica. E in vero colui che morì non ebbe mai nome Avitaja, sibbene Gabriele Aulisio. Non era sicuramente tristissimo, giacché era uno de' migliori sudditi del Re, emigrato in Sicilia; che le mille volte era calato in Na­poli di soppiatto per commissioni che gli dava ora il Re Ferdinando ora la Regina Carolina; ora io ancora che lo spediva da Ponza. Tristissimo dunque essendo un epi­teto che appartiene a' ribelli, come agli spergiuri, il sig. generale lo potea tenere per se senza regalarlo ad un suddito fedele ed onestissimo. Egli parlava meco una notte, quando venne assalito da un poco di affanno, di cui soffriva. Io lo feci uscire in un anticamera ove alla meglio venne assistito. Si credea cosa di nulla. Fatto sta, che dopo qualche tempo l'affanno divenne ferocissimo, e violento in modo da non poterglisi prestare soccorso qualunque. Morì il disgraziato uomo nella mia galleria mentre sedeva. Circa trenta per lo meno furono gli spet­tatori ed assistenti. Or come saltò in testa e per quale causa trasformò questo fatto, non saprei veramente in­dovinarlo. Forse per il solo piacere di dare ad uno de' migliori realisti quel titolo di tristissimo che conviene a lui come a tutti gli assedi e compagni di lui.
« Si cambiò il ministero di polizia in direzione, il « Principe di Canosa che era ministro, fu nominato con-« sigliere di stato:   restò più potente. » (a) Loc. cit. lib. X, § XII.
Ancora quella seconda volta rinunciai al mio mini­stero di polizia. L'influenza diplomatica e liberale, fece­ro che il Re stimasse recedere da taluni principii, e massime fissati in Firenze. Ciò portò che io non credendo poterlo ben servire nella carica di ministro di polizia umilmente lo pregai esonerarmi da quella carica. Clementissimo verso me Sua Maestà accettò la rinuncia, tanto più che il continuato fiotto della diplomazia mas­sonica lo aveva ancor di troppo importunato. Nel sosti­tuire a me la direzione mi elevò alla più eminente carica del regno, cioè a consigliere di stato.
 Ma la necessità vinse le ripugnanze. Il cavalier Medici esule in Firenze ricevè lettere di Rothscildt promettitrici della nuova fortuna, ed indi a poco da Napoli il decreto che lo fa ministro, e cento congratulazioni sincere, o adulatrici; sente allora la sua potenza  e patteggia. Vuole mutato l'attuai ministero, vuole la facoltà di trattar prestiti con Rothscild (prudenza e  gratitudine), vuole il discacciamento del Principe di Canosa dal regno. Erano nemici quei due potenti, sicché la fortuna avvicendava i ministeri e gli esili.
 « II Re per il solo Canosa resisteva, ma in mille modi accerchiato e vinto, tutto concesse; revocati gli antichi ministri, altri ne scelse devoti al Medici o non « avversi: Canosa fu scacciato con stipendii più ricchi e  chiare pruove di regale affetto » (a). (a) Loc. cit. lib. X, § XIII.
Io non ho avuto né il tempo né la voglia sicuramente di leggere la storia di Pietro Colletta. Pur troppo di que­sta storia può dirsi che pars magna fui. Quale tempo ozioso, anzi perduto stato quello sarebbe nel leggerla scritta da un giacobino, creatura di Saliceti, che giurato e spergiurato aveva più volte nel corso di pochi anni! Chi non rispetta la fede del giuramento dato innanzi a Dio, ed invocando il nome santissimo del Dio delle vendette, può presumersi rispetterà mai la fede della storia, quando questa sarà in opposizione delle proprie passioni? Chi lo suppone soltanto per un istante è un imbecille.
Dunque io prevedendo benissimo che questa storia non dovesse in sostanza essere un vero romanzo (come tutte lo sono le storie degli uomini di partito) non l'avrei letta giammai. Da voi peraltro avvertito che il reveren­dissimo Padre si era divertito scrivere e molto sopra la mia persona, preso l'indice della storia alla mano, prin­cipiai a trovare e leggere quei pezzi ne' quali trattava di me senza incaricarmi di altro. Io difatti, lo replicherò altre mille volte, non appartengo alla classe di coloro che o disprezzano o fingono disprezzare quanto si scrive contro essi12. Io per lo contrario rispondo a tutti, ec­cetto qualche ridicola imputazione, come di quelli che mi attaccarono di antropofogia ec. ec, e rispondo sem­pre come loro conviensi senza fare caso di talune osservazioni, benché sotto un dato aspetto saggissime (a).
(a) Di nuovo chiedo mille perdoni ai miei amici. Eglino dicono benissimo da un lato, io opero assai meglio col mio sistema. Essi, per quanto i falsi liberali attacchino me con contumelia, non bramerebbero che io seguissi il sistema di loro per la forte ragione che il birbone non autorizza, col di lui male operare gli uomini onesti fare altrettanto pagando della stessa, o colla stessa moneta. Io però non parto da un tal principio. Io devo, per quanto so e posso dipingere i falsi liberali al popolo, alla classe importantissima de' contadini la rivoluzionaria canaglia tal quale com'essa è, affin­chè la fugga, l'aborrisca, e non si faccia da essa sedurre. Or sic­come l'uomo specialmente volgare riceve le sue impressioni ed idee dai sensi, così le parole, frasi cortesi fanno che prenda false impressioni. E questo stato uno degli errori più grandi de' mo­derni politici. Essi hanno in gran parte tolta l'infamia dalle pene e dal trattamento fatto ai falsi liberali. Ed ecco che hanno fatto perdere l'orrore ed il sentimento d'ignominia al popolo ed agli uomini della campagna. No, i vocaboli devono essere in coerenza delle idee che vogliamo suscitare. Quelle in conseguenza trattare da infame colui che ha rubato un mercante Savoiardo, e poi trat­tare con decoro Mazzini, che volea porre a sacco, a fuoco tutta la Savoia!! È vera follia!
Al galantuomo, al liberale onesto e di buona fede rispondo dunque come conviensi ad onesta gente, colta, istruita; alla canaglia poi, a coloro che ogni giustizia divina, e gli stessi nostri codici penali condannati le mille volte avreb-bono alla forca, deve rispondersi nel modo corrispon­dente agli avanzi di forca e di galera.
Nel leggere dunque questo pezzo storico del nostro cacasenno ho detto fra me: quale diamine d'istoria de­v'esser mai questa? Non dovea dunque conoscere tam­poco il nostro Bojardo il raggiro fatto per fare che de Medici ritornasse di nuovo in carica nel 1822!! Nomi­nando per tutta causa di tale incredibile metamorfosi Rothschild, è un segno evidente che nulla conoscea lo storico del raggiro. Il banchiere israelita non fu che un fantoccino che si fece giuocare, o, tutto al più, una delle cause secondarie o dei mezzi per giungere al fine. Così se uno dicesse che l'abuso di titoli, la confusione delle classi o ceti della società è stata la causa della rivolu­zione europea, insegnerebbe alla posterità un errore. Con-ciossiachè l'abuso de' titoli e la confusione delle classi non è stata causa, sebbene mezzo di cui si sono serviti i reverendissimi invisibili per giugnere a' disegni di loro criminosissimi.
Cosa dunque ha che farci (che per questa sola detta parte) il giudeo? Forse e senza forse tampoco il riporre il de Medici nel suo antico posto ( a dispenso del buon senso etico e politico) fu l'oggetto principale. E quale dunque fu, voi mi direte? Fu il cacciar fuori me dal fianco di Ferdinando IV, fu il voler vedere me fuori di una carica, la quale era molto interessante in Italia. Un uomo che ben conosceva l'infermità rivoluzionaria, né ignorava i rimedii onde curarla, diventava perniciosissi­mo per il progresso che tanto tenevano a cuore. Il go­verno napoletano potea influire moltissimo sui rimanente della penisola. Medici dunque fu anch'esso e può consi­derarsi come un mezzo per far saltar me dalla sedia, che, con tanto danno dello spirito rivoluzionario, occupava.
Quale dunque, direte, fu la vera causa, il motore vero di quella metamorfisi? Vi rispondo con una sola parola. Fu la frammassoneria13. Quella stessa che ha fatto, fa e ordinerà sempre tutte le rivoluzioni senza che veruno si avveda, che essa lavori, senza fare che alcuno si accorga esser lei quella che disponga tutti i tavagli. Quella che ha resistito alla forza colossale ed a tutta la malizia sopraffina di Napoleone, il quale cadde nel­l'errore di crederla averla debosciata e posta nel più alto ridicolo. Essa dunque ordì tutta la trama servendosi di Rothschild, e dello stesso de Medici per sue marionette.
Di me potrebbe dirsi come l'abate Proyart disse di Luigi XVI. Detronizzato prima di ascendere al trono. Né a me (che li conosco assai) isfuggirono le trame fino da che venni da Pisa chiamato dal fu Ferdinando in Fi­renze. Le conobbi benissimo e tutto dissi a D. Alvaro Ruffo, raccomandando al lupo la conservazione delle pe­core. Siccome però a me non importava punto rimanere Ministro di Polizia (carica come dissi sempre a me anti­patica) così non reagii punto, ed ogni reazione sarebbe stata ancora inutile. Molti difatti devono come e quanto me conoscere l'indole, la forza, l'influenza delle società segrete, e questi godere la piena fiducia de' Monarchi, a' quali spettava paralizzarla.
Tremò la Massoneria al primo sentirmi eletto Mini­stro della Polizia in Napoli. Fece tutti i suoi sforzi per impedire una tale scelta. Essa però si trovò impotente frastornarla (a).
(a) Spaventava maggiormente i massoni il mio dimostrato ca­rattere. Essi non ignoravano le seduzioni che avea avute da Sali­ceti, da Giuseppe Bonaparte e da Gioacchino. Più che ogni altro essi vennero atterriti dal ritornare che feci in Sant'Elmo, quando mandato ambasciatore dei francesi all'ammiraglio Nelson, dopo aver perorato contro l'oggetto della mia missione, ritornai tra quei nemici che mi avevano anticipatamente condannato alla morte. Questo tratto di buona fede in un'età tanto disonorata e corrotta, colpito aveva ancora i miei nemici, per cui i veri liberali moltis­simo mi rispettavano. Cosa poter sperare da uomo di tale pasta? dicea in Firenze un reverendissimo tuttora (ai chiechi) invisibile!!
I Pifferi della Montagna, ch'erano com­parsi tre mesi prima della ribellione del 1820 aveano reso la mia riputazione troppo colossale, mentre veniva ri­guardato come un Profeta, ed uno de' pochissimi (ed era troppo vero, se mi avessero fatto agire liberamente), abili a paralizzare le mosse criminose della massoneria. Ogni discorso dunque che veniva introdotto contro me veniva respinto come un parlare di persona sospetta. Per poche settimane divenni l'uomo di moda, e da tutti (co­loro che non partecipavano ai segreti massonici) riguar­dato con il maggior rispetto: Ecco dunque che non po­terono punto frastonare il mio novello inalzamento. Trattare debitamente un tale argomento non è di que­sto luogo né del presente momento. Serviranno questi pochi cenni per avvertire gli uomini che hanno perduto ogni sinderesi; e spensierati né del passato si rammen­tano, e vivono come non andassero incontro ad uno spa­ventoso futuro, che sopra questa terra permette Iddio che esiste un Uomo, il quale può contro essi anticipare quell'universal giudizio spaventevole che farà imbrividire tutti gli iniqui, gli oppressori ed ingiusti.
Terminerò quest'articolo con dire che ancora in que­sto luogo mentì circa me il Colletta quando disse, che Canosa venne scacciato con istipendii più ricchi e chiare prove di regale affetto. Conciosiachè né di un solo obolo venne aumentata la mia pensione e soldo, che ascendeva alla somma di ottomila ducati. Questi anziché soldo e pensione, riguardar si doveano come un com­penso vitalizio di somme ereditarie da me perdute in se­guito di violente misure ed ingiuste (a)
(a) Se le misure rivoluzionarie prese da quei Re da scena, che dal rosso berretto saltarono al diadema, con una indecenza mag­giore e pubblico scandalo di quello di coloro, che dal remo sono passati alla bigoncia, si doveano riguardare come nulli e di nessun valore per dritto pubblico e delle genti; tutto quello che colpì me era ancora più ingiurioso dovendo io venire riguardato come un commilitone, che seguito avendo il sovrano legittimo (dietro chiamata di lui) nella Sicilia, e dietro avere, per tre anni continui, combattuto contro esso; trovandomi al comando delle isole di Ponza e Ventotetie, dovea essere nella ricupera del Regno inden­nizzato di tutte le perdite che aveva ingiustamente, e per causa sì nobile e sofferta. Di vantaggio ancoraché l'usurpatore avesse avuto dritto di fare leggi, quelle che riguardava l'abolizione de' maggioraschi e fedecommessi (che ha rovinato me e la mia famiglia) non potea verificarsi contro me per dritto naturali. Imperciocché siccome per canone di giustizia universale. Leges debent prospicere, et non respicere; avendo il governo dell'usurpatore aboliti i fede­commessi, non poteva una tale legge riguardare me che nato da 37 anni prima della legge avea un dritto perfetto ad rem. Non che dunque per precetto di dritto pubblico e delle genti e civili, venni io spogliato del majorasco di mia famiglia, come dell'eredità del Principe di Ruoti Capece Minutolo (che è caduta in mani estranee) ma venni spogliato con la prescrizione della legge universale che emerge dal dritto naturale. Contro il quale spoglio reclamerò io sempre innanzi alla Giustizia Divina ed umana troppo manifesta­mente ingiusta (e quindi nulla) essendo la così detta legge del rivoluzionario governo. Le ingiustizie non possono prescrivere giammai, né sono (come dicea il Padre del dritto naturale Ugone Grozio) tampoco obbligatorie. « Leges humanae vini obligandi « tum demum habent si latae sint ad humanum modum non si « onus jungant quod a ratione, et a natura piane abhorreat. »
 prese da rivoluzionari usurpatori, non che della perdita della Città di Canosa feudo nobile ed ereditario di mia famiglia, ave­vo per molti anni (per rinuncia fattami dal mio Bene­detto Padre) esercitato avea giurisdizione. Chi non co­nosce che quando gli uomini godevano in società que' dritti che tutti ha loro tolti la maledetta rivoluzione, che volea felicitarci, gli atti fatti dagli usurpatori erano de jure nulli? Or bene, giustissimo com'era il Re Ferdinando, nel doversi adattare alle règole stabilite nel congres­so non potendo me risarcire, ed altri emigrati in Sicilia ed altrove (per lo stato disordinato in cui trovò le fi­nanze, e per le somme enormi alle quali soggiacque nel riavere il suo Regno) come altrove esposi, momentanea­mente mi assegnò otto mila annui ducati, fermamente risoluto (come meco si espresse, ed al Duca di Serra Capriola) in tempo più propizio ricompensarci. Mercé l'ingratitudine verso il Re de' Murattisti, ribelli nel 1820, dopo tanti ricevuti benefizii, i tempi sempre più invece peggioravano, anche per la pessima amministrazione di quel cav. de Medici, che il liberalismo proclamava come il Gully delle due Sicilie. Tornando a bomba, dalla di­gressione uscita, da un cuore esulcerato, risponderò al sempre bugiardo Colletta che io non partii da Napoli con più ricchi stipendii come egli narra. Partii sì con chiare prove di regale affetto, perché partii contro la volontà del Re, il quale (come ho le mille volte ripe­tuto ), pieno di buon senso riguardava come il più gran­de assurdo che per dar luogo a colui, che o direttamente, o indirettamente era stato l'autore della ribellione del 1820 dovea mandarsi in bando colui che come l'avea cinque anni prima preveduta, sarebbe stato l'uomo da prevenirla, o comprimerla. Egli pianse meco, e col signor marchese di Circello della violenza che soffriva, abben-chè Monarca indipendente. E siccome era fresca una se­conda edizione da me fatta de' Piffari di Montagna con copiose annotazioni, così troppo ben sospettando che io, uscito dal Regno, mi fossi fatto ragione dell'ingiuria ri­cevuta con qualche altri energici scritti, così ebbe la cle­menza pregarmi fino, affinchè gli promettessi, non cac­ciare al pubblico alcuno scritto intorno alla violenza che da ambedue si riceveva. Io obbediente il promisi, ed egli volle la mia destra (che tenni per due giorni addolo­rata) in segno di perfetta obbedienza.
Chi mi è stato vicino (e sono moltissimi) nell'eserci­zio delle diverse cariche può rendere testimonianza della mia delicatezza in materia d'interesse. Costantemente so­no io dagli impieghi uscito per sistema più povero di quello che ci era entrato. Ciò era notorio, né il Re Ferdinando l'ignorava. Dunque con quella confidenza, di cui la reale clemenza di lui mi onorava, gli dissi negli ul­timi momenti del congedarmi « Signore, io non devo sentire pena nel partire dal mio paese, quando questo mio sagrificio deve portare a V. M. tranquillità e pace. Sappia però la M. V. che siccome io non ho mai rubato, e nulla quasi delle mie antiche rendite mi hanno « lasciato le misure della rivoluzione, così non mi trovo in casa che soli cento ducati per intraprendere il viag-« gio col peso di una famiglia. » Ferdinando IV non era splendido come l'augusta Carolina; era però generoso quando faceva il Re, e molto più quando rastro di giu­stizia reclamava in favore di chi chiedea. Alla mia do­manda dunque rispose: Hai ragione. Avrai come andare anche in Russia se vuoi. Ricordati però che mi hai pro­messo non iscrivere. Presi congedo e mi ritirai.
Il Re chiamò subito a se il marchese D. Girolamo Rufìo segretario di Stato di Casa Reale. Gli ordinò data mi avesse larga somma, che tutta mi venne sommini­strata in doppie da trenta e quindici ducati. Ecco i più ricchi stipendii che ebbi. Benefico il Re e giusto, quan­to, il potea essere in quel rincontro mi diede (da Re) i mezzi per andare ad espiare una pena, ch'egli mede­simo conveniva non avere sicuramente meritata giammai.
Eccomi, caro compare, al termine del mio lavoro. Si spes non fefellit me, sembrami averne date al reveren­dissimo Colletta più botte che agli altri RR. PP. di lui buoni fratelli, che osarono, prima di lui, attaccarmi. An­cora dunque a quel reverendissimo (per quanto stasse al coperto e fosse inebriato e compenetrato dai lumi di tutti gli orienti del globo) mancogli la scienza di cono­scere la mia parte debole (come dicono taluni non igno­rare) per colà ferirmi con miglior successo, come sven­turatamente con Paride accadde ad Achille. Dunque an­cora questo Gerofante anderà posto da me nel sacco de' sbardellati, e di coloro tutti che posi nella sentina della nave tanto nei grandi, che nei Piccoli Pi fari come ne' molti miei opuscoli ed articoli scritti nella Voce della Verità. Quanto di fatti scrisse il Colletta nella sua Isto­ria Poetica venne da me confutato in guisa da chiudere ogni adito.
