Articolo pubblicato sul quotidiano Rinascita il 4 aprile scorso e – sebbene gli ebrei non fossero l’argomento centrale – subito ripreso dalla rassegna stampa dell’Unione delle Comunità Ebraiche.
Note sulla complessità della storia: spunti per ovviare alle semplificazioni propagandistiche
di Andrea Giacobazzi
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Ogni atto di ricerca storica implica l’incontro con la complessità. Chi oggi cerca di calcificare l’analisi del passato, di semplificarla all’eccesso, di presidiarla con la magistratura o di intralciarla con l’ostracismo mediatico, lo fa evidentemente in nome di un programma ideologico errato e dannoso.
Un esempio lampante consiste nella creazione di odiose pregiudiziali sociali che anche nel nostro Paese – in nome dell’antifascismo e dell’anticomunismo – hanno lasciato un’abbondante striscia di sangue. Non solo un banale – e politico – divide et impera, ma un modello culturale in cui l’orwelliana “verità” ufficiale è propinata come nelle catene di fast foodvengono serviti hamburger e patatine. Nel testo che segue percorreremo sinteticamente diversi eventi, spesso ignorati, che certificano la complessità coinvolta strettamente nello studio della storia. Una raccolta di spunti per evitare di cadere nella sterile logica di chi attribuisce a realtà meramente umane le caratteristiche di “sempre buone” o “sempre cattive”, di “sempre vittime” o “sempre carnefici” e di “sempre amiche” o “sempre nemiche”. L’assoluto, se maldestramente attribuito alle cose di questa terra, può condurre a gravi equivoci[1].
1. Rossobrunismo e affini
Iniziamo col preteso “rossobrunismo”. Alcuni antifascisti di stretta osservanza – anche quelli che oggi da certe pagine “marxiste”, lanciano appelli per la Siria – sembrano ignorare che in quel Paese i comunisti sostengono un governo con due membri nazional-socialisti. Il Partito Nazionalista Sociale Siriano reca nella sua bandiera una croce “uncinata”; con colori sociali bianco, rosso e nero.
Nulla di particolarmente nuovo. Non mancano nella storia ampi esempi di regimi sbrigativamente ed erroneamente definiti “fascisti” che furono, in tempi non lontani, blanditi dall’Unione Sovietica. Si pensi all’Argentina del Generale Leopoldo Galtieri – vista da Washington come efficace baluardo anticomunista – che allo scoppio della Guerra delle Malvine (1982, sotto dominio inglese ma rivendicate da Buenos Aires) si trovò di fronte all’ipotesi di ricevere armi da Mosca via Cuba[2]. In seguito al bando sulle vendite imposto da Carter per l’intervento sovietico in Afghanistan (1979), l’URSS acquistò in maniera significativa il grano argentino sviluppando ampie relazioni commerciali, con alcuni risvolti politici: vi sono indicazioni che fanno pensare ad un aiuto in termini di intelligence[3] da parte sovietica per le operazioni contro la Gran Bretagna.
Già alcuni anni prima di questi fatti si erano realizzati curiosi scambi tra il Partito Comunista Argentino e la junta militare di Jorge Videla (anche qui: “fascista”, “filo-imperialista”, ecc). Dopo il golpe del 1976, parlando del nuovo presidente, gli esponenti del partito arrivarono ad affermare: “En cuanto a susformulacionesmásprecisas (…) afirmamosenfáticamentequeconstituyen la base de un programaliberadorquecompartimos”[4]. Del resto l’URSS, per prima, con l’arrivo di Videla vedeva scongiurata una soluzione più pinochetista[5], quindi potenzialmente più pericolosa. Questo fattonon evitò la persecuzione di diversi militanti comunisti, sebbene in forma diversa rispetto ad altri partiti.
Anche nella “Germania dell’Est” il realismo politico fin qui descritto pare trovare conferme. NDPD: National-DemokratischeParteiDeutschlands, nome simile all’attuale formazione della “estrema destra” tedesca, NPD. Nella DDR[6], come evidente, i nazionalsocialisti – più o meno pentiti – a fine guerra non erano pochi e i loro sentimenti non potevano essere ignorati. Fu così che la creazione del partito NDPD permise al governo comunista di risolvere rapidamente il problema, riassorbendo molti ex nazisti nello Stato socialista e dando loro la possibilità di avere un loro canale (minore) di intervento politico[7]. Un altro fenomeno che oggi verrebbe rapidamente etichettato come “rossobruno” ebbe luogo nella “Germania dell’Ovest” ma con esiti diversi: fu il caso del Partito socialista del Reich Tedesco. Migliaia di iscritti, rappresentato al Bundestag e con diversi eletti nelle amministrazioni locali. Era un partito di “estrema destra”, “nazionalsocialista”, ma favorevole all’Unione Sovietica, non mancavano tra i suoi membri, soggetti che elogiavano il patto Molotov-Ribbentrop; furono evidenziati in più occasioni legami tra questo partito e le autorità sovietiche nella Germania dell’Est[8]. A differenza di quanto accadde oltre cortina con l’NDPD, il Partito socialista del Reich Tedesco fu bandito dalle autorità statali nel 1952[9].
