mercoledì 23 luglio 2014

CENTO LIRE PER LA TESTA DEL BRIGANTE



Correva ormai già da più di mezz’ora, passando attraverso fitti faggi e radi agglomerati di pini loricati che ricoprivano quella vasta area dell’Aspromonte meridionale. Aveva perso di vista Petru e ‘Nto...ni 'u Gucceri, saltati come lui nel <<vajuni i maru ‘Ndria>> per cercare di sfuggire ai Piemontesi che avevano attaccato, senza farsi sentire, lo sparuto gruppo di briganti accampati nei piani di Juncu. «Tradimento!» aveva subito pensato Mico barbazza, nei momenti successivi alla scarica di fucileria annunciata dal grido di «Morte ai briganti!» venuto dalle gole dei circa 50 soldati regolari dell’esercito piemontese. Nella spalla un dolore sordo, continuo; la ferita di punta, ricevuta durante una scorreria di qualche giorno prima e curata alla meno peggio dalla compagna di Ciccio Pugliese, con un intruglio di bianco d’uovo sbattuto mischiato a olio d’oliva ed erbe strane, aveva ripreso a sanguinare copiosamente.
Se non si fermava a cercare di tamponare il sangue con dell’altra stoffa, non ce l’avrebbe fatta a raggiungere i “piani di Misafumera“, dove avrebbe sicuramente trovato aiuto nei vari "pagghiari" sparpagliati in tutta la zona, abitati dai carbonai dei paesi vicini. L’eco di qualche colpo isolato si sentiva ormai attutito dalla distanza che aveva percorso, e che gli ispirava una rinnovata fiducia nella possibilità di scamparla ancora una volta. Come avevano fatto i Piemontesi a raggiungerli sui piani così in fretta? Sicuramente qualcuno della Guardia Nazionale conosceva le mulattiere e i sentieri che portavano in montagna, dal paese dove erano stati il giorno prima, e sicuramente i soldati Piemontesi non erano stanchi abbastanza per rinunciare a dare la caccia alla loro banda che sapevano rimaneggiata dopo la morte di Don Ferdinando Mittiga, il loro capo indiscusso. Non voleva fare anche lui la stessa fine, visto che ormai era già stato associato in carcere ad Ardore assieme al Mittiga, accusato di furto e di ribellione armata in compagnia di altre persone, e dal quale carcere erano stati fatti evadere da un gruppo di insorti nei moti del 1847 che avevano interessato la parte jonica della provincia.
Già si vedevano alcune colonne di fumo che salivano al cielo, chiaro indizio delle presenza dei carbonari. «Sono ormai salvo» pensò Mico, e affrettò la ormai stanca andatura per raggiungere la più vicina delle carbonaie, dove si notavano dei movimenti di persone, che lui identificò come carbonari, visto che si trovavano a ridosso delle piramidi di legna. All’improvviso vide un lampo, sentì un dolore sordo nel petto, le gambe persero l’appoggio e stramazzò a terra senza più vita! Da dietro un faggio, Gianni carzetta e Carmelo u scurzuni, uscirono allo scoperto, si avvicinarono con cautela al corpo di Mico, e dopo essersi accertati che non respirava più, preso un coltellaccio si accinsero a tagliare la testa al poveraccio. Macabro trofeo da consegnare al comandante del manipolo di soldati piemontesi, come prova tangibile per poter ottenere la taglia di ben cento lire promessa nel proclama del colonnello Fumel, che i due compari conservavano ben ripiegato nella vertula e che recitava testualmente «Io sottoscritto, avendo avuto la missione di distruggere il brigantaggio, prometto una ricompensa di cento lire per ogni brigante, vivo o morto, che mi sarà portato. Questa ricompensa sarà data ad ogni brigante che ucciderà un suo camerata; gli sarà inoltre risparmiata la vita».
Questo era l'epilogo di uno dei tanti episodi che si svolsero in quella che sarebbe passata alla storia come la guerra al brigantaggio post-unitario, e che vide atrocità commesse da ambedue le parti, anche se le forze in campo non erano equilibrate. Contro una accozzaglia di disperati male armati e peggio equipaggiati, più di 100.000 soldati dell’esercito regolare Savoiardo ebbero facilmente la meglio, grazie sopratutto alle molte leggi inumane emanate per risolvere con l’arma del terrore una resistenza che non era solo dovuta a delinquenti comuni, ma ad anche veri e propri “partigiani” che combattevano per un ideale e una bandiera. Nacque così quella che si sarebbe chiamata Unità d’Italia, che dopo le mancate promesse sulla concessione delle terre ai contadini, sarebbe diventata la “Questione Meridionale“. Ai figli di Mico, Gianni e Carmelo e di molti altri meridionali, dopo essere stati briganti, nella propria terra, spesso per miseria estrema e disperata, non rimase altro che scappare via in cerca di altri luoghi dove poter vivere e lavorare. Diventarono emigranti.
Il maggiore Pietro Fumel, impose il censimento delle bande e dei singoli briganti, dei manutengoli, delle spie e favoreggiatori; vietò il commercio delle armi e sottopose a permesso il porto d'armi; promise clemenza ai briganti che si consegnavano spontaneamente e fu intransigente con i renitenti arrivando ad esporre in pubblica piazza le teste mozze dei briganti uccisi. Stabilì un premio di 100 lire per ogni brigante consegnato vivo o morto; garantì l'impunità al brigante che avesse ucciso un compagno ed un premio di 50 lire per ogni denuncia di brigante. La fucilazione immediata era inferta a chi dava ricetto o nascondeva briganti. Con queste misure severe e crudeli, che acquistarono al Fumel il titolo di "fosco nome d'una fosca storia", con i reparti di soldati e le squadriglie della Guardia Nazionale numerosi briganti furono catturati o fucilati senza pietà. Molte bande furono distrutte o decimate. A dare man forte all'opera del Fumel intervenne poi il 15 agosto 1863 la legge Pica (n. 1409), con cui il governo italiano mirò ad estirpare alla radice il brigantaggio, sentito come una vera piaga in un contesto sociale che avrebbe meritato soprattutto favorevoli interventi di rilancio economico e di riforme amministrative, piuttosto che interventi di repressione e morte.


Fonte: Un Popolo Distrutto