È vero esserci nel IV tomo della citata di lui istoria, ancora un'altra lunga filastrocca sopra i miei costumi che in questa mia replica non avete veduto riportata, né mi sono dato la menoma pena confutarla. Imperciocché sic­come quanto dice non ha alcun rapporto né diretto né indiretto colla politica, l'occuparmene sarebbe stato lo stesso che fare sciupo di quel tempo, di cui ho io in­vece molto bisogno per combattere le torbide arti di ri­belli, intenti sempre a rovesciare con ogni altare tutti i troni ed ogni specie di legittimità. Cosa di fatto impor­terebbe al leggitore sapere, se vero sia o falso, se sono io rimasto vedovo, o pure se passato sia ad altre nozze? Se le mie spose Regine fossero o Arciduchesse, o pure gente di plebe? Se i miei matrimonii stati fossero con­trattati innanzi la S. Madre Chiesa, secondo le regole prescitte dal Santo Concilio di Trento; ovvero segreti innanzi al solo sacerdote con tacito consenso del ve­scovo corrispondente ed altre cose cotali, di cui nessuno adesso fa il menomo conto; né fatto n'è stato giammai quando   si  sono   talune  regole  osservate   e  mantenute.
Ed ancora che avessi io fatto nella mia vita partico­lare e privata, il maggiore di tutti gli spropositi, che non sapessi o non potess'io tampoco difendere (a),
(a) Tante volte ciò che può e deve riguardarsi come impru­denza ed anche errore in talune circostanze in cui si trova l'uomo, diventa cosa prudentissima, saggia e santa in diverse circostanze e rincontri. Ora ciò che a me avvenne nel 1815 e molto più quanto è accaduto nel 1822 ed in seguito è tanto straordinario nella storia di tutti i tempi e nazioni, che il trattamento da me avuto riguardare si deve come un impossibile politico. Ciò vale tanto che io se nelle circostanze mi trovassi stesse le mille volte del 1815 e 1822 come in quelle del 1830 in Toscana mi regolerei le mille volte sempre come feci, non potendo supporre giammai tanto controsenso in taluni politici. Ciò importa per decidere che quelle che feci io nel 1821 non fu sproposito, ma atto religioso: sproposito lo fecero giudicare taluni fatti che non potevano, né doveano politicamente accadere.
 
cosa dovea o potea interessare ciò al Colletta che per fare una satira (che potrebbe estendersi sopra gli uomini i più saggi della terra e ben anche Imperatori e Re) per solo puro e vero accanimento (a).
(a) Persona bene informata mi fa sapere che il reverendissimo Colletta per quanto fosse somaro, non iscrisse tampoco la quarta parte di quelle bestialità contro me, che ho io confutate. Mi as­sicura di fatti che molte aggiunte calunnie contro me sono state aggiunte dalla casta vergine Giovane Italia per ministerio del venerabile Padre la Cecilia segretario degli assassinii che spesso ordina l'areopago della sovrana liberalesca canaglia.
Cosa ciò dovea o potea importare al leggitor presente ed a' posteri molto più? Questi nel caso vogliono, o vorranno occuparsi di me, bramar devono esserere informati della mia vita politica, in quanto può avere avuto rapporto colla storia pre­sente, come per i risultamenti che il presente può avere avuto d'influente nel futuro. Ma se avessi avuto una o due consorti, se queste siano state pubbliche o private innanzi alla Chiesa, se matrimonii furono, o contubernii, ciò ne importa, né importare potrebbe che nel caso che le donne, di qualunque fossero natura, rango, qua­lità ec, influito sopra me avessero in guisa da tirarmi (come suoi dirsi) per il naso, e mandarmi a commettere azioni buone o cattive da influire sopra la società, e quindi interessare la storia. Or siccome è notorio, che quando io fui nelle diverse cariche non s'intrigavano mai le donne nel menomo degli affari, e noi permisi giam­mai, così come spregò il suo fiato il reverendissimo so­maro nel fare tutta quella lunga filastrocca, asino io ancora dovrei essere riguardato se ne avessi per poco for­mato mai occupazione per confutare quanto di me scris­se quel fellone recidivo, quello spergiuro, ingrato ai favori reali, e somarescamente calunniatore.
Ecco terminato il lavoro, e quindi l'epistola. Cosa ne dite colla vostra imparzialità? Mi sembra aver ben ba­stonato il povero Padre Pietro. Taluni (anche tra miei amici) dicevano « che il mio capo era esaurito d'idee; che ripetea sempre le stesse cose, e che il mio fuoco fosse stato spento meno dal peso degli anni che di tante sofferte ingratitudini . Cosa intanto ne dite voi? Consultato me medesimo trovo precisamente l'opposto. È certo che in questa mia epistola come in tanti altri miei lavori di simil genere non troverete né dottrina (a) né stile purgato. Non potrei tampoco componendo nel modo come io scrivo (b).
Io non ho mai preteso in dottrina. Né sono dotto, né l'ho potuto diventare. Mille volte ho replicato e protestato nelle varie mie opere ciò, confessando, che avendo lasciato lo studiare a 37 anni (quando lasciai la penna per la spada) non ho potuto diven­tar dotto. Siccome però sopra questa terra tutto è paragone, così sono dotto al confronto della sovrana asinesca birbaglia, perché quella poi non che sapere nulla, sa delle cose tutto il falso fino a persuadersi e dogmatizzare che Dio non esiste, e la religione sia una chimera!
b) In Bologna non ha guari un Padre della Patria, colle opere mie in mano andava mostrando ai suoi cari allievi taluni  miei errori, dicendo « come si può dare retta a costui, quando non sa «scrivere tampoco!! » Io ignoro quali errori il reverendo negli scritti  miei  trovasse.  Nel  rimanente  mille  ce  ne  fossero  stati, coloro che mi vedono scrivere possono attestare con quale rapidità io mi scriva, e come, senza rileggere tampoco ciò che ho scritto, mando a stampare. Quale sorpresa dunque se trovati avesse errori, ed anche molti. Non consiste però in questo l'Achille del nostro argomento. Il forte della questione è se dica io il vero o il falso: se quando chiamo asini o tristi i falsi liberali lo dimostri o no geometricamente perfino. Il Reverendissimo Colletta avrà uno stile superiore a quello di Tacito, io inferiore a quello dell'autore della storia de' cavalieri della tavola rotonda. Ma ho dimostrato o no, essere un somaro, un calunniatore, un tristo? Ebbene, ciò è quello che si richiede, q. e. d.
Tutto ciò peraltro non sarebbe che un accessorio. Il mio oggetto nel replicare alle accuse de' falsi liberali non è che quello di mostrarli al pubblico come tanti asini e calunniatori. Ma ciò è sem­pre avvenuto in modo che non hanno risposto mai alle mie repliche. Dunque il mio fine è conseguito.
L'unica maniera, miei reverendissimi Padri di tutte le Patrie, è quello di lasciarmi in pace. Se altri mille sor­geranno ad attaccare l'onor mio o la memoria di Maria Carolina (che tanto mi onorava) io mi alzerò sempre come un lione per lacerarli. E siccome tengo nel capo e nelle casse un gran magazzino di notizie, di aneddoti ec, anziché dire sempre le stesse cose, esclamerò per l'opposto inopem me copia fecit. Io sono un pigmeo e lo confesso, sono però un gigante a fronte de' falsi li­berali, e perché? perché io li ho sempre fiaccati. Per i Filistei la mascella famosa dell'asino divenne loro più formidabile che la spada del pio Enea. Sempre che la discorro con qualcheduni che si trovano in contatto co' falsi liberali, ripeto loro, affinchè glie lo riferiscano. Do­vremmo esserci intesi già da un pezzo. Non mi toccate, ed io non tocco nessuno. Io non ho fatto l'aggressore giammai; respingo però ogni aggressione con caldo, con forza e con perseveranza, non lasciando incalzare l'av­versario fino che non l'ho precipitato nelle voragini del Vesuvio. Perché non prendono norma dai fogli liberali francesi? Per un gran pezzo non ci era corso di posta che non veniva onorato con un panegirico; vedendo però che io con la stessa costanza restituiva loro datteri fre­schi invece; tosto che osservarono che meco non ci era da guadagnare nulla, e che nella polemica la causa del falso liberalismo ci perdeva, abbandonarono il campo, e lasciarono la foga di rompermi il timpano. Da che non mi stuzzicano più, chi più ha toccato essi?!
Bellissima! I RR. PP. dopo sapere, che io ho ricevuto mille torti, ingiustizie, ingratitudini, dopo che loro me­desimi mi chiamano il Bellisario delle due Sicilie 14 bra­merebbero insultarmi ancora, e pretenderebbono i poli­tici dell'amalgama, e giusto mezzo, che io mi tacessi (a).
(a) Così due vecchi peccatori, insieme combinati, per fare una carezza al liberalismo (credendo con ciò, i somari, renderlo meno violento ed esigente), avendomi recata grave ingiuria (ed a loro medesimi, appartenendo io alla stessa di loro classe) furono for­malizzati e diedero in furore, quando io ne' Piccoli Piffari battei loro la polvere dalle spalle! Or mira stoltezza! Dunque credevano dovessi tacere? Che ciò lo pretenda Nicolo o Francesco I Impera­tori passi pure. Per altro tali potentissimi monarchi (incapaci di qualsivoglia prepotenza) tampoco pretendere lo potrebbero per dritto. Un uomo però amico della buona causa soffrirebbe la pre­potenza, venerando in quelli le basi fondamentali della legittimità. Ancora l'uomo prudente (cui piacesse rimanere più a lungo che sia possibile sopra questa terra) si tacerebbe per timore di una forza colossale e gigantesca, cui resisti nequit. Lo scorgere però tale pretensione saltare nel capo di due semi-cadaveri, che per osservarli fa mestieri fare uso del microscopio, è realmente degna del secolo del progresso e de' lumi liberaleschi, dei quali sono invisibili maestri. della battaglia di Jena e d'Austerlitz. M'insultò quindi con quella celebre stampa mendacissima, e villana. Egli sbagliò peraltro il suo latino in genere, numero, e caso; avvegnaché si sentì cantare una palinodia, di cui si ri­cordò fino sul letto della morte.

Ciò possono pretenderlo da coloro, che tengono in corpo tanta paura da non essere per essi sufficiente tutta la Triaca di Venezia. Per me non per tanto questa regola non vale. Se avessi difatto avuto paura non sarei ri­masto, con istupore universale, tre anni di seguito in Ponza con 25.000 ducati di taglia sulle spalle! Ancora in quell'epoca il degnissimo signor Saliceti (che mi sup­poneva un poltrone come tanti altri, che la fanno da Rodomonte) credeva che mi fossi zittito in venerazione
Dunque (tornando a bomba) per quanto fastidio mi rechino, noia, e volta-stommaco gli abbietti miei avver­sarii sappiano, che io non lascierò giammai senza con­grua risposta i Verri, i Catilina, gli Spartachi, i Sejani, i Tigellini, i Sarpi. Io non paventerò giammai i felloni, gli spergiuri, gli Apostati, i torbidi cospiratori, i per­versi Demagoghi, i Sicofanti, canaglia tutta e pesti per l'umana società esizialissime, fango tutto e marra, che cerca attaccarsi sempre, schifosa, e vile allo sdrucito mio coturno. Si verrà essa sempre scossa. Essa verrà sempre, conculcandola, calpestata dal veggente Bellisario delle due Sicilie  (a). Addio.
Il vostro buon amico e compare ANTONIO PRINCIPE DI CANOSA.
(a) Essendo arrivato un cenno biografico del Pietro Colletta da personaggio integro, si  aggiunge la seguente annotazione:
II generale Colletta nacque da civili genitori, ma miserabili in modo, che il di lui padre, uomo vero da bene, segretamente pitoc­cava nelle case de' grandi e mezzo ceto, e dagli uni e dall'altro era stimato per la di lui morale e docilezza, in modo che cogl'impegni de' primi ottenne una piazza nel collegio militare pel figlio, il quale uscì secondo tenente di artiglieria. — Figurò nel 1799, e riacquistato il Regno fu destituito; d'allora fino al 1806 fece l'ar­chitetto; ed il consigliere Franchini, presolo a proteggere, lo im­piegava nelle perizie legali. — Venuti i francesi nel 1806 affacciò i suoi meriti, il suo attaccamento, le sue fatiche, ed il suo zelo all'epoca della Repubblica, non che l'odio contro la dinastia de' Borboni, e così ottenne la protezione del ministro Saliceti, e fu spedito all'assedio di Gaeta, da dove ritornò capitano. — Esercitò lo spionaggio da infame calunniatore contro i Borboni. — Fu incaricato conoscere la forza inglese nell'isola di Capri, ed il modo da poterla acquistare; riuscì nell'impresa, e fu fatto maggiore. Fu prescelto per giudice del tribunale sanguinario, come il più deciso ed accanito nemico de' Borboni e loro partigiani; quali alla rinfusa si condannavano alla morte, secondato il Colletta dal si­gnor Agresta che facea da pubblico ministro (oggi procuratore generale della G. C. di Appello in Napoli). Il parroco di Sessa D. Crescenzo Novellini trovandosi nel 1807 sotto la polizia gene­rale si trovò presente al seguente fatto: presso la corte sanguinaria si giudicavano tre vecchioni gran possidenti della provincia di Salerno, accusati di cospirazione contro i francesi: sostenevano l'accusa il capo civico, il parroco di Agnome Marinaro, ed altri individui della comune, il difensore de' vecchi era D. Giuseppe Poerio; la reità de' suddetti vecchioni, ch'erano di circa 90 anni per cadauno, la costituiva una vistosissima possidenza e numera­rio che teneano, e siccome era quella l'epoca de' furti ed assassini i (imitata infelicemente ne' tempi nostri) perciò quei decrepiti fu­rono tradotti all'infame tribunale sanguinario. Poerio nella difesa invocò il disposto di un dispaccio del Re Ferdinando IV. Colletta s'alzò come una furia dalla sedia curule, imponendo silenzio al difensore Poerio, e non ardire più nominare un nome infame e de­testato da tutto il Regno. Imperturbabile il Poerio diresse la pa­rola al presidente Sanzone, facendoli conoscere che il dispaccio enunciato era nel suo pieno vigore, perché non abrogato dalle leggi in vigore, e facendo chiasso il Colletta contro Poerio, il pre­sidente Sanzone si alzò, ringraziando al signor Poerio per aver fatto conoscere il disposto di una legge vigente a chi la ignorava, ed alzando la voce, autorevolmente disse al signor Colletta, che un magistrato tiene in mano la spada per farla cadere sopra de' rei, ma colla spada istessa dovea difendere l'innocenza oppressa, e che era male inteso che uomini noti per lo addietro attaccati alla dinastia de' Borboni, dovevano esser sagrificati, per così con­solidare le basi di un regno nascente, distruggendo quelli che pri­ma difendevano la legittimità. — Sanzone dopo reiterati evviva fatti al signor Poerio, che furono secondati dal pubblico, ordinò l'assoluta libertà degli imputati, e condannò a sette anni di ferri li calunniatori, e così fece ammutolire il tiranno Colletta, che faceva da pubblico ciurmatore, il quale con i mezzi dello spionag­gio, delle barbarie e sublimi gradi nella massoneria, volò negli ascensi militari. Colletta fu l'istigatore, e forse la molla principale di far ritornare da Corsica in Napoli Murat. — Colletta fu la
molla principale della rivoluzione di luglio 1820; nel di lui casino sopra Capo di Monte tutto si organizzò, e per portarla a fine bisognava pacificare Pepe con Carascosa, e per tanto conseguire Colletta diede un gran pranzo pratriottico nel detto casino, facendo persuadere Pepe dal generale Filangieri suo grande amico, e così successe la bramata rappacificazione, ed indi la rivoluzione. — Colletta rimpiazzò in Parlamento il generale Florestano Pepe, ed in pochi giorni rubò circa 80 mila scudi, che seralmente come un Cesare si giuocò, e perde al teatro Carolino. — Colletta in tutti gli impieghi, incarichi e commissioni la fece da gran ladrone, e se così non operava, non poteva soddisfare al suo genio del giuoco, nel quale essendo stato ben disgraziato, perde più centi­naia di migliaia.
Tali sono le vere e leali notizie biografiche del fu generale Colletta.
Ecco coloro che si sono dichiarati gli avversarii del Principe di Canosa; uomo nemico del sangue, ed integro fino alla delica­tezza di aver meritato l'epiteto del Bellisario delle due Sicilie! Aggiungerò, che mentre il Colletta nella sua storia declama contro le stragi illegali fatte sul principiare del decennio contro molti innocenti non che tanti borbonici, fu esso nel tempo stesso quello che ci ebbe tanta parte, tanto come denunciarne che come feroce giudice sanguinario. Soggetto di tutta fede ed onoratissimo mi assicura similmente che il Colletta fu uno de' due che istigarono Massena ed altri tristi francesi affinchè il marchese Rodio assoluto da un consiglio di guerra fosse stato condotto innanzi ad altro, dal quale venne assassinato. Sono tutti di questa peste gli avver­sarii del Principe di Canosa tanto liberali, che dottrinarii (senza dottrina).

Note
(1) Pure non accade così, dicono taluni. Se ciò fosse, non farebbono a gara tutti i governi della terra per fare ponti d'oro ai padri della compagnia di Gesù? Chi furono coloro che accusarono, e di tante calunnie ricoprirono i Gesuiti? I miscredenti, i libertini, i falsi filosofi, gli ete­rodossi e coloro tutti i quali l'esperienza in seguito dimo­strò i nemici più accaniti di ogni religione e legittimo potere. Pure a' Gesuiti non si fa festa che da pochissimi politici. Taluni che anzi che negli stati di coloro li aveva­no restituiti, vennero (come Carlo X) costretti nuovamen­te, con inconseguenza, bandirli.
Ma cosa vale questo discorso? Vale lo stesso che l'en­comiare quel pastore il quale, supponendo rendere più miti e meno crudeli i lupi verso il proprio gregge, si de­terminò condiscendere alla richiesta de' lupi, che glielo promisero, purché consegnato loro avesse quei cani che più contro di essi latravano e li combattevano.
Che nell'etica e nella politica, come in tutte le morali discipline abbiano gli uomini fatti passi retrogradi in mo­do da non conoscerne in taluni paesi fino le cognizioni le più elementari, è una verità troppo disgraziatamente di­mostrata da' fatti continui e ripetuti.
In un'età in cui taluni potenti della terra supposero poter mantenere salda la propria podestà senza religione e '1 continuato soccorso di Dio. Mentre che i politici filosofi crederono poter governar la terra appoggiandosi alla sola sapienza umana, ed alla forza delle baionette; ha voluto Iddio dimostrare all'uomo imbecille quali erano i risultamenti che sperare si potevano dalla sapienza uma­na, e quanto valesse la forza di quelle baionette, che bran­dite venivano da' soldati che si erano dimenticati di Dio.