Anche nell’Italia degli anni ’50 le pregiudiziali sembravano essere di intensità diversa rispetto a quanto alcuni oggi vorrebbero far intuire. Silvio Milazzo, democristiano siciliano dissidente, alle elezioni regionali del 1958 raggiunse la presidenza – contro il suo partito d’origine – mettendosi alla testa di una coalizione che andava dal Movimento Sociale Italiano al Partito Comunista[10]. Gli uomini di punta furono il poeta fascista Dino Grammatico e l’alto dirigente comunista Emanuele Macaluso (futuro deputato e senatore). Quest’ultimo sostenne: “altrove non è possibile realizzare ciò che qui nasce in nome dei superiori interessi siciliani”[11].
Se si volesse scrivere la storia italiana degli scambi tra rossi e neri, forse non basterebbero una decina di libri. Si pensi, tra le tante, alla vicenda di Bombacci, prima socialista, poi comunista, partecipò ai funerali di Lenin data la sua vicinanza all’Unione Sovietica[12]. Arrestato col Duce nell’aprile 1945, fu fucilato gridando: “Viva l’Italia! Viva il Socialismo!”[13]. I partigiani lo appesero per i piedi a Piazzale Loreto. E che dire di Togliatti? Nel 1936 tentò l’“entrismo” rispetto al regime e lanciò l’appello: “Noi comunisti facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori, e vi diciamo: lottiamo uniti per la realizzazione di questo programma”[14].
La madre di tutte le convergenze “rosso-brune” è però il patto Molotov-Ribbentrop, con cui Germania nazionalsocialista e Unione Sovietica si accordarono militarmente spartendosi buona parte dell’Europa centro-orientale, dando così inizio alle operazioni della Seconda Guerra mondiale. L’antifascismo propagandato energicamentefino a qualche tempo prima cadde rapidamente:nel periodo 1939-1941 i partiti comunisti, sostennero che la guerra in corso era “imperialista” e provocata dai governi francese e inglese;anche il Partito Comunista Franceseaderì a questa linea, nonostante, dopo la sconfitta del maggio 1940, una parte del Paese fosse sottoposto all’occupazione tedesca[15].
Parata comune Wehrmacht – Armata Rossa, 1939
2. Divergenze nero-brune e convergenze fascio-statunitensi
Sul fronte opposto? Sebbene con risvolti diversi rispetto a quelli appena esposti va ricordato che l’Italia fascista ebbe, in una certa fase, buoni rapporti con le “democrazie plutocratiche”[16]e relazioni travagliate con quello che diventerà l’“alleato tedesco”. Il tema “razziale” era scottante e tra le organizzazioni “fasciste” all’estero vi furono anche frizioni significative. L’immagine di copertina che fu scelta per Il fez e la kippah (con un ebreo caricaturato che pare suggerire a Mussolini la linea politica) rappresenta uno di questi casi: si trattava di un “esagerato” volantino dell’Imperial Fascist League britannica, la quale – a dispetto del nome – gravitava più attorno a Berlino che non a Roma. Questo movimento nel 1933 si affrettò a inserire nella sua bandiera il simbolo della svastica e non mancò di marcare le differenze rispetto alla British Union of Fascists di Oswald Mosley. L’immagine in questione fu pensata ai tempi della guerra d’Etiopia per accusare gli ebrei di aver addirittura armato la mano a Mussolini. Sotto all’effige si faceva un breve elenco di episodi in cui ebraismo e fascismo erano entrati in stretto contatto e si arrivava persino a definire Rodolfo Graziani come “the Jew Graziani”. In verità, anche qui, nulla di particolarmente nuovo: già nel 1924 il biografo nazionalsocialista di Mussolini – AdolfDresler – aveva condannato il fascismo come “movimento ebraico capitalista”: una definizione fuori luogo ma indicativa di certi orientamenti tedeschi[17].