Reduce in Napoli da Parigi il marchese Caracciolo (che avea fama di grande uomo di stato, ma miscredente) ve­niva spesso interrogato circa il che sarebbe avvenuto in Francia, che allora bolliva di novità e fazioni. Il marchese Caracciolo, per quanto filosofo alla moda e frammassone, era attaccato alla monarchia per puro proprio interesse. Sebbene vecchio settario, non era stato ammesso giam­mai alla partecipazione di quei misteri che riguardavano il potere secolare. Interrogato dunque, rispondendo da uomo, diceva: « Convengo che la guerra contro il Re sia  terribile. Voi però non sapete cosa significa esser Re di Francia! Se i congiurati avessero per loro 300.000  baionette, allora dubbio sarebbe l'esito della lotta. Siccome però queste non hanno, ed il Re viene difeso da  300.000 soldati, così l'esito non potrà essere dubbio « giammai ». L'esito dimostrò quanto fosse stolto il pro­gnostico. E in vero cosa vale il potere umano non appog­giato da  quello di Dio?  Quale guarantigia  sperare da quella soldatesca che, essendo divenuta infedele a Dio, non ha alcuna ragione per rimanere fedele al Re. Rimar­rà leale fino che la lealtà sarà giovevole a' propri interessi. L'umana sapienza, essendosi emancipata da Dio, non potea che degradarsi rapidamente, trasformando gli uo­mini in bruti, e rendendoli fino ridicoli. Ecco la ragione della perdita di ogni buon senso. Le verità conosciute fino dalla plebe de' nostri antenati, proferite nell'età in cui viviamo, o sembrano nuove scoperte, ovvero come assur­dità vengono riguardate. Quale sorpresa dunque se taluni politici abbian timore, e faccian sorvegliare i gesuiti e non i giansenisti!! Tengono spalancati gli occhi sopra i più leali realisti, e riposano sicuri sopra i ribelli recidivi (che sognano ricreduti) nelle mani de' quali con tanta imprudenza si affidano!? Quale meraviglia se taluni go­verni legittimi prendono argomento di dubitare de' loro più notorii fedeli, e perdere l'opinione che aveano di essi sol perché uomini immoralissimi, miscredenti e traditori li accusano con calunnie!! Iddio per punire la stoltissima umana superbia ha permesso che ogni buon senso dalla terra si ritirasse, ed occupato ne venisse il posto dal con­trosenso. Siccome però questo stato violento di aberrazione di idee non può essere durevole (se pure Iddio non abbia deciso punire il genere umano con una generale anarchia), così l'essere accusato, calunniato, ingiuriato dalla liberale canaglia diverrà tra poco uno dei più ono­revoli fregi de' quali potrà vantarsi ogni leale ed onorata persona.
(2) Non rechi scandalo a' RR. PP. della patria se io applico l'epiteto di somaro a quel di loro reverendissimo che riguardavano per uno tra essi (non sarebbe un gran-d'elogio) il più sapiente. Io non do agli altri che quello che meritano per giustizia distributiva e commutativa. Ora quando io avrò dimostrato che realmente era un asino, avrò respinto da me ogni taccia d'ingiustizia.
Qual'è la sapienza p. e. di un medico? Quella di curare gli ammalati. Or se dunque un medico esistesse dottissi­mo quanto Bacone da Verulamio, ed ammazzasse tutta volta quelli stessi infermi che gli altri professori dell'arte salutare curano agevolmente, chiamandolo medico somaro potrebbe querelarsi giustamente sentendosi applicare un tale epiteto? No sicuramente. Così se ci fosse un avvoca­to eloquente quanto Demostene il fu e Cicerone, ma pure sbagliasse costantemente la difesa di tutte le cause più giuste che prendesse a patrocinare, potrebbe piccarsi quando, avendo perduta la più giusta delle cause, il clien­te rovinato lo nominasse avvocato somaro? No di certo; conciossiachè dovere dell'avvocato è quello non di fare il cerretano, ma di vincere quelle cause che il buon senso legale fa conoscere non potersi perdere quando venga ben trattata dal difensore. Ora qual è il dovere dello sto­rico e qual è il primo oggetto della storia? Quello al certo di far sapere a' contemporanei e mandare alla posterità quei fatti che imprende a descrivere con ogni verità, onde non ingannare i viventi e molto più la posterità. Se dun­que uno storico elegantissimo vi fosse come e quanto Tito Livio; conciso, sentenzioso come Tacito, il quale anzi che istruire i leggitori facendo loro conoscere la ve­rità delle cose, narrasse tanti fatti falsi e tutte le menzo­gne, per lo contrario accreditasse, non potrebbe benis­simo   caratterizzarsi   storico   somaro?   Tutto   potrebbe
essere che molti fatti raccontasse in modo diverso dal vero, più per malizia che per somaraggine, come tanti storici praticarono per promuovere la miscredenza, calun­niare i cattolici, il clero, i religiosi, il papa ec. Ora se a cotali traditori della storia, e congiurati contro il genere umano non adeguatamente convenisse l'epiteto di asino, loro apparterrebbe quello di furfante. Voglia l'un epiteto, voglia l'altro per sé il signor Colletta, che, come autore, vive nella repubblica letteraria tuttora (sebbene abbia tol­to a' viventi l'incomodo di sua presenza, essendo calato nella tomba), per me, è tutto indifferente. A parer mio merita però l'uno e l'altro epiteto.
Tutto il mio dovere, nel presente lavoro, consiste nel dimostrare i frequenti di lui mendacii. Non si aspetti però alcuno che io imprenda ad analizzare tutti i quattro volu­mi della sua storia. Dio me ne liberi. Non ne avrei il tempo, come mi mancherebbe la voglia. Io non ho letto di questa storia che ciò che riguarda me. L'indice delle materie mi è servito di guida. Non provocando, io non attacco alcuno. Trincerato però nelle linee di Torres Ve-dras, respingo gli attacchi dell'inimico. Non ricusai que­sto giammai. Ora prendendo quello gettatomi dal generai filosofo democratico murattista costituzionale, gli rivedrò (come ho fatto a tanti altri che mi hanno calunniato) le buccie, e lo dimostrerò storico asino, furfante, ed a se medesimo incoerente.
 (3) Sento generalmente che i falsi liberali alte menano contro me le querele, perché nella mia polemica fo contro essi frequente uso degli epiteti di canaglia, birbaglia, fur­fanti, tristi, bricconi, ladri ec, vocaboli tutti che credono e dicono esser da trivio, e ben lontani da quella fina edu­cazione e carità cristiana benanche (giacché quando loro torna conto si mostrano tanti cappuccini) colle quali sup­pongono dover essere trattati gli uomini del progresso de' lumi.
A tali lagnanze mi trovo aver più volte risposto. Ne parlai fra le molte in un lungo mio articolo, quando l'ono­re ed il piacere insieme aveva di essere uno dei collabo­ratori di quel prediletto foglio che in Modena stampatasi sotto il titolo della Voce della Verità. Or siccome i libe­rali non s'incaricano giammai delle risposte che contrap­pongono alle cause che mi danno, e si prendono anzi tutta la cura di distruggere quanti esemplari capitano loro in mano de miei scritti (affinchè gl'illusi ed ignoranti ri­mangano stazionari negli errori) così conviene nuovamen­te che in faccia al pubblico contro una tale imputazione mi difenda.
In primo luogo dirò che se per una legge di Rada-manto (che leggiamo nella storia poetica di ApoUodoro) è permesso a ciascuno rispondere alle ingiurie nello stesso modo che queste vengono fatte dagl'ingiusti aggressori; per qual mai ragione non devo io avere il dritto di trat­tare i miei avversari, pagandoli colla stessa moneta di cui contro me si servirono? Or dunque si legga ciò che con calunnie ed imposture contro me venne scritto dagli stol­tissimi falsi liberali, si osservi di quali epiteti e vocaboli si sono serviti attaccandomi con tanta ingiustizia, e si de­cida poi se abbia mai io ecceduto! Fra le tante gentilezze quella vi è stata che per antonomasia mi nominavano il mostro, come tra le prave mie azioni civili di quella fino mi addebitavano dell'antropofogia, asserendo divorare, cotti al forno, i neonati de' liberali. Or se dunque il mostro regala loro l'epiteto di somari e di furfanti, può dirsi abbia ecceduto?
Secondariamente. Non fui il primo giammai ad attac­care essi. Attaccato, respinsi l'ingiusta aggressione, ful­minando gli avversarii con forza, con fuoco, e con quel mio connaturale vigore concesso dalla benefica madre na­tura al mio individuo. La prima mia opera polemica di­fatti fu quella della risposta da me pubblicata contro quel-Vanima innocua di Cristofaro Saliceti (che sarà una delle prime che pubblicherò, avendone i rivoluzionarii distrutti gli esemplari di due copiose edizioni). Ora si osserverà da' leggitori di quali epiteti quel sant'uomo si servì con­tro di me. Quel povero diavolo essendo a Napoli stra­niero, non conosceva che io la spada brandiva come la penna. Mi attaccò dunque villanamente e calunniosamen­te; ed io per la prima volta restituendogli datteri per fichi, posto in un fascio lui con tutte quelle maestà da
marionette, gli feci leccar le dita fino al momento che piacque alla giustizia di Dio farlo, filantropicamente e li­beralescamente avvelenato, piombare nell'inferno.
Così la seconda mia opera polemica fu quella che porta il titolo de' Pijfari di montagna, titolo che dimostra abba­stanza che i rivoluzionarii essendo venuti per sonarmi la serenata, furono da me sonati in guisa da farcene ricor­dare in eterno, sei essendo state di seguito le edizioni che vennero fatte di quell'opuscolo. Ma fui io l'aggressore? No certamente. Conciossiachè soffrii socraticamente pri­ma le sciocchezze che vennero in Parigi pubblicate sotto il nome del conte di Orloff; indi le calunnie che contro me disse la Biblioteca storica di Parigi ec. ec. Quando mi scossi? Quando in Milano sul principiare del 1820 mi venne presentato un brano dell'estensore del foglio let­terario di Londra, che contro me calunniosamente dicea cose da chiodi, e ritornato in Pisa, mi fu l'intiero volume dato dal colonnello Misset dotto e rispettabile irlandese. Mi venne allora la senape al naso. Restituii a tutti pane fresco per focaccia; e per isventura del falso ridicolo li­beralismo l'opera apparisce impressa nel maggio, tre mesi prima cioè che la prognosticata ribellione di luglio del 1820 in Napoli non iscoppiasse.
Ora cosa avrebbero preteso i falsi liberali, i politici del­la moderazione e dell'amalgama, quegli uomini che si tro­vavano avere in corpo tutto il ghiaccio stazionario del monte Bianco della Savoia?! Che io mi fossi fatto basto­nare e calunniare senza dire una parola come hanno essi il diplomatico costume. Bramato avrebbono che lasciato avessi alla posterità il giudizio de' fatti miei, e che dopo tre o quattro secoli (quando appena si troverà la polvere delle mie ossa) i posteri mi avessero giustificato, com'è avvenuto a' cattolici inglesi di Cobbet ed a s. Gregorio VII da altri autori eterodossi. Sono queste le riflessioni de' codardi e poltroni. E in vero essi se si tacciono, nasce ciò o dal torto manifesto che hanno (per cui non hanno cosa rispondere alle accuse) o nasce perché sono analfa­beti, né quattro parole sanno accozzare assieme in carta per rispondere, o pure si tacciono per miracolo di paura.
Nulla di tutto ciò ha luogo in me per la grazia di Dio.
Essendo sempre stato calunniato, ho sempre tanto avuto che contrappone, che inopem me copia fecit. Avendo pas­sato sempre la mia vita al tavolino (prima di andare alla maledetta guerra) ed avendo dato alla luce molte opere prima di essermi recato in Sicilia, poco travaglio mi co­stava il rispondere, e specialmente ad asini come tutti i moderni falsi liberali, non escluso il reverendissimo de­funto signor Pietro Colletta. Paura poi non ho al mondo avuto altra che di Dio e de' santi suoi. Rispettato ho sempre tutti, tutti venerati quando il meritavano; fuori di Dio però e de' Cristi suoi (perché Dio medesimo me lo comanda) paura non ho avuto mai di alcuno. Ne diedi prova in Napoli quando diedi sonora risposta al fiscale della regia camera don Nicola Vivenzio, quando replicai al principe di Castelcicala (autore di una carta stoltissi­ma, colla quale veniva ad abolire gli antichi seggi ovvero la propria nazionalità). Più coraggioso mi mostrai facendo fronte a quello che hic haec et hoc nominavano, cioè generale don Giovanni Acton. Sono queste cose di una data antica; era io giovanotto in quell'epoca. Quelli però che si ricordano quei tempi comprenderanno bene qual cuore fosse necessario avere in petto onde venire alle prese col generale Acton!! Ora sono vecchio, è vero. Co­nosco però adesso meglio i miei doveri come i miei di­ritti (giacché gli uni non possono stare senza gli altri) e so meglio sostenerli. Più se i miei anni sono molti (sono entrato nel 67), il mio fisico è vegeto e fresco, ed intre­pido il mio cuore assai più che prima, non avendo nulla a temere o sperare da questa sozza terra. Dunque non avendo timore che solo di Dio e de' Cristi suoi, perché devo tacere, né rispondere colle parole e colle rime alla liberalesca canaglia?
Ma quali sono poi i liberali che io tratto coi termini che loro convengono. Non sicuramente quei bravi uomini che nel di loro cuore serbano sentimenti diversi dai miei. Non perché uno, intimamente convinto che la forma de­mocratica sia più utile che la monarchia al social reggi­mento o all'umana natura più consentanea, non lo riguar­do né riguardato ho mai come mio avversario, e molto meno contro essi ho eruttato giammai o scritte proposi-
zioni e frasi che non fossero onorevoli. Chi più che me non rispettò lo sventurato don Mario Pagano? Chi più di me ebbe per amico don Giuseppe Rafiaello e tanti altri liberalissimi, ma nel tempo stesso onestissimi? Li rispet­tava tanto, che buffoni nel mio paese non mancarono giudicarmi come liberale, e venni per anni sorvegliato come tale dalla stoltissima polizia. Io per l'opposto, non mai per interna convinzione e per lungo studio, divisi seco loro liberaleschi sentimenti. Avendo un cuor gene­roso, i miei sentimenti erano liberali, ma liberali monar­chici; giacché persuaso e convinto che la democrazia, se non fu mai applicabile alla specie umana, meno potea es­serla all'età nostra miscredente e corrottissima.
Anziché trattare tali uomini con frasi ed espressioni indecenti, io li riguardava, erranti nell'intelletto, andar cercando come gli antichi alchimisti l'oro potabile o la pietra filosofale. Assomigliava quelli ad un artefice che io un dì conosceva; che essendo forte nella teoria delle se­zioni coniche, ben comprendendo le qualità di massima geometrica evidenza della parabola e dell'iperbola, volen­do la dottrina astratta porla in pratica per formare uno specchio ustorio parabolico o iperbolico, mandò al diavolo molto metallo e tanto travaglio, non potendo arrivare a persuadersi che moltissime verità astratte non è possibile all'uomo, infermo ed imperfetto, nella pratica essere verificate. Ora con tali uomini dotti ed in buona fede erranti, per massime di vera libertà civile, fui amico, e lo sarei ancora adesso se (dopo tante esperienze in contrario) es­sere ve ne potessero che in apparenza.
Ma sono questi i miei avversari; a questi do per la testa del birbo e della canaglia? Mazzini, la Cecilia, Pepe, Ramorino sono liberali come Mario Pagano e Peppe Raffaello?! No sicuramente. E perché? Perché meglio che me sono essi stati dall'esperienza convinti che l'attuale genere umano non può né moralmente né politicamente esser libero, secondo i pensamenti che spacciano. Che se il Pagano, il Raffaello in buona fede voleano o credevano fare il bene del pubblico, i liberali de' nostri giorni, an­ziché il pubblico, bramano e vogliono il particolare di loro profitto, e lo vogliono colla desolazione de' loro simili, e dell'intero genere umano se necessario fosse. E come no? Non è sufficiente osservare ciò che in Francia è avvenuto dopo le gloriose giornate? Non basta la de­solazione dalla quale è stato ricoperto il Portogallo? Non sono abili a scuotere qualunque cuore e mente le stragi e '1 sangue versato nelle Spagne dei ministri del santuario? La malizia dunque e l'impostura degli attuali demagoghi, come la perfidia di essi è chiara ed evidente come qual-siasi geometrica verità.
Ora tale gente nemica di Dio ed amica ipocrita del ge­nere umano è quella sola per l'appunto che io chiamo canaglia, tristi, furfanti, avendo fino rabbia coi dizionarii, non trovando in essi vocaboli bene siano capaci esprimere quelle idee che contro tali pubblici traditori nella mente mia concepisco. Ma se i vocaboli che io uso esistono ne' dizionarii, convien dire che i nostri maggiori giudicarono essere applicabili a talune persone in certi casi. Ora quale umana azione può essere più degna e meritevole de' rife­riti epiteti che quella de' moderni falsi liberali, che tutto cercano distruggere per essi soli guadagnare colla rovina e desolazione generale?
Ma s. Girolamo e i nostri antichi santi Padri, ma Gesù Cristo co' Farisei non si servì di epiteti ancora più forti nel riprenderli? Ma quanto erano meno empii gli antichi eretici redarguiti da s. Girolamo e tanti altri santi padri, dei moderni nostri liberali?! E in vero se gli antichi ete­rodossi una o due verità negavano delle sacre carte, tutte le negano i moderni liberali, terminando col negare Dio medesimo. Così quale confronto fare tra l'ipocrisia de' farisei, aspramente trattati da Gesù Cristo, con l'ipocrisia infame di coloro che spacciano libertà, eguaglianza, feli­cità, rigenerazione, per dar poi a' popoli, invece catene, vera diseguaglianza, desolazione, miseria, e morte? Dun­que io non posso giustamente venire attaccato né d'in­giustizia, né di asprezza dando ad essi in risposta meno che quello diedero a me in disfida, e dando loro epiteti al disotto assai di quelli, che per le pessime di loro qua­lità, e per il male che recano all'uman genere meriterebbono. Si cessi dunque una volta redarguirmi pel modo, col quale io tratto questa vera pestilenza dell'uman genere,
che uscita disperata e furibonda dai più cupi, e profondi abbissi dell'inferno, tutti colà bramerebbe trascinare, sen­tendosi rea dello stesso primo peccato di Satanasso la ri­dicola superbia, cioè lo spirito d'insubordinazione verso il legittimo potere da Dio conferito sopra questa terra ai Sacerdoti ed ai Re.
(4) Ove non vi è Monarca non vi è nobiltà. Ove non vi è nobiltà non vi è Monarca, ma si ha uno stato popola­re o dispotico. Ecco ciò che dicea e scrivea nello scorso secolo il dotto autore dello spirito delle leggi. Ecco quel­lo che scrivea uno non profano a quella filosofia negativa che ridusse la specie umana in uno stato, a quello degli stessi bruti, inferiore.
L'aristocrazia, la madre delle generose azioni e dell'e­roismo, è dunque tanto essenziale alla monarchia mode­rata, che senza aristocrazia non può sussistere monarchico reggimento. Unitamente a tutti i politici disse ciò il me­desimo Montesquieu, il quale vaticinò la caduta della mo­narchia francese molti anni prima che seguisse, e ne pro­gnosticò il rovescio solo, perché i magistrati di quella nazione (che in corpo erano giacobini, come si dice del manicheismo prima di Alanete) cercavano distruggere l'ari­stocrazia tanto sacerdotale che patrizia. « Cerumi magistrati di un grande stato europeo da molto tempo cercano distruggere la giurisdizione patrimoniale degli ecclesiastici e dei signori. Non cerchiamo censurare (perchè era della lega) così saggi magistrati, ma lasciamo « indeciso fino a qual segno ne sarà cangiata la costituzione ».
Se dunque alla monarchia è necessaria la nobiltà, e se distrutta la giurisdizione patrimoniale del clero e della nobiltà deve per forza della natura delle cose venire di­strutta la monarchia, se il principe di Canosa era aristo­cratico, lo era perché fedele alla monarchia, e non ad essa ribelle, come sogna il nostro canta storie. Volea l'aristo­crazia come necessaria alla difesa del re contro le macchi­nazioni demagogiche, non per sostituire il governo ari­stocratico al regio. Egualmente avverso il principe di Canosa tanto al dispotismo quanto alla licenza popolare, era attaccatissimo alle diverse classi aristocratiche e diffe­renti ordini dello stato, riguardando in essi tanti argini alla licenza popolare, che, tutti uniti, agendo di concerto venivano a formare un fiume che, circondando il trono della monarchia moderata, impediva l'accesso tanto al dispotismo che alla tirannide popolare.
Il baronaggio, che era l'istituzione la più atta alla dife­sa della monarchia (però la più odiata dal manicheismo innanzi Manete, ovvero dai dilettanti di democrazia in­nanzi la rivoluzione francese), il baronaggio, io dico, re­sosi un poco troppo potente, diede qualche volta a pen­sare ai Re, facendoli talvolta impallidire sullo stesso di loro trono. Questo era un eccesso ed un abuso. Ma di che non abusa l'uomo! Quali possono essere le umane istitu­zioni perfette! e quali quelle che col corso del tempo non vengano ad atterrarsi ! ! ?
A porre riparo ad un tale grave disordine i più saggi monarchi crearono una classe che, posta a fronte del ba­ronaggio, lo tenesse in iscacco, e ne rendesse meno terri­bile l'influenza potentissima. Questa classe fu quella de­gli uomini di toga e dei dottori in legge, quella precisa­mente che in Napoli chiamavasi paglietti. Questo gran pensiero, figlio delle più profonde riflessioni dei politici regi, ebbe il compiuto desiderato effetto. Il corpo de' to­gati divenne un tale contrappeso al potere de' baroni, che già da gran tempo, utilissimi rimasero alla monarchia (come si osservò nell'epoca della rivoluzione di Masa-niello e nella guerra di Velletri per citare due soli esem­pi) senza menomare o intimorire il potere monarchico moderato.
Se però col tempo degenerò l'istituzione feudale, de­generò egualmente quella che, formata dagli uomini di toga e di legge, se gli era posta incontro per menomarne l'influenza ed il potere. I togati andando troppo in là, col perpetuo contraddire ed abbassare l'orgoglio de' ba­roni, ne resero una classe di poltroni, ed inutili in con­seguenza al re, al popolo, alla monarchia. Il fiume che circondava i piedi del trono venne con questa politica a seccarsi, per cui libero si rese il passo tanto al dispoti­smo che all'audacia popolare.
Un tale argomento porterebbe una lunga disamina e sarà uno di quelli che tratterò nelle mie opere inedite. Per ora mi restringerò a dire che, entrata nello spirito de' paglietti, già da gran tempo, la smania dell'eguaglian­za, dopo che riuscirono avvilire i baroni, passarono ad attaccare la nobiltà ne' suoi diritti e privilegi che la rendeva (per proprio interesse ereditario) così ligia del potere monarchico ereditario. E siccome più o meno da monarchi poco politici e da' paglietti, nemici di tutto e di tutti (fuorché della propria borsa) una tale operazione venne più o meno praticata in tutta l'Italia, così quei baroni e que' nobili che aveano per lo passato dato a' diversi regni tanti eroi in fedeltà e valore, e che resi avevano a' monarchi i più segnalati servigi, combattendo strenuamente gli avversarii di loro tanto esterni che in­testini, si resero una classe di poltroni egoisti, ed in se­guito (spogliati di tutti i loro dritti, privilegi, ricchez­ze) di nemici, in talune monarchie in particolare ove avea­no maggiormente sofferto.
Tutto questo corso di vita politica delle diverse istitu­zioni e classi dello stato le avea io studiato con tutta la possibile riflessione sulla storia del mio paese. Posto ciò, conoscendo molto bene quanto valere poteano i miei colleghi baroni tanto che patrizii, ancora che fossi stato un fellone (come mi caratterizza lo storico mendace e buffone) ed un ribelle, avrei dovuto essere assai poco calcolatore, onde supporre che in tempi tanto burrascosi fossero i patrizii napoletani capaci di reggere alla bufera della più gran forza, ponendosi alla testa di un governo aristocratico.
 (5) Quanti sono i mali civili che affliggono tutte le società europee nell'età in cui viviamo, sono tutti con­seguenze dell'anatemizzata massoneria, della congiura de' filosofi miscredenti, della rivoluzione per dirlo in una sola parola. Lo stupendo per altro, e ciò che è degno vera­mente della morale del buon senso del secolo del pro­gresso de' lumi, è, che coloro che seguono le massime e le dottrine negative di que' filosofi del secolo XVIII; quelli che, a' mali presenti dai quali vengono afflitte le società europee, il doppio, il triplo, del centesimo di mag­giori mali le aggraverebbero, per solo guadagnare pochi zecchini, sono quelli per l'appunto che il Papa, i Cardi­nali, il clero, i cenobiti, ed in particolare i Gesuiti incol­pano di tutti que' malanni dei quali la sola vera unica colpa non sono che essi esclusivamente.
Fu nel 1787 che io, uscito dal collegio Nazareno (ove compii i miei studii di filosofia) entrai nella grande scena del mondo, in seguito di essere stato per due anni nella città di Canosa coi miei buoni genitori. Che bella cosa era il mondo allora sotto il tiranno Ferdinando IV e sotto il giogo della superstizione di tanti frati e preti intolle­ranti e fanatici! La maledetta filosofia avea principiato in verità a fare le sue stragi (appunto per la soverchia tol­leranza e dolcezza del governo temporale, come del potere spirituale); queste però non aveano attaccato la massa sociale. Andando col saggio ed imponente mio genitore nelle grandi conversazioni, egli mi notava a dito i fram­massoni conosciuti ed i dottori in miscredenza, e diceami: Con quelli non farai discorso giammai; con quello non «ti associerai, evitandone ancora l'incontro e negandogli il saluto. Sono frammassoni, sono nemici del Papa (allora era ancora un segreto sconosciuto l'essere nemico del Re). Sono senza religione e scostumati .
Che bella cosa era mai Napoli sotto la tirannide e il regno della benefica superstizione. Non si pagava nulla sulle terre; pochissimo pagavano i Baroni; le gabelle era­no mitissime. Ciascuno potea fare ciò che voleva. I passa­porti non erano che una pura e vera formalità. Tutte le più esatte regole usavansi nell'inquirire dalla giustizia criminale; ed uomini dottissimi e venerandi mi rammento esser quelli che giudicavano e presiedevano alla custodia della sicurezza e della proprietà de' cittadini. Si volle stare meglio; cioè la filosofica canaglia, la quale sotto il salvo-condotto della libertà ed eguaglianza volea occupare il posto dei Re e dei Signori (servendosi delle braccia della sconsigliata gioventù e della canaglia rapace) guastò tutto, tutto il bene disparve con il senso comune; ne età al mondo più infelice e miserabile vide mai la terra, che quella succeduta alla maledetta filosofica rivoluzione. Al presente si miri Vienna e quei paesi che non vennero sconvolti  dal rivoluzionario contagio!!
Uno de' peggiori malanni, di cui siamo debitori alla maledetta rivoluzione figlia primogenita del progresso de' lumi, si è il pesantissimo, molesto e spesso tirannico ma­gistrato della polizia. Chi è entrato in una tale putrida pozzanghera è solo capace conoscere quali sconcerti, in­convenienti, danni gravissimi non vengono prodotti dalla istituzione della polizia. Ma come si fa? Cosa ci entrano i poveri Sovrani legittimi! Essi sono tutti (senza quasi eccezione  alla nostra età) ottimi, né sarebbe (come le mille volte ho ripetuto nelle mie opere) dell'interesse di loro esser cattivi, come lo devono, per la ragione de' con­trarii, esserlo gli usurpatori ed ogni rivoluzionario reggi­mento. Non sono difatti stati essi giammai che inventa­rono o stabilirono questa nocevole magistratura. Essa è figlia di quella rivoluzione che ci prometteva felicità e rigenerazione. I sovrani legittimi altro non hanno fatto che conservarla, e perché? Quelli scellerati, i quali (fino i regicidi ! ! ! ) dopo essere stati perdonati di un numero pressoché infinito di misfatti, dopo essere stati di bene­ficenza ricolmati, congiurando ed intrigando ancora con­tro i sovrani legittimi di loro benefattori, minacciarono, come minacciano sempre il Potere. Il molestissimo e pe­sante magistrato di polizia si rese dunque tanto necessario quanto la cura del sublimato e dell'arsenico per coloro, pe' quali altro rimedio non rimane per prolungare la vita. Se dunque il magistrato di polizia fu tutto di liberalesca istituzione,  la conservazione di  questo mostro  civile  è tutta dovuta alla pervicacia, ostinazione, incorreggibilità dell'ostinata liberalesca ingratissima canaglia.
Cosa è il magistrato di polizia in molti regni? È un mercadante, la mercé del quale sono i misfatti e i delitti. Quanti più sono i misfatti che si commettono; quanto più le congiure che si scopruono, tanto il magistrato di polizia acquista un maggior credito; e per quanto possa essere un asino ed un furfante purché sia fortunato ab­bastanza per avere scoperto un complotto, una congiura, o almeno averlo fatto credere al Sovrano, diviene tosto un personaggio d'importanza, un uomo di merito. Ma signore (mi rammento di un uomo di talenti e virtù citta­dine, che così parlava a Giuseppe Bonaparte del ministro di polizia nell'anno 1806) il vostro ministro è un tristo, dì cui il simile è difficile rinvenire. Al che rispondea: —  Dite benissimo; lo conosco ancora io; ma come disfarsene? Mi ha per ben due volte salvata la vita scoprendomi due congiure. Diventa dunque per me un male « necessario; di cui non posso, né devo fare di meno ». Ora chi conosce il mestiere della polizia conosce altresì quanto riesca agevole ad un ministro immorale dare ad intendere al suo sovrano lucciole per lanterne. Quel coti-diano colloquio col Principe, quel poter disporre a suo bell'agio dello spionaggio estero tanto che intestino, lo pone nella posizione di far credere ciò che desidera. Se il principe è timido, come lo era Giuseppe, si fa sceneg­giare la paura, se è orgoglioso, come lo era Napoleone, allora gli si muove l'ira e il risentimento, se è avaro si fa giuocare la paura della perdita delle ricchezze. Ora mentre che lavora in questa guisa il ministro perverso, dispone (come è facilissimo) l'animo del Sovrano alla dif­fidenza verso tutti, ancora i più leali. Si fa ben anche ac­cusare il ministro perfido con calunnie, che facile cosa gli riesce dissiparle dall'animo del monarca. Signore, ve ne diranno tante altre. Tutti difatti mi odiano perche tutti conoscono che fintantoché io sederò questa sedia, la vostra vita è sicura. Così diceva lo scellerato Caravallo al Re di Portogallo; così diceva Saliceti, a Giuseppe, così Seiano a Tiberio, Tigellino a Nerone. Cosa ne avviene? Che sovrani ottimi diventano tiranni, solo per dare retta al ministro di polizia. I migliori galantuomini, le persone più oneste e leali vengono sagrificate. Tutto il popolo lo conosce, fremon tutti. Il Re però non conosce nulla, per­ché posto in diffidenza verso tutti. — « Tigellinus, vel Tigellinus vir romanus vitae corruptissime (dice Tacito) « qui Neroni cum intimarum libidinum conscientia esset « familiaris, plurimis summis viris exitium per calumnias « machinatus est. » — Nerone, discepolo di Seneca, tre­mò e pianse quando dovette firmare la prima sentenza di morte! Divenne in seguito il più crudele di tutti i tiranni. Come avvenne tale metamorfosi? Ne fu causa la perversita de' ministri. Cosa volete? Quando a Nerone venne posto in capo che tutti volevano ammazzarlo, egli si decise a fare piuttosto ammazzar tutti, facendo dar fuoco fino alla stessa città di Roma! Conosco tanti delitti im­possibili ad essere immaginati nonché eseguiti, e quindi non provati. Pure sceneggiando la paura i misfatti ven­nero creduti ! ! !
In ragione diretta dunque che il magistrato di polizia ha più o meno fortuna di fare scoperte di misfatti contro lo stato, e la sicurezza della persona del Principe più di­venta sprezzatore delle leggi che hanno rapporto con la sicurezza individuale de' cittadini, diventa più vessatore, dispotico, tiranno. La scappata di lui non può essere più sicura; avvegnaché dice: cosa volete che io vi arresti il regicida quando ha ferito di già il monarca?] Che mandi in bando il demagogo quando è venuto a capo del suo scopo? Convien prevenire. Ed a una tale risposta, in un secolo di tristi, nel quale tutti vogliono o per dritto o per rovescio diventare Re di fatto, non ci è che rispondere. Locchè sempre meglio confermerà ciò che dicea che que­sti, come tutti i mali civili che le popolazioni soffrono, e di cui vengono a parteciparne ancora gl'innocenti, e i ga­lantuomini non hanno altra sorgente, che i maledetti falsi liberali. Cosa pretendere che un Sovrano si ponga al ri­schio di rimanere trafitto come tanti, piuttosto che im­pedire che venga senza ragione vessato Tizio, o Frullano. Ridicola sarebbe una tale pretensione ancora in una po­tente persona privata.
Questa magistratura dovrebbe per sistema cadere nelle mani di soggetti, i quali ad acutezza di talenti ad un colpo d'occhio fino, al coraggio, all'energia unissero una probità esemplare, ed un fondo solido di religione. Quanto però sia facile trovare in questi tempi tali uomini ogni persona esperta che conosca il mondo si trova al caso di giudi­carlo.
In conseguenza di ciò l'esperienza dimostra che le poli­zie più vessatorie, prepotenti, tiranniche sono le rivolu­zionarie. Non esiste quindi magistrato di polizia più tristo di quello che fu demagogo, ovvero membro di quell'ipo­crita birbaglia che proclama la libertà, l'eguaglianza, la felicità e i diritti involabili dell'uomo. E invero essendo la mercanzia di tale magistratura i delitti, le congiure, i misfatti, quando questi non esistono, la polizia li fa na­scere, li promuove, li suscita alfine di rendersi impor­tante. In questo genere si distinguea in Napoli nel decen­nio la polizia francese; e fra tutti Saliceti. Mille congiure vennero promosse da lui, e per trovarne poi gli autori, per dimostrarne legalmente la verità non si badava a mez­zi. La seduzione, i falsi testimoni, i tormenti più atroci per la polizia rivoluzionaria sono bagattelle. Quindi è che mentre i filosofi ciarlatani declamano contro la tortura ed altre vecchie usanze degli antichi nostri tribunali cri­minali, essi poi, usurpato che abbiano il potere, cadono ripetutamente le mille volte ne' più atroci abusi: sia esempio dimostrativo il processo di Mosca, del quale ten­go ragionamento. Il Mosca non ebbe altro oggetto che quello di andare a rubare quindici milioni di ducati, che diceva il medesimo essere stati seppelliti in un certo luo­go di Positano. Nessuno immaginò giammai l'assassinio di Giuseppe Napoleone, per quanto almeno io sappia. Né era vi ragion sufficiente di tentarlo, ancora che la mo­rale dell'immortale Maria Carolina, la mia e quella ancora dello stupido Agostino Mosca stata fosse quella di Maz-zini, della Cecilia e di tutta la giovane Italia. Impercioc­ché quali felici risultamenti poteano sperarsi dalla morte di Giuseppe Bonaparte? Tolto di mezzo l'uno non sarebbe mancato l'altro ad essere sostituito dal tiranno Napo­leone. Dunque dovendo in Napoli esserci un usurpatore, era quello che più conveniva alla causa della legittimità. Poltrone com'era, e generalmente esecrato e disprezzato, era più facile cacciarlo in uno di quei tanti rincontri che sono tanto facili ad accadere agli usurpatori. Saliceti però per farsi merito con Napoleone e con Giuseppe dovea e credeva far supporre avere scoperta una gran congiura contro la vita di lui. Tanto bastò per dare all'invenzione la tinta di verità presso gl'imbecilli, e lordare di sangue tanti patiboli ! !
Tutti i più celebri processi fatti nel decennio in Napoli dalla polizia francese sono una dimostrazione di quanto asserisco. Il più falso di tutti ed illegalissimo fu quello fatto in occasione della esplosione della casa di Saliceti. Protagonista di quella catastrofe venne portato un certo don Pasquale Biscardi. Non occorre rammentare che io dovessi essere dichiarato l'agente primario e il mandante. Pure don Pasquale Biscardi non si mosse da Palermo giammai; ed io lasciai sempre a falsi liberali la tattica del­l'assassinio nella guerra. Venne benissimo assassinato Sa­liceti con un veleno. Ma fu un legittimista forse quello che glielo propinò? Fu invece un antico R.P. della Pa­tria, ch'egli medesimo il Saliceti aveva sollevato dalla classe de' sicarii, cui prima appartenea.
(6) II liberalismo mi ha combattuto sempre, vinto però giammai. Abbenchè contro me pugnassero i settarii di tut­te le specie; i liberali veri e falsi, i diplomatici senza prin­cipii e del giusto mezzo; gl'invidiosi, gli orgogliosi, senza sapienza ec. ec. Pure quello che si chiama vincere, il gu­sto di vedermi oppresso e taciturno non l'ebbe, per grazia di Dio, alcuno giammai principiando da Napoleone che con folle orgoglio facea chiamarsi onnipotente Qui vicìt dicea difatti Publio Siro, sane victor non est nisi victus fateatur.
La guerra mi venne spiegata contro fino dal 1799. In quell'epoca difatti essendo io passato dalla vita privata tutta dedita all'ozio letterario, alla vita pubblica, essen­domi fatto conoscere come tenacemente attaccato alla cau­sa della religione e della legittima monarchia, la settaria canaglia mirando forse in me qualche talento ed energia, tremò che io mi fossi potuto accostare al Re mio Signore. Ecco perché l'energia spiegata da me, e quei compagni di due magistrati di città (ordinario, e straordinario) nel so­stenere quei dritti della nazione che erano dal Re stati giurati, venne rappresentata alla corte come un atto d'in­subordinazione verso il vicario generale don Francesco Pignatelli di Strongoli. Forse diedero ancora ad intendere (come dice il Colletta) che realmente io trasmutare vo­lessi in aristocratico il monarchico reggimento. Il peccato però (come ho tante volte dimostrato) era impossibile; ma quando mai i somari sanno tali cose distinguere, mentre tampoco abili sono discernere le cose più materiali, come sovente avviene tra quasi tutti gli uomini di corte !! Essi però non mi vinsero. Non mai con maggior fervore declamai contro l'ingiustizia di quelli scellerati uomini da remo più che da toga, non mai scrissi con più fermezza e coraggio le mie difese. Molti di quei giudici impallidivano nel vedermi, molti uomini di corte si anda­vano a rinchiudere, quando veniva in qualche società an-nunziato il mio nome. Ciò che scrivo è notorio nel mio pae­se, e gli uomini della mia età assai bene lo rammenteranno. Le ingiustizie sofferte nel 1799 fecero lusingare il libe­ralismo vero, tanto che falso, che io per privata vendetta abbandonata avrei la buona causa per seguire quella della rivoluzione. Reduce da Trapani, venni tentato da veri, come da falsi liberali. I primi lo fecero con la prudenza del serpente, i secondi da asini com'erano, sono, e sem­pre saranno. A' liberali veri rispondea con cortesia, e loro dicea che, subito che mi avessero convinto essere in er­rore, e che il cangiamento del governo monarchico in de­mocratico fosse meno nocevole per gli uomini, io avrei seguito il partito di loro. Discettai con molti, disputai con pochi; nessuno arrivò a convincermi; anzi tre (libe­rali di buona fede) divennero invece filomonarchici, essi avendo io per l'opposto convinti. Che dirò di coloro che nominai sempre canaglia? Essi cercavano più sedurmi che convincermi, più irritarmi che persuadermi. Il farmi reg­gente di Vicaria, generale, ministro erano i loro argo­menti. Il commuovermi ad ira, il riscaldare il mio sde­gno, l'accendere il mio risentimento per le gravi ingiu­stizie ricevute dalla Giunta di Stato (da Maria Carolina medesima le mille volte confessate nel decennio in Si­cilia) erano i grandi sillogismi della sovrana liberalesca canaglia onde persuadermi. A' primi, che cercavano con­vincermi colle seduzioni degli ascensi dava loro del vile per il capo; mentre facea zittire i secondi colla stessa ri­sposta data al generai Mina, distinguendo cioè la qualità di legittimo dall'uomo, come anziché incolparne il sovra­no uomo, ne facea cadere il carico sopra quei micchi in abito gallonato, che si chiamano ministri; a' quali (quan­do sono falsi liberali mascherati da uomini regii) applico loro la stessa panacea di canaglia.