Fino alla rottura del Fronte di Stresa non pochi furono gli episodi di convergenza tra l’Italia fascista e quelli che saranno i suoi futuri nemici in guerra. Italo Balbo nel 1933 fu trionfalmente ricevuto a Chicago in occasione della Crociera aerea del Decennale:la cittadinanza e i media della città guardarono all’evento con attenzione forse maggiore rispetto al volo di Lindbergh. Tra migliaia di persone, non si fecero attendere i saluti romani e le grida Eja, eja, alalà. Il gerarca italiano incontrò il sindaco, il governatore e si vide intitolare l’Eighth Street in Grant Park, che divenne Balbo Drive[18]. Lo stesso Mussolini, qualche tempo prima – parlando più al popolo statunitense che non al governo – disse: “I amveryglad to be able to express myfriendly feelings toward the American nation. The friendship with which Italy regards the millions of citizens who [...] live in the United States is deeply rooted in our hearts. [...] I admire the wonderful energy of the American people, and I see and recognize among you that the love of your land is as deep as ours, my fellow citizens, who are working to make America great. I salute the great American people! I salute the Italians of America, who unite in a single love of both nations!”[19].
Passando dalle relazioni politiche alle particolarità personali non dovrà stupire, a questo punto, la bizzarra vicenda di Corrado Gini. Economista, sociologo e, soprattutto, statistico di fama mondiale, introdusse il Coefficiente di Gini, fu legato a Mussolini e con i suoi studi influenzò le politiche fasciste. Sotto il governo del Duceguidò per lungo tempo l’Istituto Centrale di Statistica, che poi lasciò per conflitti con lo stesso Presidente del Consiglio. Pochi sanno che dopo la guerra, nonostante il suo passato da figura di spicco dell’italianità fascista, creò, con l’attivista scillese Santi Paladino e con il ricercatore ISTAT Ugo Damiani,il Movimento Unionista Italiano. Lo scopo di questa formazione?Il governo degli Stati Uniti avrebbe dovuto mettersi alla testa di tutte le nazioni libere e democratiche del mondo[20] (Italia in primis, ovviamente) in modo da creare un governo mondiale, consentendo di mantenere la Terra in una condizione di pace perpetua. La stravaganza del progetto non impedì al partito di eleggere un suo rappresentante in occasione delle elezioni per l’Assemblea Costituente.
3. Anticolonialismo, “antimperialismo” et cetera
La riduzione dell’Italia ad una regione di un governo globale statunitense, oltre a cozzare col buon senso, rappresentava lo stravolgimento pieno di quel patriottismo cui il governo di Mussolini faceva sovente riferimento. Nel fascismo delle origini questo principio era declinato addirittura in termini “antimperialisti”. Nella seconda dichiarazione del programma di San Sepolcro ci si opponeva “all’imperialismo degli altri popoli a danno dell’Italia e all’eventuale imperialismo italiano a danno di altri popoli”[21]. L’estensione delle colonie e l’assunzione da parte di Vittorio Emanuele III del titolo di Imperatore d’Etiopia smentirono questi propositi.
Se però la politica coloniale mussoliniana degli anni ’30 è nota al grande pubblico, molto meno lo sono certi atteggiamenti dei partiti comunisti negli anni successivi al conflitto mondiale. Decisamente poco “anticolonialiste” furono le posizioni di Togliatti quando venne il momento di discutere il destino delle terre africane sotto giurisdizione italiana. Al convegno sugli interessi italiani in Africa (1947), alti esponenti del PCI e PSI non si fecero scrupolo di prendere posizione in difesa dei “diritti” italiani in Africa[22]. Non solo: in occasione dell’eccidio di Mogadiscio del gennaio 1948 si confermarono la tendenza all’arroccamento ideologico e la scelta di campo imposta dal Comintern ai partiti comunisti europei. Su quell’episodio – secondo L’Unità – pesava “l’ombra cupa di una sanguinosa provocazione”[23] orchestrata probabilmente dai britannici[24].
Un atteggiamento non meno ambiguo fu quello del Partito Comunista Francese, in occasione della guerra d’Algeria (1954-1962). Sebbene di principii anticolonialisti e contrario ai metodi usati, il PCF sostenne per più di un anno e mezzo lo sforzo di guerra di Parigi[25]. Le proteste comuniste contro le operazioni militari furono più a livello locale che centrale: nel marzo 1956 il partito votò a favore dei “poteri speciali” che il Presidente del Consiglio Mollet chiese per l’amministrazione in Algeria. A partire dal luglio dello stesso anno, in occasione del suo 14° Congresso, il PCF si distanziò da queste posizioni[26].
4. Faide rosse: da Tito “canaglia degli inglesi” all’incontro Richard Nixon – Mao Zedong
Molti degli episodi riportati in precedenza sono stati da più parti – rapidamente e inopportunamente – incasellati come manifestazioni anche postume di “stalinismo” ma certamente non si può usare questo diversivo per alcuni esempi che seguiranno.