Non rimasero convinti i RR. PP. Partenopei del ve­race mio attaccamento alla causa della religione e della monarchia. Ciò non deve sorprendere. Conciossiachè, sic­come ciascuno misura gli altri col proprio palmo; così incapaci essi di talune azioni, incapaci ancora ne credono gli altri. Rimasero però tutti sorpresi nel vedermi obbe­diente cecamente ai cenni della immortale Maria Caro­lina, che pel signor Marchese di Circello, m'invitava per­der tutto ciò che di più caro avea in questa terra, per seguire i Reali infanti in Sicilia.
Ed eccomi dunque perseguitato ancora in Sicilia a fron­te della decisa virile protezione della grande Maria Caro­lina. Siccome però quella eroica Regina avea talenti su­periori a molti uomini, siccome quella donna eccelsa non aveva il vizio di voler parlare sempre lei, così l'impres­sioni fatte contro me da cortegiani (di cui non parlava punto l'asino di Colletta) svanì al primo abboccamento ch'ebbe meco in Palermo. Io gli dimostrai tutto l'oggetto della persecuzione, gli feci conoscere l'indole delle per­sone. Passai a dimostrargli che tutto avea sorgente dalla cabala rivoluzionaria di Napoli, che avea le sue ramifica­zioni e rapporti colla Sicilia. Io ne avea fin d'allora fon­dati sospetti, in seguito però venne in Napoli notoria­mente conosciuto, che Gioacchino Murat pagava mensual-mente 48 mila ducati a quelli traditori che circondavano il trono dell'ottimo Re Ferdinando!! Né opinò temeraria­mente colui che, quando seguì la catastrofe lagrimevole dello sventurato Murat, disse, che que' 48 mila ducati che pagava in Sicilia erano stati la vera causa dell'infame trama che venne a lui tesa onde togliere dalla terra un testimonio che troppo facea vergogna a perversi traditori.
Ecco di quale pasta sono i miei avversarii!! Ecco quali persone arrivano a sedurre i migliori Sovrani, e procu­rano respingere gli uomini di onore e di fede a' quali Iddio in premio ha fatto acquistare una riputazione eroi­ca! Ecco una menoma parte di ciò che (ben sapendo, e ben potendo dimostrare) io scrivo. Ecco ciò di cui devono tremare molti; e coloro che meno credono conoscere i gravissimi e vilissimi di loro peccati. Pure questa gente abietta, tutti misurando col proprio palmo, suppone vincermi colle traversie, crede spaventarmi colle prepotenze che mi fa soffrire da migliori ingannati monarchi! Imbe­cilli! Ma chi non ha temuto Napoleone, al fronte di cui è stato per tre anni di seguito con una taglia di 25 mila ducati, può mai aver timore di gente, che servendo il Re Ferdinando, prendeva soldo mensuale dal nemico di­retto di lui Gioacchino Murat e che poi assassinarono, onde al cospetto del pubblico tanta turpitudine non ve­nisse palesata? E chi per tre giorni in Palermo rimase digiuno (quando promossero gl'inglesi la ribellione in Sicilia); ma può rimanere avvilito dalle trame de' rivolu­zionarii colui che a poco a poco vengono a fargli perdere ogni sostentamento? Se io mi contentava morire di fame in Sicilia piuttosto che mancare alla fede data e ritornar­mene in Napoli, come tanti fecero (e generoso e magnani­mo Murat me ne avea con sue promesse aperto il varco); rimarrà avvilito dalle minaccie di uomini da nulla, e fino da capillari musici imberbi! ! Chi nato con vistosa rendita, e dopo avere coperto tante cariche, si trova mendico, può temere il confronto di coloro che, nati poveri, hanno co-gl'impieghi fatta una fortuna colossale!! No, la strada per essi è sbagliata. Il palmo di loro non è quello col quale dev'essere misurato: né perché il piombo viene liquefatto da un calore anche leggiero, presumere perciò deve l'im­becille che in un forno ardente verrà liquefatto ancora l'argilla! Sia ancora questo salutare avvertimento ai padri delle patrie reverendi, tanto che reverendissimi. Io non sono l'uomo da rimanere spaventato dalle calunnie, dalle trame, dagl'intrighi di loro. Rimarrò le mille volte ferito dal numero esorbitante, eccessivo, influente, non mi vin­ceranno però, colla grazia di Dio, giammai. Il rossore di loro e gli gemiti mi serviranno da balsamo salutare. Leso doloris remedium est inimici dolor. Anche asini che siano mi comprenderanno.
Ritornando a bomba dovrei parlare de' travagli datimi dal falso liberalismo tanto nel 1816 in Napoli, quanto nel 1821; come di quello che soffrii in Toscana nel 1830, non che di altre peripezie successive. De' primi controtempi parlai e scrissi però abbastanza nei Piffari di montagna, come nei Piccoli Piffari onde non ripetere le stesse cose
colla noia de' leggitori. Delle altre peripezie poi tratterò quando farò suonare tutta l'orchestra nelle diverse mie opere inedite. Per ora un residuo di ben dovuta prudenza, rispetto, gratitudine ed altri effetti (non mai paura) non permette alla penna scorrere di vantaggio.
(7) Fino dai primi miei più verdi anni venni tentato dai Massoni per entrare nella di loro società, e fino dal principio elusi le tentazioni di loro. Una educazione tutta cristiana, datami dal mio buon genitore m'ispirò orrore contro una società ch'era stata fulminata da tanti Romani Sommi Pontefici. In seguito non venni tentato giammai per associazioni segrete; sibbene per decidermi per le false dottrine di moda. Ancoraché fossi stato ignorante al segno da non conoscere tutta la follia delle nuove dottri­ne (che non il pubblico bene riguardavano, sibbene un vero monopolio tendente all'egoismo) pure, siccome le prime più aperte tentazioni mi vennero fatte quando io serviva il Re, e comandava le Isole del Regno, così qua­lunque fossero state le mie cognizioni politiche, trattan­dosi di un puro vilissimo tradimento, non poteano esse sedurmi senza avere un cuore senza onore ed essere vero scellerato.
Siccome non soffrii giammai l'infermità della paura, nel rispondere colle stampe a Cristofaro Saliceti nell'opera di sopra annunciata così scrivea parlando delle seduzioni e tentativi replicati fatti dal falso liberalismo per avermi nel di loro partito. — Dalle carceri stesse della Vicaria, ov'erano i più famosi settari rinchiusi, fu spedito a Canosa un avvocato criminale il quale dovea colla sofi-« stica di lui eloquenza sedurlo. Tanto avvenne, ma non ritrovò costui in Canosa un uomo facile a cedere il « proprio dovere all'impeto delle private passioni, e non solo, rigettate le offerte, mandò via in buon ora il criminoso ambasciatore; ma bensì senza nominare il soggetto, tenne avvertita la Polizia acciò vegliato meglio avesse sulle procedure de' detenuti nella Vicaria, luogo « dal quale era stata spedita la turpe ambasceria... — qualche partitante del nemico cercò di sedurlo (Canosa) « infino nel momento che era egli accinto per partire (per le Calabrie co' reali Infanti). Mille lusinghe, mille pro-« messe si fecero nella seduzione sceneggiare, e se gli « disse perfino, che gli francesi stabilito avevano sostituir-« lo nella carica del signor Duca d'Ascoli che seguito « avrebbe la Corte. Ad invito così vile rispose Canosa al « seduttore con quelle parole usate da Cicerone quando veniva ripreso di non aver badato alla sua fortuna, se-« guendo il disperato partito di Pompeo. — pudori tamen maini bonaeque jamae servire, quam salutis mea rationem ducere... Antepose dunque egli non solo ad una « ignominiosa fortuna, ma benanche alla patria, ai comodi, e tenerezze patrie e domestiche, l'esercizio de' suoi « doveri. Seguì dunque i Reali Principi nell'infelice campagna, ove si condusse in quel modo ch'è analogo ad « ogni onest'uomo. Arrivato in Sicilia ebbe qualche altro incarico da' suoi sovrani che cercò disimpegnare con « quanta debolezza le di lui forze il comportarono. Il ministro Saliceti, o che fusse perfettamente all'oscuro del modo di pensare di Canosa, oppure non diversamente da un itterico che mira tutto d'intorno rivestito di quel giallo che gl'ingombra le pupille, credè Canosa uomo capace di cedere agli inviti della vile di lui seduzione. Tanto tentò, né arrossì di scegliere il mezzo del  vecchio onorato di lui genitore, che malmenò, e della saggia marescialla Minutolo D. Metilde Galvez cognata « dello stesso. Canosa ricevè tali notizie con tutto quel « disprezzo di cui sono degni nemici capaci di fare tali « proposte, né si credè virtuoso pel ributtare partiti e « proposizioni, che credute a tutto senno si sarebbero « infami dall'ultimo tra gli onesti viventi. —
Partito da Napoli nel 1815 (supponendo sempre che facessi giuocare nella politica in generale le mie private passioni) venni tentato in Livorno tanto che in Lucca. In Livorno cercava catechizzarmi un liberale onesto; in Luc­ca il seduttore o era un falso liberale, che apparteneva alla sovrana liberalesca canaglia, ovvero doveva essere un soprafino esploratore di qualche corte straniera. Principiò di fatti dall'adularmi, e promettermi le prime cariche del­la repubblica immaginaria di Piatone, dopo aver cacciato i lupi (solito di loro frasario obbligato) dagli Appennini.
Crebbero a dismisura (anche per epistolas) le seduzio­ni dopo l'inconcepibile aneddoto del 1822, quando cioè (sembra incredibile, che o direttamente, o indirettamente avevano fatta, o fatta fare la ribellione del 1820) in Na­poli ritornaron coloro, mentre venne cacciato dalla pro­pria patria colui che l'aveva cinque anni prima che avve­nisse preveduta; e colui che non l'avrebbe sicuramente fatta scoppiare se rimasto fosse nella carica di ministro della polizia!!!
I liberali veri e falsi, gli uomini virtuosi tanto che malvagi, i giacobini, tutti insomma nel 1822 tenevano per fermo che scappatami alla fine la pazienza, mi avesse la più giusta indignazione fatto girare il cervello. Lo temè ancora l'ottimo soverchiato buon re Ferdinando, e men­tre da lui prendeva commiato, mi manifestò colle lagrime agli occhi, sospetti, che il reale cuore di lui avvelenavano. E in vero forti tentazioni in quel rincontro soffrii. Alle interne tentazioni si unirono l'esterne. Tutti nel fuoco soffiavano difatti i nemici della buona causa.
Iddio però non volle. A nessun mio merito attribuisco la vittoria conseguita; avvegnaché le seduzioni e gl'inci­tamenti de' nemici della monarchia divennero causa di farmi aprire gli occhi. La mia caduta la riguardai come il maggior trionfo che avessi potuto dare alle sette, a quelle cioè dalle quali tutti i miei infortunii aveano avuto origine al solo fine di farmi disertare dallo stendardo della legittimità. Senza dunque ulteriormente dilungarmi, per ora non tratterò più minutamente la mia storia sopra un un tal particolare della vita mia politica. Aggiungerò so­lamente, che essendo tutto ciò di una superiorità maggio­re a molti notorii; tutto ciò che mi avrebbe far dovuto diventare l'idolo della legittimità, e quindi farmi riguar­dare, per grazia di Dio, il Duca d'Alba redivivo della buona causa è pur tanto inoltrato il contro senso del se­colo del progresso, che invece mi ha ciò recato un nota­bilissimo disappunto!
 (8) Chi conosce Napoli di que' tempi sa che il patrizia­to, come in quasi tutte le città d'Italia trovavasi in deca­denza per ciò che sia spirito nobile, generoso, intrepido. La polvere della corte, il continuo adulare, il temere sem­pre, avea ridotta la nobiltà e il baronaggio una classe di vigliacchi inutili a loro medesimi, al Re, alla monarchia. Esistevano una dozzina di reliquie, vecchi patrizii onora-tissimi, i quali aveano pochi ammiratori, nessun seguace.
Una classe abituata da lustri a temere, potea immagi­narsi che salvar potesse la nazione da quei malanni e sciagure che l'esperienza dimostrato avea compagni in­divisibili di quelle orde repubblicane, che sotto l'impostu­ra dell'eguaglianza e della libertà, dietro tutte le calamità ne trascinavano? I seggi dunque gareggiarono di zelo nella scelta degl'individui che elessero per magistrato di buon governo, o dell'interna tranquillità; e quando la storia, calmate le passioni, e scomparsi i partiti, scriverà quel pezzo di storia dolorosissima renderà piena giusti­zia a quei patrizii che vennero scelti per quel disimpegno scabroso e pericolosissimo. A riserva di una semplice fra­zione (che simpatizzava colle desolanti dottrine della mo­da) tutto il corpo di città come della magistratura di buon governo, mentre si dimostrarono al Re attaccatissimi ga-reggiaron nello zelo per salvare gl'interessi della popo­lazione.
Mi trovava allora io aver pubblicata per le stampe una opera contro il fiscale Vivenzio, altra averne scritta in opposizione del generale Acton, ed aver con un mio scrit­to difesa la famiglia del duca d'Andria da una ingiusta sentenza di confisca. Questo mio procedere franco, leale, intrepido, e veramente liberale, mi facea tenere nella opi­nione di uomo non facile farsene imporre dalla paura. Ecco la ragione che proposto nella riunione de' patrizii di Seggio Capuano dal duca di Castelluccia Caracciolo il mio nome, tutti i votanti si alzarono, e (con esempio tutto nuovo) venni approvato per acclamazione.
 (9) Non è possibile immaginare le tante diverse men­zogne e calunnie che i falsi liberali hanno inventato, e pubblicato contro me. L'oggetto è chiarissimo. Con tutte tali ciarle cercavano di screditarmi presso i Sovrani, af­finchè dato non mi avessero ascolto (attraverso delle tante verificate profezie), e presso il popolo, acciocché non prestasse fede a quanto loro diceva contro le mire di loro perverse fino al sagrilegio. Hanno agito sempre così per quanto non sia stato conosciuto da alcuno.
Asini però come sono i falsi liberali tali libelli scris­sero in modo, che riuscendo a me agevolissimo confutare le imputazioni che mi davano, anziché recar nocumento alla mia reputazione, di gran lunga presso il buon senso del pubblico lo accrebbero.
Scrissero fino cose impossibili a credersi come quelle che io era antropofago, mentre rubando i neonati de' li­berali, appena cotti nel forno, li divorava.  E giacché mi trovo a tener tale ragionamento voglio disingannare il pubblico da una falsa voce fatta spargere che la vita politica del cavalier de Medici sia opera della mia penna. Io narrerò la storia della pubblicazione del­l'opera suddetta colla consueta mia connaturale sincerità. Io ebbi questo manoscritto da un giureconsulto legittimi­sta e quindi mio amico. Mi pregò farlo imprimere, ed io lo compiacqui, attese le molte mie aderenze e rapporti. Feci ancora qualche annotazioncella, ove mi sembrò ave­re l'autore preso equivoco.
Sparsero intanto che l'opera ovvero la Vita di Medici era mia nel modo stesso che spacciarono mio essere quel Cenno biografico che comparve in Toscana. Che se io dimostrai mio non essere il Cenno Biografico, mia poi assolutamente essere non potea la vita.
È ben diverso aver gusto che sia una cosa fatta, o che sia accaduta, dall'averla fatta; cosi io sono stato {me pe­nilet se ho peccato) compiaciutissimo della morte di don Pedro, né io però l'ho perciò ammazzato; né lo avrei tampoco ucciso se il destro me ne fosse venuto; perché Iddio mi dice non occides.
Ma la vita politica del cavalier de Medici è agevolissi­mo di mostrare non poter essere opera mia. Imperciocché come mai potea io discorrere ex professo o male e bene in materia di finanze (secondo la moda) quando ignoro fino i termini e tutto ciò che ci è di novità in questo ge­nere. Ignoro fino cosa sia tallone credito fluttuante ec.
Non ci è un argomento forse di gran lunga maggiore per dimostrare quanto asserisco:   Io, per grazia di Dio, non ho calunniato tampoco i miei calunniatori stessi giam­mai, come sono stato negato (per principio di religione) a qualsivoglia assassinio sia ancora trattandosi delle per­sone le più inique? Ora se io fossi stato l'autore di quella vita avrei calunniato il signor commendatore don Pro­spero Villa Rosa. Ma io non che di lui ho avuto sempre un'ottima opinione ma dell'intera famiglia del medesimo; principiando da più remoti ascendenti religiosi tutti dot­tissimi, e quindi onorati fino allo scrupolo. Sono due di­fatti le famiglie di antichi servitori della nostra monar-chia da me state sempre rispettate fino alla venerazione, per le rare qualità che sino da tempi più remoti sono state adorne. La famiglia cioè de' Marchesi d'Andrea, e quella dei Marchesi di Villa Rosa. Io sono anzi convinto e persuaso che se al Commendatore Villa Rosa come al Marchese d'Andrea non che Medici, ma Napoleone in persona (che facea spiritare tutti) gli avesse comandato cosa inonesta, si sarebbero fatto le mille volte trucidare, ma non avrebbero obbedito; giacché gli individui delle due famiglie accennate (ce ne saranno cento altre, ma che io non conosco) sanno che l'onore è qualche cosa superiore alla vita; e che devesi obbedire prima a Dio indi agli uomini. Queste quattro parole sincereranno tutti sopra un tal particolare, e rileveranno essere questa una delle tante spiritose invenzioni della sovrana liberalesca birbaglia, la quale tutte le studia per raddoppiarmi contro il numero de' nemici e per farmi tenere in tasca dalle persone one­ste. Or fino che queste persone sono gente come essi so­no, a me non importa uno zero del buono o cattivo con­cetto in cui possono avermi. Uomini però come le nobili famiglie de' Marchesi di Andrea e Villa Rosa bramo che mi riguardino come un galantuomo.
(10) Per quanto il vero liberale, come lo era Milziade, Temistocle, Curio, Muzio Scevola ec. può esser benissimo coraggioso fino all'eroismo, pertanto non possono esserlo i falsi liberali de' nostri giorni. La dimostrazione è sem­plicissima ed adattata all'intelletto volgare meno eserci­tato, ed istruito. Imperciocché quale oggetto aveano i
mira i liberali antichi? Il bene pubblico e la carità della patria. Cosa si propongono i falsi liberali moderni? Solo il privato profitto. Qual'è il segreto più alto ed impene-netrabile della giovane Italia, e di tutte le sette proscrit­te? Le donne, il danaro, gl'impieghi degli altri, e l'usur­pare il potere per tiranneggiare i suoi simili.
Ora in ultima analisi cosa scorge il filosofo da un tale segreto (ora reso notorio) delle sette? Che tutto si va a ridurre al ventre, per cui malamente io non m'opposi, quando rispondea che se io pensava col ventre, pel ven­tre essi pensavano. Il signor avvocato senza clienti vuo­le una tavola bandita (non i fagiuoli del dittatore roma­no in ritiro) vuole la Sciampagna, il Bordò alla mensa. Come si fa senza clienti da assassinare? Finge ardere di carità di patria; cerca impicciarsi colle sette proscrit­te; congiura, seduce e cerca far esporre l'incauta gio­ventù, che ha affascinato, e senza esporsi a soffrire un solo raffreddore, se il potere legittimo arriva ad andare disotto, esso acchiappa lo scettro, e sotto i modesti ti­toli di dittatore, di presidente, di console assassina le anime ancora del purgatorio, e tiranneggia i suoi simili.
Siamo giusti. Quale è la vera meta dunque de' reve­rendissimi padri della patria, che minchionano, e fanno massacrare i padri giovani, i novizii, e i conversi del convento? Il fine vero è quello di nudrire il ventre co­me Lucullo lo carezzava cenando in Apolline. Fin qua non nasce dubbio.
Ma chi vuoi poi tanto bene al suo ventre, fino a non curarsi tutto vada a diavolo per satollare il ventre; sarà poi corbello tanto da farselo traforare? Si può dare ad intendere; lo può anche credere lo studente di Pisa, o di Pavia; ma un furfantone come me, che non ha stu­diato la logica dell'Abate Genovesi o del Padre Soave; ma che invece ha passato le notti impallidendo sopra Aristotele e san Tommaso ingoierà questa pillola più grossa della palla della cuppola di san Pietro?! No si­curamente. Al signor avvocato senza cause, che gli viene a piantare consimile carota, gli fa una risata sul mustaccio, e nel caso non se ne vada con Dio, da di piglio al bastone. Chi pensa per il ventre, non espone il ventre.
Ora, siccome fino da giovinotto sono io stato sempre logico e ragionatore, così, prima che i fatti resi si fos­sero garanti pella morale de' falsi liberali, li ho tenuti sempre per canaglia, e canaglia vilissima. — « Or perché, io dicea fino dal 1799, il signor dottor Sempronio, il « quale è un falsario, un truffatore, un tristo, deve poi « nudrire nel cuore tanta virtù da tutto, e se medesimo « sagrificare per madama patria, la quale poi è vecchia « ed invisibile? Gatto dunque ci cova » — (dicea tra me medesimo): E il gatto difatti ci covava benissimo. Gli altri supponevano che fossero tanti eroi, ed invece era­no tanti ladri, impudici, furfanti, pochissimi eccettuati utopisti di buona fede, ma veri fanatici.
Ora siccome io {pensando sempre col ventre) conoscea sino dal 1799 che i reverendi padri della patria pensavano per  il ventre, così li tenni sempre per codar­di; e difatto lo erano. E siccome io spadaccino e munisco (come dicono nel mio paese) aveva spesso fatto paura a molti Rodomonti, così mi prevalsi della opinione acqui­stata per fracassare le molte volte il muso dei reverendi padri della patria.
Mi rammento che una volta (prima di esser posto prigione in sant'Elmo per zelante partigiano del Re mio Signore, e del popolo, che l'asino del Colletta interpreta per aristocratico) mi rammento dunque che una volta mirando io un gruppo di reverendi padri per la strada, dei quali uno mi salutò; io dissi loro: morrà di citta-dirà... addio. Ora convien sapere che in Napoli cittadi­no si chiama ancora il porco grasso di Sorrento. Al sen­tirsi dunque dare del porco nel grugno quei Catoni e Cincinnati da bordello, ingrottarono le ciglia. Uno di essi volea lanciarsi contro me. Venne tirato per l'abito, e gli venne ad auras detto dagli altri Furii, Camilli e Scipioni, che gli sarebbe costata cara misurandosi con quello schiavo del dispotismo!
Ma quante ne potrei raccontare di tali avventure ac­cadute tra me, e gli eroi della democrazia (veramente gloriosa) Partenopea prima di essere arrestato! Mi ven­nero a porre in arresto, appena partito il generale Championet (che poi non era un briccone come tant'altri);
ma sapete in quale e quanto numero vennero a pren­dermi?! Con cinquecento guardie civiche scelte!! Na­poli non sapea che diamine fosse, o di che si trattasse! Cinquecento guardie civiche per condurre un uomo so­lo!!! Gran marmotte in verità sono i nostri falsi li­berali!
Chiuso in sant'Elmo non mi feci tampoco sopraffare. Vive ancora in Napoli, e viva per altri cento lustri; una persona che pranzava meco un giorno nella carcere del castello, come desinava meco il principe di Acquaviva Mari; il consigliere D. Giovanni Battista Vecchioni, il tenente d'artiglieria De-Curtis (tutti onorati col titolo di briganti e perciò imprigionati dalla Vergine Repub­blica Partenopea). Pranzava ancora con noi il capitano di guardia del Castello signor Garze francese galantuo-missimo, che quanto me conosceva la furfanteria ed im­postura dei suoi commilitoni. Due capitani della guar­dia civica Partenopea passavano e ripassavano avanti il mio carabozzo sogghignando. E siccome il luogo e '1 tempo, imponea una certa prudenza; cosi simulava io di nulla avvedermi. Ciò rese coraggiosi i vili. La prudenza l'interpretano sempre per timore, e la generosità (come abbiamo le mille volte osservato dopo la restaurazione) per vigliaccheria. Or dunque i due capitani, resi corag­giosi dalla mia prudenza, principiarono a motteggiare ed insuìtare. Uno dei commensali, che vive, mi apostro­fò conoscendo non essere io animale di sangue frigido. Allora io rivolto al soggetto dissi: ma non vedete, che pranziamo col capitano di guardia! Allora il bravo Gar­ze rispose: figuratevi che non ci fossi. Farò breve il di­scorso, che fatto con tutte le circostanze annoierebbe troppo. Presi il bastone della scopa che si trovava nella mia camera, e con un viso (che mi dissero) da far spi­ritare Muzio Scevola, mi presentai in faccia ai due ca­pitani eroi del Sebeto, che avevano due gran sciabole; una ereditata da Sandarebecco, e l'altra dal celebre cor­saro Barbarossa. Nel solo vedermi andare verso di loro i due eroi si posero a fuggire. Or sapete come andò a terminare la faccenda? Che il capitano Garze, stomacato da tanta poltroneria, chiamò all'arme e fece cacciare i due capitani a culacciate e calci di fucile dalla guardia francese.
Ecco i nostri reverendi padri delle patrie come tutti coloro, che pensano per il ventre. Essi per non esporlo ad essere forato fuggono come lepri pedes arma lepro-rum disse Callimaco.
Altri aneddoti consimili ancora mi accaddero in san­t'Elmo, ed anche dopo. Vecchio come ora mi trovo, quando si tratta di mischia co' padri della patria, diven­to subito di trent'anni. Tutto il mondo conosce quando per ben due volte passai e ripassai per quella Bologna che mi volea come rappresaglia dell'eroe Ciro Menotti. Ancora fuori le porte della città di Faenza ci fu un altro aneddoto, che non troppo onorò il valore repubblicano. In somma siccome sono io uomo di teorie, e conosco in conseguenza che la quantità non altera la qualità; ancora cento reverendi padri della patria (lasciamo da parte i veri liberali, come i militari di professione) de­vono essere codardi, per cui li affronterei intrepido, per la gran ragione che devono tenere tutti e cento di conto del ventre, per cui travagliano, pensano, ragionano e corbellano gli studenti colla libertà, l'eguaglianza, la co­stituzione, e il fistolo che loro si attacchi in eterno; ma tutto ciò sempre e solo per il ventre!!
(11) Se altro argomento non vi fosse onde rimanere convinta la posterità del grande retrocedere fatto dagli uomini nelle scienze morali dalla metà del secolo scorso a questa parte, vi sarebbe grandissimo per contestare questa fatale verità, il sistema adottato da' politici del­l'amalgama dopo la restaurazione. Non volendo ammet­tere mala fede (che non deve concepirsi) non ha nessuno argomento la politica amalgamatrice per difendere in­nanzi alla posterità il bislacco suo sistema di premiare i settarii, i malvagi, i ribelli, i regicidii, e trascurare, e mirare con aria di disprezzo anche gli eroi di onore, di fedeltà, gli uomini, che i più grandi sagrificii fecero per la causa dell'altare e della legittimità!
E sì che massimo fu il premio dato a' felloni, e per­versi  cittadini  quello  di  lasciarli  nel  pacifico  possessi
di que' beni, di quegli onori, di quelle cariche e for­tuna che, invece di doversi considerare come un frutto legittimo di meriti acquistati, e di virtù spiegata in van­taggio della patria ed in servizio del pubblico, non fu quella fortuna che il prezzo vile de' più vili misfatti, e fino al regicidio.
E siccome tanti e tanti politici in una guisa tanto strana opinarono e pensano tuttora, impazzendo più volte, nonché riflettendo profondamente alfine di rinve­nire la causa che a tale tutta nuova condotta avesse po­tuto spingerli, altro non ricavai dalle mie più profonde e prolungate meditazioni che ciò che gl'Inglesi chiama­vano (come un padre della patria testé m'insegnava) non senso. E invero se teoricamente ragionando è in­concepibile che possa divenire utile una politica, la quale in perfetta opposizione della giustizia di Dio, pre­mia i malvagi, ed i buoni percuote, respinge, disprez­za; tampoco nella storia e nella pratica della vita uma­na ragione può mai rinvenirsi per difendere teorema eti­co-politico sì assurdo; o pure trovare ragioni onde per­suadere almeno il volgo, che un tale procedere contro l'ordine morale un momentaneo vantaggio potesse pro­durre, come in tanti misfatti avviene e delitti.
Tale travagliante assurdità religiosa, etica e politica, che renderà i nostri uomini di stato l'ignominia e il di­sprezzo della posterità, non solo ha fatto perdere il ben dovuto orrore, in cui gli uomini tener devono il gravis­simo misfatto della fellonia; nonché confondere nella mente del popolo l'idea della virtù con quella del vi­zio, e del delitto; cancellò in gran parte della moltitu­dine i sentimenti dell'attaccamento verso le potestà le­gittime, corruppe in gran parte la classe numerosissima di coloro che hanno sempre fatto fronte alla rivoluzione, e terminò di demoralizzare il popolo.
Per guadagnare che cosa dall'altro lato, tante ferite fecero i politici alla giustizia commutativa e distribu­tiva? Tutti i fatti ed ogni esperienza ha dimostrato che anziché guadagnare dalla parte di coloro che vennero largamente premiati in luogo di essere (come meritava­no) puniti, essi divennero tanto peggiori di quello che erano, in quanto il contegno tenuto da politici li rese più audaci. Imperciocché siccome gli uomini perversi non possono in altri supporre quelle virtù che essi igno­rano, perciò quanto loro venne perdonato e concesso, anziché crederlo un effetto di magnanimità ed animo ebbro di misericordia, lo riguardarono invece come un effetto di timore, mentre taluni passarono a persuadersi che ciò che fecero erano in diritto di poterlo fare, dalla quale considerazione esser nata la grande inconcepibile indulgenza.
Il danno recato alla legittimità da un tale massimo er­rore politico meglio che da noi sarà conosciuto e dimo­strato da nostri posteri, che ne osserveranno tutti gl'in­fausti risultamenti. Un cardinale degnissimo, dotto e politico un giorno mi dicea essere stato questo il capo d'opera della malizia del frammassonismo per ingannare e quindi perdere in pochi lustri ogni legittimità. Guai alla politica che si fonda sulla simulazione. Peggio quando tale simulazione va innanzi in un modo da essere cono­sciuta. L'ottimo re Ferdinando IV giusto per carattere non seppe cosa fare del suo esercito in conseguenza della politica falsa de' suoi ministri scimiottatori per sistema degli stranieri. Voglio servirmi delle parole dello stesso mio avversario per convalidare la mia tesi.  — L'avversione tra le due parti dell'esercito semprepiù cresceva, « stando per i così detti murattisti la politica del governo, amati gli uni, e non pregiati, accarezzati gli altri ed aborriti, quel doppio infingimento mal si  velava (a) (a) hoc. cit. lib. Vili § XXIV.

(12) II secolo in cui viviamo non è sicuramente quel­lo degli eroi. Coloro che calzano in questi tempi il co­turno, cinquanta soli anni indietro tutto il mondo non li avrebbe creduti degni tampoco del socco. Così moltis­simi che la riputazione hanno usurpato di filosofi, diplo­matici e dotti, pochi soli lustri indietro, avrebbero mos­se le risa in quelli pretesi oscuranti che nelle scienze morali, nelle lettere e gravita e severità di costumi le mille volte più ne sapeano che gli uomini sdulcignati e noiosi del progresso. Che se gli uomini del secolo an­cora della virtù civile, ebbero sempre (come uomini im­perfetti sempre dopo l'originale caduta) le loro pecche, difetti e mancamenti, così cosa si deve credere degli uomini del progresso, che alla educazione rivoluzionaria ricevuta, alla ignoranza delle scienze morali, uniscono l'essere abituati alla vista de' scandali ed esempii sto­machevoli non veduti forse giammai in altre età tra le civilizzate nazioni?
Ecco che la storia de' nostri tempi, quando scritta ve­nisse da uomo saggio, morale religioso, da uomo insom­ma diverso dal nostro Colletta, come da quelli che scri­vono la storia per uccidere la verità, cosa diverrebbe altro che una continuata satira giustissima sopra tutti, e sopra le persone le più eminenti, che il volgo riguarda come altrettanti numi!
Gli uomini del secolo nostro corrottissimo si dividono tutti in ingannatori ed ingannati. E siccome gl'inganna­tori per cauti esser possano, sono sempre nel fondato sospetto essere conosciuti dai pochi, e svelati da questi ai molti, così quando non si trovano mille favorevoli circostanze di comprare penne venali, che inargentando le loro sozzure, vestono Irò cogli abiti di Ulisse, per continuare l'inganno nella plebe; sono nella precisa ne­cessità fingere, farla da filosofi simulando disprezzare que' saggi satirici, i quali danno al pubblico in mostra i gra­vissimi di loro mancamenti. Così il poltrone disfidato a duello, nasconde la sua vigliaccheria sovente nel non ac­cettarlo, dicendo: non venire al cimento per rispetto de' canoni di quella santissima Religione, che poi in tutto il rimanente disprezza. Come potrebbero difatti risponde­re certi uni a delitti ed anche pubblici gravissimi misfat­ti commessi? Ecco dunque la necessità della moda di disprezzare le cattive lingue, ne rispondere a coloro che, offesi, cantano loro colla penna le calende. Se possono opprimere utilmente e con sicurezza {l'utile et tutum di Epicuro) allora non mancano sicuramente al precetto dell'antico di loro maestro, in caso diverso ... Silenzio ... Filosofia!
Se ciò vale però per coloro, che trovandosi la coda di paglia, hanno sempre timore che gli venga attaccato il fuoco, non vale sicuramente per tutti quei galantuo­mini (come mi vanto di essere) i quali sono sicuri del fatto proprio; ed oltre ciò non gli pesa tanto in mano la penna per non saperlo al pubblico dimostrare, o pure in necessità andare da altri affinchè gli accomodi il ca­lamaio o gli temperi la penna. Fino che si può, si deve tacere; fino a che il calunniatore o mentitore asserisce cose inverisimili (come l'antropofagia attribuitami da taluni fogli rivoluzionarii), il silenzio è indicato. In caso diverso però si deve rispondere e specialmente quando uno si trova e si conosce in forze di far pagar caro al­l'ingiusto aggressore il suo ardimento.
Mi fecero conoscere in Genova un venerando robusto francescano che apparteneva al magnifico convento del­la santissima Annunziata. In tempo della famosa repub­blica Ligure, un reverendo padre della patria, in coe­renza della dottrina della libertà di opinioni, e della re­pubblicana tolleranza, principiò ad insultare in pubblica strada per mero repubblicano capriccio quel religioso. Fedele al suo istituto, ed alla cristiana umiltà soffriva pazientemente il frate gl'insulti del tristo. E siccome i codardi, anziché, come gli uomini generosi, sentirsi di­sarmare dalla pazienza e dall'umiltà, raddoppiano il loro orgoglio, credendo l'avversario pauroso, così quel bric­cone repubblicano raddoppiava le offese verso quel po­vero sacerdote, fino ad arrivare a percuoterlo in pubbli­co con un sonoro schiaffo. Avvampò d'ira il frate, tanto più perché conosceva possedere una forza d'Atleta. Nul-ladimeno vinse il suo impeto, e sommesso ed umile ri­voltava al birbante l'altra guancia; sulla quale il padre della patria Ligure scaricò un secondo schiaffo. Allora il frate perdendo i lumi della ragione agguantò il Catone redivivo e di piombo lo stramazzò per terra. Colà get­tatolo, principiò a fargli piovere indosso una tempesta di pugli, calci e schiaffi come la grandine cade nelle pro­celle di agosto. Allora il briccone in terra rovinato da quelle tempeste di botte (doverono portarlo disteso so­pra una carretta!) invocava la carità cristiana, il qual
pensiero disarmò alla fine l'ira dell'inviperito religioso, cui il popolo intorno, ridendo del caso, facea plauso. Un tal esempio fu l'acqua sul fuoco. I reverendi padri della patria desisterono dall'ingiuriare i poveri re­ligiosi.
C'è poi per me un'altra ragione per risponder sempre. Cosa pretende cotesta gente? Farmi perdere presso il popolo quella opinione che per grazia di Dio, mi sono formata presso il pubblico, in seguito del costante e non mai interrotto attaccamento verso la causa dell'altare e della legittimità. Tanto è ciò vero che hanno spiegato fino il disegno di loro, avvegnaché un tale del cattoli-cismo democratico scrivea che volea rompermi i piedi di creta (peggio per chi ne ha la testa), e fracassarmi non so qual talismano mi aveva veduto nelle mani. Guai al tacere. Nulla rende più orgogliosi i vili. Io dun­que nel rispondere con vivezza ed alacrità fo loro il male opposto, conciossiachè mentre confermo sempre più la mia opinione verso il popolo, fo sempre meglio cono­scere al popolo medesimo quale sorta di tristi è quella che li cerca sedurre acciocché tradiscano i loro doveri verso Dio e verso il sovrano dato loro da Dio medesi­mo. Ecco il carisismo Colletta è uscito in campo con questo cataplasma di storia, che sembra abbia scritto a bella posta per fare una tela di calunnie contro me, che nomina perciò ogni quattro linee. Quale oggetto potea avere quel Tucidide da trivio? Quello di rendermi abo­minevole presso il pubblico, e fare il panegirico alla causa della ribellione e brigantaggio. Se io l'avessi fatta da filosofo (e potea dispensarmi da questo travaglio av­vegnaché quasi a tutte le pecche mi trovo avere ante­cedentemente risposto); se avessi sì taciuto e disprezza­to, cosa ne sarebbe avvenuto? Che molti sarebbono ri­masti in dubbio; altri creduto mi avrebbero stanco da ricalcar l'arena. Ora rispondendo quali grandi vantaggi ha ricavato? Alle mie risposte non ci è replica. Colletta conosciuto da pochi per quel ribelle, spergiuro, ingrato al Re (vero birbo) com'era, sarà conosciuto da quanti leggeranno queste carte, e quindi la causa dell'infame, maledetta rivoluzione rimarrà sempre più screditata, e maggiormente inasprito l'animo de' buoni contro la so­vrana liberalesca canaglia.
I reverendi padri della patria che si sono incaricati dare alle stampe questo postumo giacobinico cerotto hanno creduto (ora che i fogli rivoluzionarii non più pipitano contro me) che trattandosi di un uomo morto, e di accuse fattemi altre mille volte, e da me confutate, non avessi rotto il silenzio. Conoscendo ancora che il cappellano maggiore e taluni reverendi padri barbare­schi, mi avevano dato per alta commissione qualche tra­vaglio, mi hanno creduto un poco smarizzato. Ancora la biada, ridotta oramai a minimi termini, facea loro sup­porre il mio cavallo meno del consueto generoso. Or tuttociò sarebbe andato benisimo in tutt'altro rincontro, ed il raziocinio de' reverendi padri editori di questo no­vello Flos sanctorum sarebbe stato regolare. Scommet­terei mille piastre contro cento che se mai avessero po­tuto supporre che io avrei risposto (e che risposta!!) non avrebbero cacciato fuori il giacobinico cerotto; essi però doveano supporlo che gli sarebbe venuta sopra questa tempesta di botte; avvegnaché trattandosi de' falsi liberali non mai posso essere smarizzato in modo da non avere forze tali da non potere o non sapere ri­spondere. Così è verissimo che il mio cavallo, ormai sen­za biada, principia a somigliare al ronzino di D. Quisciotte, ma essi doveano calcolare dall'altra parte che il mio debole cavallo non si doveva misurare con destrieri generosi, sibbene con asini come essi sono, e con un arciasino maligno com'era il reverendissimo padre Col­letta. Iniquae mentis asellus.
(13) Tengo del degnissimo ed onorato mio amico il defunto signor marchese di Circello un aneddoto trop­po notoriamente comune in Parigi; uno di quelli cioè che, più che per istoria, passano per tradizione alla po­sterità! In un crocchio diplomatico, che si teneva in Parigi nel tempo di Luigi XV in casa del suo primo mi­nistro (di cui non ben mi rammento il nome), si par­lava di abolire gli ordini tutti religiosi. Taluni sostene­vano essere i continui eccitatori della superstizione, altri che sarebbe comodissimo appropriarsi delle rendite di loro onde far fronte a' bisogni dello stato. Taluni più moderati, e meno sacrileghi invasori della proprietà al­trui e di quelle destinate al culto divino, opinavano do­versi fare una scelta; taluni ordini religiosi cioè soppri­mere, rubandone i beni, altri mantenerli, come alla so­cietà utilissimi.
Fra quei diplomatici poco rispettosi verso la proprietà in genere, e '1 divino culto in ispecie, eravene uno pro­testante; ma profondamente dotto; superiore quindi per­fettamente a tutti i pettegolezzi tanto filosofici (alla cui classe apparteneva il ministro francese) come alle crimi­nose astuzie della miscredenza, che erano allora di mo­da, ed alla quale appartenevano per moda, o lo finge­vano quasi tutti que' diplomatici scimoniti.
Il diplomatico protestante, essendo, come dicea, dot­tissimo, era anche religioso (a); ascoltava quindi il di­scorso, e parlando con vera filosofica indifferenza di­cea: Io sopprimerei tutti gli ordini religiosi {nel caso credete lecito poter invadere le proprietà di coloro per­ché vestono in diversa foggia di quello che vestiamo noi) lascerei però i soli Gesuiti, l'utilità de' quali è trop­po notoria, non che per le nazioni civilizzate, ma anco­ra per le selvaggie.
Allora il ministro francese, fatto rosso come un gambaro, rispose: « e io invece tutte vorrei che rima-« nessero le comunità religiose, essendo contento che ve-« nissero cacciati i soli Gesuiti ».
Il dotto protestante la discorreva da uomo sommo, mentre l'asino francese parlava per lo spirito del partito della miscredenza e filosofia, cui (senza comprendere né saper prevedere nulla)  esso  apparteneva.
Così io ho sempre riso quando sentiva infuriare con-
(a) « Quin potius certissimum est atque experientia comprobatum leves gustus in pbilosophia ducere ad atheismum, sed plenio res haustus ad religionem reducere. » Ciò non è stato detto dal P. Petavìo, sibbene da Bacone da Verulamio protestante ministro della regina Elìsabetta d'Inghilterra. Tutti i gran dotti quindi come Grozio, Wolfio, Leibniz, Neuton ec. ec. furono religiosi; gli stolti, come Voltaire, atei.
tro i carbonari, i pellegrini bianchi, i cavalieri perfetti e gli stessi illuminati, e quanta mai peste settaria seppe Satanasso vomitare dalle infuocate bolge degli abissi per rendere di questa terra un vero inferno. Rideva io e rido a tutto senno. Non ebbi mai altro in mira, quan­do era ministro di polizia e sedeva nel consiglio di sta­to, che i soli frammassoni. È vero che tutte le segrete società sono esizialissime ed antisociali. Non potendole però (che sarebbe anzi agevolissimo) distruggere tutte, mi deciderei ad estirpare dalla terra la sola frammasso­neria {a). Come quel ministro francese, il quale per di­struggere il cattolicismo si contentava far cacciare (e l'esperienza ha dimostrato che non s'ingannava nei sacri­leghi di lui concepimenti) dalla terra la sola compagnia di Gesù; così io (che m'intendo assai di questa materia) mi contenterei che piuttosto tutte rimanessero le pro­scritte e criminose società segrete, ma che andassero al­l'inferno i soli frammassoni. Le altre delittuose congre­ghe rimarrebbero come tante marionette senza il giuo-coliere, tante parti del corpo  senz'anima.  Resterebbero
 (a) Non è una buona obiezione quella che fanno taluni col dire, che chiarissimi personaggi (anche Reali) essendo stati lìberi muratori, ai doveri di loro non mai mancarono, né rinunciarono all'onore servendo la monarchici legittima. Di costoro ancora io ne conosco parecchi. Ciò non significa contro la mia tesi, ma serve invece a dimostrare maggiormente quanto sia esizialissima questa setta. Mentre nessuno (a riserva di pochissimi invisibili, che non coprono sovente carica esterna d'importanza nelle sette) sa cosa diamine si faccia; mentre moltissimi suppongono ridicoli ed in­conseguenti molti ordini: travaglian tutti però e macchinalmente eseguiscono i voleri degli invisibili che non conoscono, e sì fanno come pecore (grande umiliazione!) guidare dalle persone le più perverse della società!1. Credon quasi tutti che si tratti di crapula, di partite di piaceri ec. ec. Si avanzano ne' gradi e nelle cariche della loggia: nessuno però conosce il vero segreto più che prima, e tutte le ulteriori manifestazioni non consistono che in pure corbellerie, delle quali ogni uomo di spirito ride. Pochissimi dun­que conoscono il segreto, e questi non che regolare i liberi mura­tori, muovono ancora que' carbonari ed altri settarii, de' quali in pubblico dicono il più possibile male, e sono i primi a declamare contro essi, e perorare ancora affinchè vengano menati in galera ed impiccati. Il gran declamare contro ì carbonari di taluni mi è stato indizio di grado eminente nella massoneria, ni mi sono in­gannato.
come i corpi regolari, dopo che fu soppressa la compa­gnia di Gesù. Chi facea più petto alla miscredenza auli­ca? alla lussoreggiante filosofia ministeriale? Chi scrisse più con ardimento? Chi consigliava con energia? Chi di­rigeva? Chi soccorreva con generose somme nell'oppor­tunità delle circostanze? Distmtti i gesuiti (come bra­mava in preferenza il ministro filosofo) si mossero sì per altro poco di tempo le membra del gran corpo reli­gioso cattolico, ma incerte, ma barcollanti, come si muo­vono ancora le braccia e le gambe di colui, al quale una palla di cannone portò via dal busto il capo.
Per quanto sia stato tentato benissimo e mille volte (specialmente nelle mie escandescenze dopo ricevute in­giustizie) di prendere partito per la rivoluzione, ed in favore di taluni Re da scena; pure non mai ha osato tentarmi alcuno per le segrete società di moda doppia­mente detestabili e vergognose, avvegnaché oltre essere congreghe di uomini avversi alla causa dell'altare, del­l'ordine pubblico, della legittimità, devono ancora ri­guardarsi come società di aggettivi, de' quali nessuno può sussistere senza la massoneria, dalla quale vengono tirannicamente comandate, ed alla quale da schiavi vi-lissimi obbediscono. E in vero cosa vaierebbe la giovane Italia senza la propaganda? Dunque doppiamente ab-bominevoli.
Le tentazioni avute nella mia gioventù sono state tut­te per appartenere e farmi ascrivere alla massoneria. Sarebbe lunga la storia delle tentazioni. Dirò la più pressante e calda che mi venne fatta dal duca di Accadia  Dentice {a).  Quel  signore  aveva  tutto  l'esterno  di
(a) Essendo in alloggio in casa mia nel 1799 il generai Vino dell'esercito della repubblica Cisalpina (di gloriosa memoria) io domandai al generale suddetto (che, fuori delle opinioni che adot­tava, era uomo cortesissimo ne affatto ladro come gli altri) quale fosse il segreto della massoneria, nella quale dicea aver occupato le prime cariche? E non lo vedete? egli mi rispose. Quello di mandare in aria ogni altare, e comandare noi invece di quelli che prima comandavano. Così il duca di Accaàia mentre si mostrava caldissimo repubblicano, appena venne Giuseppe diventò il ser­vitore umilissimo di lui, ed ancora il suo confidente. Sono sicu-rissimo avrebbe tenuto lo stesso contegno col diavolo se, incarna tosi, avesse potuto concedergli favori. E ciò accadde, sempre. Si trova nondimeno gioventù tanto imbecille che tali verità di fatto non conosce, e crede a reclutatori della sovrana liberalesca bibaglia!!
un uomo moralissimo e regolare. Esso dilettavasi tirare di spada; quindi io (che passava per valente spadaccino) era spesso seco lui. Volle una mattina che rimanessi a pranzo con lui, ed io lo compiacqui. Il pranzo fu splen­dido come del costume e delle forze economiche de' patrizii napoletani di quella epoca. Terminato il pran­zo, principiò a farmi, a quattro occhi, discorsi di pro­sperità pubblica, e del progresso de' lumi degli uomini stanchi ormai vivere da schiavi. Un discorso concatenava coll'altro fino a propormi che mi aggregassi alla società de' liberi muratori. Io mi negai rotondamente. Il mio rifiuto non lo sbigotti. Che anzi principiò ad attaccarmi con maggiore alacrità. Io fermo replicava la negativa, ed esso insistea colle preghiere anche umilianti, dicendomi che i colleghi di lui mi bramavano assolutamente nel loro numero, e che promesso anzi gli aveano considere­vole ascenso. Io rimasi nella mia negativa; partii dalla casa di lui ove non ritornai mai più.
Sembra che la mia negativa e fermezza rendesse più molesto il prorito de' frammasoni per avermi fra loro. Un venerando abate (che seppi in seguito essere gran maestro di una loggia che non aveva voluto ascrivere il cav. De Medici, come immorale, come in pubblica log­gia lo aveva proclamato il medesimo di lui fratello Prin­cipe di Ottaiano). Un venerando abate dunque venne a tentarmi con tutto l'artificio il più sopraffino. Mi van­tava i pregi e l'utile che i frammassoni prestavano a' po­veri con una larga beneficenza. Io rispondeva che in quanto a me, lasciandomi Dio ciò che mi avea nel na­scere donato per sua misericordia (che poi mi ha tolto la maledetta rivoluzione), non credea aver bisogno delle beneficenze che elargivano: in quanto poi ad essere io benefico, non aver bisogno degli insegnamenti de' fram­massoni, giacché Gesù Cristo m'insegnava dare ancora il mantello a quel povero che in nome di lui mi cercava il solo abito. Mi  ragionava dell'aiuto  scambievole  che  si davano tra loro e della protezione de' grandi che si tro­vavano ascritti alla società. Rispondea io, che tutte que­ste cose avendole apprese nel Vangelo, non avea bisogno impararle da loro; quindi è che la conversazione venne sciolta, e l'abate partì pieno di dispetto.
Sembra impossibile! Venne ancora un terzo, il quale mi assicurò, che se io mi fossi ascritto alla massoneria, prima di un anno, mi promettevano farmi entrare in corte, ed avere ascenso nella milizia. Rispondeva che la professione di cortigiano era stata sempre (ed era veris-simo, tanto più che la mia famiglia era segnata come geniale austriaca) antipatica alla mia famiglia, e che per quello riguardava la milizia, siccome dei due altri miei fratelli, si trovava uno servire il Re di Spagna, e l'altro si era fatto religioso Cassinense, così io dovendo assi­stere il mio benedetto padre negli affari di famiglia, mi era dovuto ritirare dal servizio attivo, per cui non bra­mava né onori di corte per una ragione, né avanzamen­ti nella milizia per quest'altra. Nel rimanente se avessi creduto che la cosa fosse da potersi e doversi fare, mi ci sarei ascritto senza le viste dell'egoismo che mi pro­poneva, che credea indegne di un uomo ben nato e cavaliere.
Io intanto rimaneva stordito di un tale assedio, ed annoiato insieme. Mi consigliai col mio benedetto ge­nitore, uomo saggio, religioso e di esperienza. Egli mi disse: Vuoi terminarla con questi seccatori? Ebbene, no­mina loro il Papa; e di' loro che non puoi farti fram­massone, perché il Sommo Pontefice li ha scommunicati.
Non mancarono dopo qualche giorno le visite de' se­duttori per tormentarmi, che mutando tuono e lusin­ghe, faceano tutti i loro sforzi per reclutarmi per la setta. A due di essi che cercavano persuadermi dissi: « Ma come volete che io mi faccia frammassone quando « la vostra società congiura contro l'altare ed il trono?! (a) ».
a) II marchese Trivulsio capitati generale nelle Spagne, avun-zato in età ritornò in Napoli carico de' primi meritati onori di quella gran monarchia. Egli aveva riputazione essere libero muratore. Nel teatro di S. Carlo una sera il mio benedetto padre, an­cora giovane, gli domandò a quattrocchi se era vero che tra fram­massoni non si congiurasse contro Dio e contro i Re. Il venerando militare, rispose: Figlio mio, ciò aveano dato ad intendermi. Quan­do fui però tra essi, trovai che non era vero né l'uno né l'altro.
Ad un tale mio discorso essi turbati distanto atrocemente calunniato? (e forse parlavano di sero: Chi vi ha raccontato queste menzogne? Chi ci ha buona fede, avvegnaché, come dissi, pochi conoscevano il segreto ed in particolare il secondo). Chi me lo ha « detto? io replicai: me lo hanno detto tutti gli uomini « i più saggi, tutti gli uomini di consiglio e i vecchi della città (a)..
Allora il progresso  de' lumi non aveva  ancora  insegnato che gli anni e Vesperienza rendessero imbecilli i vecchi fino (come insegna la dotta giovane Italia) a perdersi a quarant'anni anche la sovranità di dritto!!!

Non è vero affatto, quelli replicaro­no: «e sia prova che noi non ammettiamo ebrei, turchi, idolatri, tutti i nemici insomma della religione cristiana.  Sarà ciò che voi dite, ma se i disegni della vostra società non fossero criminosi non sarebbe proibita dai sovrani, e ciò che più mi fa peso dal Sovrano Pontefice Romano, il quale nelle sue decisioni non può ingannarsi come c'insegna il vangelo.
E voi che siete un uomo istruito e di spirito date ancora retta alle baie del Papa!! Cosa entra il Papa ne­gli affari temporali? Il dialogo fu lunghetto, né io ne riferisco che l'essenziale.
Ma io sono cattolico romano, né mi vergogno della mia religione, replicai loro: il Papa è il maestro della fede e della moralità dei costumi. Gesù Cristo pregò per lui, ed esso è infallibile. Tostochè dunque anatemizzò la frammassoneria io devo obbedire al Papa. Anderò (Iddio mi liberi) a casa del Diavolo per i miei particolari capricci, l'andarci però per complimento, « e per fare un piacere a voi sarebbe la gran bestialità .
E noi non siamo cattolici? E Tizio e Sempronio nostri compagni non si accostano a' Sagramenti (b)?
Di questi Massoni che frequentavano  i Sagramenti ce  ne erano molti nel tempo della mia gioventù. Venendo avvertiti, si scusavano dicendo che la scomunica della Santa Sede,  essendo ingiusta non potea colpirli.  Dunque non siete cattolico tostochè volete giudicate il Romano Pontefice. Essi non erano che veri Giansenisti. Un dotto parroco ne convinse e persuase uno. Questi abiurò. Saputosi però dagli Invisibili (per quanto l'abiura se¬guisse fuori ed in paese lontano da Napoli) lo fecero avvelenare. Quest'aneddoto era noto all'ottimo colto, e zelantissimo Marchese d'Azeglio rispettabile signore Torinese.

Essi sono dotti. Sanno distinguere la religione dalla supersti­zione. Sanno che il Papa non è che il Vescovo di Roma che non deve entrare nelle cose temporali, giacche Gesù Cristo disse, che il suo Regno non era in questo mondo.
Io soggiunsi allora:   « Io so che il Sommo Romano Pontefice oltre essere il Vescovo di Roma, è il Vescovo de' Vescovi, ovvero il Vescovo Universale. So che Gesù Cristo gli diede un Primato di onore e di Giurisdizione   sopra  tutti  i  fedeli,   e  siccome  qualunque cosa che scioglie in questa terra è  sciolta nel Cielo, così  avendo con iscommunica maggiore legati  tutti i Frammassoni,  saranno come  tali  riguardati da Gesù Cristo, e quindi condannati perpetuamente nell'Inferno. I signori che mi citate, i quali non ostante ciò si accostano ai  Sagramenti apparterranno ad altra Religione:   conosco (per quanto sappia) sono uomini onestissimi; ma onesti si trovavano ancora molti Turchi, taluni Isdraeliti, moltissimi Protestanti. Cattolici però non sono né possono essere, giacché i Cattolici credono ciò che credo io ».
La conversazione terminò dicendo uno di essi che non occorreva parlare di altro. Conciossiachè chi pensava in quel modo, non era fatto per acquistare quella luce alla quale era profano. L'altro avendomi detto, che erano quel­le tutte baje che mi aveva poste in testa Papa, io risposi che sarebbe bastato ciò, avendo sempre conosciuto il mio Benedetto Padre come un uomo saggio e di tutto garbo. Pel rimanente sapessero che la Religione l'avea studiata da me, incominciando dagli Autori miscredenti, che però il mio cattolicismo essere di piena e ferma convinzione. Mi venne chiesa parola di onore sulla segretezza dell'ab­boccamento avuto, ed io lo promisi ponendo la mia mano sul cuore. Mi dissero, che non sarei stato giammai nulla in questa terra, ed io risposi, nulla mi sarebbe stato più gradito, e tanto sarebbe accaduto, se la maledetta rivolu­zione strappato da miei cari libri non mi avesse.

 (14) Ecco cosa si legge in una lettera oltramontana scritta a ragguardevole personaggio — « Che se la Spagna resistette anzi diede il primo crollo al colosso napoleonico, non era quella Spagna di adesso, era la Spagna  pura e non pervertita. Anche le Calabrie povere, e sole resistettero energicamente a Napoleone, e ne sconfissero «più volte gli agguerriti corpi di armata. Massena il figlio  della vittoria addivenne nelle Calabrie il figlio della disfatta. Ma la mano ferrigna di Medici, non aveva ancora « posato su di essi non per anco ne aveva scomposti, supplantati, ed invertiti gli elementi. Or quali si sono « mostrate di poi le Calabrie? Miratele adesso alla testa del movimento rivoluzionario, che si prepara nelle due Sicilie! Ma che parlo io delle Calabrie? Un uomo solo « benché di elementi erculei, un solo uomo piantato sui scogli di Ponza, come Argante sulla breccia di Gerusa-« lemme ha, imperterrito, sfidato e resistito a Napoleone!  Quest'uomo è appunto Canosa mio e vostro particolare « nemico. Or de prodigii fatti dal Mostro in quell'epoca « e di tutti gli altri quinci e quindi da lui operati col « senno, colla penna e colla spada ditemi qual conto ha « tenuto mai la legittimità fuori di quello di farlo per « essa scannare in olocausto alla rivoluzione in ogni vile ed abbietta transazione colla medesima, che le venisse « consigliata dalla paura? Dietro così ferali esempii per qual miracolo volete che più trionfi la legittimità se costantemente è suicida? Chi volete che ulteriormente si vada a scannare per essa? il Diavolo? Non giudicherete « prolissa, o superflua questa mia digressione, quando vi dirò che se potete procurarvi la Gazzetta di Stato di Lisbona del giorno 11 luglio vi leggerete un bell'articolo sotto la rubrica di Madrid intitolato Appello del generai Mina alle popolazioni Spagnuole (Mina ristabilito in salute, richiamato nelle Spagne e ripristinato nel comando si dispone a combattere don Carlos) col quale quest'animoso ed abile soldato mostrandosi logico non ordinario procede a convertire i Carlisti, ed a chiamarli
allo stendardo liberale col mezzo di convincerli chenesta in ogni regione del mondo è sempre stata la sorte  con cui la ingrata legittimità premiò gli utili sudori ed  il sangue sparso da suoi apostoli più fidi. Infiniti sono gli esempii che egli fecondamente, e categoricamente « produce, e quello che è terribile sono meri fatti storici innegabili! Come ben presumerete quelli che riguarda-« no la Spagna sono recenti, sono flagranti ancora. Mina « ne fa spaventevole appello (atto a scuotere veramente « gli animi) al Carlismo tutto e individualmente ai con-« giunti ed amici delle miserande vittime scannate quando « la cieca brutalità del Nerone spagnuolo di sempre ese-« cranda memoria! (Ferdinando) con mostruosa ingius ti-« zia, ed infame ingratitudine nel suo tribunale di sangue « confuse il realista che sudava a conservarlo sul trono « col liberale, che agognava a precipitamelo. Arrivato a « Napoli (poiché passa diligentemente in rivista gli stati « tutti) troverete le seguenti espressioni non mancanti né « aggiunte di una virgola: — Quegli erroneamente detto «Sicario della legittimità ma esattamente a denominarsi « leale Acate, venerando Nestore della medesima, Mostro « realmente in quanto allo straordinario e singolare attac-« camento ad ingratissima genia, che sempre lo danneggiò, e perfida, disleale e sconoscente ha finito col rine-« garlo, col risospingerlo, coll'immolarlo a di lei nemici, « che egli instancabilmente, ma lealmente combattette e combatte quegli che dopo tanti anni (dopo quasi mezzo « secolo!) di accanita lotta sì furiosamente sostenuta contro di libertà infellonita, si rimane ancora nel campo « e a mezza spada vi si batte, disfida e minaccia tuttora « imperterrito. Quegli è l'antico Principe di Canosa, che « i Giornali di ogni colore, che le stampe di tutte le « opinioni ora non accennano giammai senza l'epiteto di « Famoso. Spagnuoli! Voi lo conosceste costui: Egli ha « lungamente vissuto, e figurato d'immezzo a voi: Egli « fu consanguineo di qualche vostro illustre: Egli è decorato di una dignità che è vostra: Voi lo ravvisaste « più volte Atlante dello stesso trono di Napoli. Ebbene « legittimisti della Penisola! Miratelo ora Bellisario delle due Sicilie! Consideratelo rammingo, manomesso, impoverito non da suoi combattuti, ma da' suoi difesi!!! Legittimisti Spagnuoli considerate la morale, la gratitudine e la giustizia di quella sozza, assurda e brutale « divinità, a cui non potete continuare ad ardere incensi senza rendervi suicidii! Considerate il dito di Dio che « disegnandovi la strada della perdizione vi mostra le  piaghe a fuggire, v'indica i mali ad evitare... Spagnuoli « è Iddio che vi vuoi salvi, ubbidite al venerando cenno « di Dio — .
Io non conobbi i Mina né zio, né nipote quando fui nelle Spagne, quando colà venni spedito da Palermo per impegnare il Re Ferdinando VII presso il congresso di Vienna: affinchè il regno di Napoli restituito venisse al Re mio signore. In forza di talune transazioni diplomati­che di fatti di ciò fortemente in Sicilia dubitavasi.
Ferdinando IV in quell'epoca gravemente trovavasi an­gustiato nelle Finanze per mille straordinarie ragioni. Or per quanto il Re fosse splendido, pur nondimeno non era possibile dimostrarlo verso me in quel rincontro, abbenchè partissi dalla Sicilia di lui Legato di fiducia e per un negozio di tanta importanza. M'imbarcai dunque da Palermo per Genova sulla reale Corvetta il Tartaro con poche centinaia di ducati in saccoccia.
Pieno di zelo (come ho sempre, per grazia di Dio, dimo­strato) partii confidando nell'assistenza che prestato mi a-vrebbe in Madrid il mio affettuoso zio don Paolo di Sangro Principe di Castelf ranco zelantissimo ancora esso per la glo­ria della Reale Borbonica Dinastia, che trovavasi in Sicilia.
Io non m'ingannai. Sbarcato appena in Alicante, ebbi tutta la premura di far sapere al principe di Castelfranco in Madrid il mio arrivo in Spagna per commissione Rea­le. Mentre intanto io mi tratteneva in quella città, pur­gando la contumacia, il mio buon zio si diede tutto il moto informandone il Re, la real Famiglia e tutti i Gran­di della Corte, con molti de' quali era collegato in pa­rentela avendo esso presa in consorte una sorella della Principessa di Galles.
Generoso il mio Zio s'incaricò del mio alloggio, e sic­come convivea col di lui figliastro il magnifico signor Duca d'Hijar grande di Spagna, così venni dolcemente
forzato, andare costantemente a mensa con quel colto e splendido signore. Il principio della mia diplomatica mis­sione in Ispagna fu dunque felicissimo, e serafico.
Né in questo si restrinse la mia insolita buona fortuna. O fosse stato mio Zio quello che avesse resa pubblica in Ispagna la mia vita politica (che quel somaro di Collet­ta chiama oscura) o che per altro mezzo talune mie azioni colà si conoscessero, trovai li Spagnuoli informati di me, quanto il potessi essere io medesimo. Due avvenimenti della mia vita facevano in quelli la migliore prevenzione in mio favore. Quello di essere stato mandato ambascia­tore del comandante Francesco Mejan (che colà appresi essere stato cuoco nella famiglia Galvez) a Nelson, onde concedesse a francesi di Napoli un armistizio; e l'altra che dopo essere stato tanto mal ricompensato nel 1799 da quella perversa Giunta di Stato, stato fossi poi così docile ed obbediente al semplice primo invito dell'immor­tale Maria Carolina, di tutto in Napoli abbandonare per seguire la sorte infelice della reale Dinastia in Sicilia.
Eroici come sono realmente gli Spagnuoli, quell'essere volontariamente ritornato fra i francesi nel castello di sant'Elmo (per non mancare alla parola data) al rischio evidente di essere da quelli malmenato a morte li rendea entusiasti per me, chiamandomi il nuovo Attilio Regolo. Ed il dimostrarmi obbediente a' comandi Reali, ed indi zelante, attivo, energico nel servire la buona causa della legittimità dopo le avventure del 1799 mi facevano da taluni chiamare il duca di Alba redivivo.
Le mie cose dunque (ovvero del mio Re) andavano pel mio ministerio nel modo più prospero, fino a promettermi Ferdinando VII ed assicurarmi taluni Grandi della Mo-narchia, essere disposto il Re inviare fino un esercito (che sarebbe stato capitanato dal mio zio Principe di Castel-franco) per iscacciare da Napoli l'usurpatore Gioacchino Murat.
Andavano così felicemente gli affari del Re mio Si­gnore, quando la mia cattiva fortuna, ricordandosi di me per tormentarmi, mi portò via da questa terra, con violentissima infermità il mio amatissimo zio che forma­va in Madrid tutto il mio sostegno.
Eccomi rimasto un puro e vero aggettivo, per quanto generosissimo e magnanimo l'eccellentissimo duca di Hijar, raddiasse verso di me tutti i tratti della più cor­diale (e veramente castigliana) protezione e benevolen­za, e si offrisse fare per me tutto ciò che faceva il mio zio; ed impiegare per i miei affari diplomatici tutta la grande di lui influenza nella corte. Appunto perciò io non dovea abusarne, e principiai fino ad allontanarmi dalla sua mensa quotidiana, egli non venne da me pre­gato che per i puri affari della mia legazione.
La mia perdita era massima. Il mio cuore venne in mille modi trafitto e straziato. Come si fa (tra me io dicea) senza appoggio, e senza denariì Conveniva for­marsele in Madrid onde servire il mio Re alla meglio mi fosse possibile. Ci pensai seriamente la notte che seguì quella della morte del mio carissimo zio e trovai la strada.
Mentre il mio povero zio moriva in Madrid la consor­te di lui Principessa di Castelfranco in Napoli trovavasi. Essa era grandemente amata nella Spagna, e grandi era­no i rapporti di lei nella Corte. Mio zio era morto senza fare testamento non avendoglielo la violenza del male permesso. Io venni chiamato per isperimentare le mie ragioni sull'eredità. Risposi, non voler saper nulla di ciò, ma che tutte le mie ragioni le cedeva e donava alla vedova Principessa per quanto non avessi il bene di conoscerla. Non furono gettate in aria le mie parole; avvegnaché con atto pubblico nella casa del signor Du­ca d'Hijar stesi la pubblica solenne rinuncia.
Questa (politica) generosità produsse un effetto su­periore a quello che mi era immaginato. Oltre infatti di essere di massimo gradimento alla vasta parentela, piacque moltissimo al Re D. Ferdinando VII. Tutto Madrid prese di me la più alta idea. Non mai gli affari della mia Corte andarono innanzi più felicemente. Io di tutto diedi parte al signor marchese di Circello, il quale lodò moltissimo il mio pensiero, e il sagrificio che avea fatto per il comune Sovrano. Ed io ciò si restrinse ogni mio guiderdone.
Essendo  questi fatti  troppo  notorii  nelle  Spagne  a  questi alludere deve Mina nel suo proclama. E siccome tra liberali, e liberali passa talvolta la più grande diffe­renza; così mentre i vili falsi liberali motteggiano in Italia la mia mendicità, un oggetto di massima lode ne fa invece Mina nelle Spagne chiamandomi il Bellisario delle due Sicilie.
Per quanto debba essere gratissimo di ciò, avendo sempre io preferito al particolare mio interesse (per gra­zia di Dio) quello della causa della legittimità, che servo fino da' miei più verdi anni, così mi sentii atrocemente ferito quando osservai, che quel panegirico diventava un vero libello contro i miei sovrani Ferdinando IV e Francesco I; e che in sostanza era un vero processo fatto contro la legittimità, al fine che i legittimisti Spagnuoli (che troppo mi conoscono) irritati, stomacati dal pessimo trattamento, da me sperimentato dopo tanti servizii, dal nobile stendardo della legittima Monarchia, allontanandosi, a quel lurido ed abietto dell'anarchia ed usurpazione passassero.
Ecco la ragione per la quale rifiutai, come rifiuto un elogio, il quale per quanto sia vero, è stato fatto per attaccare e vilipendere contro ogni giustizia e buon sen­so la causa della legittimità. Fu questo però il sistema tenuto contro ogni logica, da miscredenti, come da falsi filosofi fino dal secolo XVIII. Conciossiachè essi attac­cando (e spesso con calunnie e falsità) le persone cre­dono perciò attaccare le cose e le istituzioni, tirando dai soggetti particolari illazione contro le cose, con manife­sto errore e fallacia di ogni logica più conosciuta. Eccoli per questo solo oggetto storici bugiardi e calunniatori del Clero (specialmente regolare) de' Vescovi, de' Ro­mani Pontefici; quasiché, avendo dimostrato, che questi ne' più grandi peccati, superstizioni, errori caduti fosse­ro, la legittima conseguenza n'emergesse che falsa sia la Cattolica Religione e il Culto verso Dio.
Comprendere dovrebbono essi benissimo che, non perché tra gli Apostoli vi fu Giuda, può resultarne in conseguenza che l'Apostolato stato non fosse una Di­vina e quindi Santissima istituzione, come se tra profes­sori dell'arte salutare molti nominare se ne potrebbero più carnefici che medici, regolare fosse la conseguenza che l'arte, e scienza medica fosse un Essere Morale al­l'inferma umanità nocevole. Può essere quindi benissi­mo ed è, che per quanto religiosi individuar si potessero ignoranti, ingannatori, spregevoli, non perciò falsa può dichiararsi la Religione, e quindi non che utilissima, ma necessaria la religione per l'uman genere riunito in società.
Ma assai di questo maggiore fu lo sbaglio, o volonta­rio, o poco logico, che si scorge nel mio elogio. Imper­ciocché non solo dalle persone ingrate ed ingiuste vuole Mina tirare la falsa illazione, esser governo perfido quel­lo che ha sorgente nella legittimità, ma per un più ma­dornale errore attribuisce l'ingratitudine e l'ingiustizia al legittimo monarca Ferdinando IV, mentre i mali gra­vi a me arrivati, provengono per l'opposto dal falso li­beralismo, e da quei soggetti, che mascherati da legitti­misti, servivano la buona causa soltanto per renderla odiosa alla moltitudine, e quindi tradirla.
Non può esserci in buona logica un argomento di maggior forza quanto quello che si prende da ciò che asseriscono gli avversarii medesimi.. Si apra lo stesso storico mentitore Colletta. Ivi si troverà costantemente, che mentre narra le mie male avventure dice sempre che io soffrii contro l'espressa volontà, contro il cuore, e le massime di Ferdinando IV {a)
(a) A perpetuo rossore di coloro che non cessano nominarmi esiliato io pongo sotto lo sguardo de' miei leggitori il documento officiale del signor marchese di Circello mandato a tutti gli Amba­sciatori, Ministri, ed Agenti di S. M. (che io richiesi) nel 1822 quando partii da Napoli per non turbare le digestioni Medicee.
Ministero di Stato degli Affari Esteri. II. Dipartimento.
Napoli 18 maggio 1822.
Signor Console Generale.
« // signor Principe di Canosa Gentiluomo di Camera di esercizio di S. M. e suo Consigliere di Stato avendo ottenuto dal Re « N. S. il permesso di viaggiare, per ordine di S. M., ne prevengo « Lei,  signor Console  Generale,  e  nel  raccomandarle  nel  Real Nome quest'ottimo Cavaliere la di cui fedeltà, e deciso attacca-« mento alla sacra Persona del Re, ed alla Augusta Reale Famiglia, « son tenuti sommamente in pregio dalla Ai. S. La prego a fargli « godere tutte quelle distinzioni che son dovute al suo rango, alla « sua illustre nascita, ed alle sue personali qualità, e procurargli « tutte quelle agevolezze di cui possa aver bisogno.
Il Consigliere di Stato incaricato del Por­tafoglio del Ministero degli affari Esteri
Marchese di Circello.
Al signor Cavaliere Gaspare Disperati Console Generale di S. M. Siciliana in Toscana. (Livorno)

 
che mi rimase nel suo interno mai sempre invece attaccatissimo. Non fu dunque Ferdinando IV (come i liberali stessi asserisco­no) l'ingrato e l'ingiusto contro me. Dunque invece chi fu? Furono taluni diplomatici, che uniti al de Medici e Tommasi, mi fecero diventare il Bellisario delle due Si­cilie. L'argomento di Mina dunque si rivolta contro se medesimo, rendendo peggiore lo stato della causa che difende. Imperciocché ancora che non fosse assurdo ti­rare illazione dalle persone alle cose, pure non potendo essere attaccati i Sovrani Ferdinando IV, e Francesco I come individui legittimisti, sibbene de Medici, Tomma­si, ed altri che alla causa legittimità sicuramente non appartenevano, chiaramente si scorge che la spada viene a rivoltarsi per ferire la causa che Mina difende, doven­do io e tanti altri non dalla legittimità, ma dal falso liberalismo ogni nostra mala ventura ripetere.
Ed in questo luogo prego i miei leggitori a concen­trare la riflessione sopra l'incoerenza del raziocinio del mio panegirista. Cosa vuoi dare ad intendere egli alla moltitudine? Che un governo monarchico legittimo sia all'umana società esizialissimo. Ma il Mina è partito dall'Inghilterra per fare nelle Spagne ritorno. Ma ha esso con alacrità obbidito il comando della Regina Cri-stina, ed ha preso il comando contro l'armata di don Carlo V. Dunque il Mina servendo Isabella II, o serve con incoerenza, e contra i suoi stessi adottati principii, un governo ingiusto, ingrato, esizialissimo alla specie umana (com'esso riguarda ogni legittimo reggimento), o pure dichiara il governo che serve un reggimento usur­pato e rivoluzionario.
Ecco quali paralogismi e sofismi si osservano di con­tinuo nelle teorie e nella pratica di vivere come nella condotta che tengono gli amici tutti e partitanti della sempre maledetta rivoluzione. E il genere umano non arrossisce di dare retta ulteriormente a tali Cerretani Sofisti? E gli stessi studenti del primo anno di filosofia delle nostre corrotte Università non arrossiscono nel mostrare non comprendere gli elementi dell'arte del ra­gionare? Seguiteranno ad avere tanta forza nel di loro spirito le prevenzioni e i pregiudizii (posti loro in capo da ignorantissimi maliziosi Gerofanti) da offuscare loro ogni lume di ragione? E quando ritorneranno in loro stessi, e scuoteranno il giogo di autorità posto loro sul dorso da uomini immoralissimi che non formano alcuna autorità!! Io mi auguro che la gioventù di quella bella Italia che fu la maestra di tutte quelle, un dì, barbare nazioni {a), che cercano imporne sul di loro spirito, non saranno gli ultimi a riconoscere lo stato veramente mi­serabile, in cui l'hanno condotta la falsa dottrina di co­loro che, più barbari assai de' loro antenati, osano porre in contrasto ogni più solida umana dottrina, che calpe­stando le Croci, e lacerando le Immagini de' Santi osano assai peggio che i bruti esclamare: Non abbiamo né Re, né Religione, né Dio!!!
(a) II bellissimo dipinto del Barone Camuccini che si osserva in Napoli dimostra questa grande Storica verità, che reca tanto decoro all'Italia. Figurò, il gran Pittore Filosofo, Carlo Magno, che chiamati a se i più celebri letterati Italiani del suo tempo (fra quali il Monaco Alcuino) l'incarica recarsi in Francia per fugare l'ignoranza da suoi sudditi!! Sarebbon questi i veri vanti di quella gioventù Italiana che invece ora scimiotteggia gli stranieri.

Italia mia, Italia stolta,
Che ora i barbari ammiri, e in lor sei volta.