Prendiamo Josip Broz Tito. Dopo la guerra, la “fedeltà sovietica” del leader jugoslavo si fece sempre più sottile fino a spezzarsi. Più che all’URSS, Tito guardava ai Balcani e, indirettamente, all’Atlantico. Parlando di lui, a fine anni ’40, il Ministro degli esteri inglese Ernest Bevin arrivò a sostenere: “è un bastardo, ma è il nostro bastardo”[27]. Tito ricevette aiuti finanziari britannici e statunitensi[28] per la sua posizione anti-sovietica[29]. Un gran numero di comunisti “stalinisti” – jugoslavi e non – furono deportati sull’Isola Calva:nel campo di rieducazione morirono tra torture e stenti circa 4000 detenuti[30]. Seppure con una politica estera instabile, nel 1953 Tito siglò con due Paesi della Nato (Grecia e Turchia) il Patto Balcanico: un collegamento indiretto con le potenze atlantiche. Inutile dire che la morte di Stalin e i successivi attriti tra Grecia e Turchia resero debolissima l’alleanza, il governo di Belgrado iniziò a volgere l’attenzione altrove arrivando ad essere uno dei principali promotori del Movimento dei Paesi non allineati.
Il presidente jugoslavo non era certo l’unico comunista a girare le spalle a Mosca per strizzare l’occhio a Washington o a Londra. Si pensi, tra le altre, alle tensioni sino-sovietiche iniziate negli anni ’60 e alle operazioni cinesivolte a sobillare la secessione dei partiti comunisti sui quali Pechino aveva una certa influenza (esemplare il caso dell’Albania)[31]. Questo allontanamento dall’URSS ebbe uno dei suoi momenti più intensi in occasione della storica visita di Nixon a Mao Zedong e al successivo riconoscimento da parte dei cinesi della supremazia statunitense nel Pacifico: si arrivò a sostenere la comune determinazione di “opporsi a qualsiasi tentativo perpetrato da una terza potenza per affermare la propria egemonia nell’area”[32]. Un chiaro avvertimento al Cremlino.
E il rumeno Ceauşescu? La sua politica comunista eccentrica, e non troppo fedele a Mosca, lo rese piuttosto sgradito:non a caso, nel 1989, fu liquidato col beneplacito di sovietici e statunitensi[33].
5. Ebrei e sionisti: all’apice delle liaisons dangereuses
Se le particolari convergenze e divergenze politiche fin qui descritte paiono determinare complesse interpretazioni circa i grandi protagonisti della storia contemporanea, il caso sionista (o più generalmente ebraico) le supera senza dubbio per ampiezza e profondità.
Dall’Italia fascista, alla Germania nazionalsocialista, dall’Unione sovietica ai contatti con gli arabi, fino al solido rapporto con gli Stati Uniti, i sionisti ebbero consistenti relazioni con realtà che in altre fasi storiche assunsero il ruolo diaperte nemiche. In testi precedenti ci siamo soffermati sui rapporti con i regimi di Hitler, Mussolini e Stalin. Con particolare riferimento a Italia e Germania abbiamo trattato, giusto per citarne alcuni:la nascita del primo nucleo della marina ebraica sotto le insegne del fascismo a Civitavecchia, l’accordo di trasferimento nazi-sionista (Haavara), lo sviluppo della rete dei campi di riaddestramento (nel Reich) per i pionieri diretti in Palestina o verso altre destinazioni, e svariati altri episodi. Un caso che non abbiamo affrontato in precedenza, ma non meno controverso, è quello del Gruppo 13.
Trzynastka, ovvero tredici, era il numero civico di Via Leszno presso cui avevano sede nel ghetto di Varsavia, erano capeggiati da Abraham Gancwajch, ex attivista sionista e informatore della Gestapo[34]. Probabilmente credevano in una vittoria bellica tedesca: attraverso di loro fu istituita una forza di polizia al servizio della Gestapo per combattere il mercato nero nel ghetto. Il maggior beneficio offerto ai tedeschi consistette nel “consegnare loro dettagliati rapporti sulla vita del ghetto, soprattutto sulle attività illegali e clandestine”[35]. Gancwajch si scontrò con lo Judenrat e fu abbandonato dai suoi superiori. Scomparve dalla scena nella primavera del 1942, secondo alcune voci venne fucilato l’anno successivo. A differenza di altre situazioni di collaborazionismo nei ghetti posti sotto occupazione, secondo Yehuda Bauer, questo gruppetto ebraico cercò anche di “trovare un’intesa con i tedeschi su una base ideologica”[36]. Un altro caso – questa volta nel Vicino Oriente e ad opera di sionisti intransigenti – in cui degli ebrei proposero ai nazionalsocialisti un patto partendo da somiglianze ideologiche fu, all’inizio del conflitto mondiale, l’offerta (naufragata)di accordo militare fatta dal gruppo Lehialla Germania di Hitler per liberare la Palestina dall’occupazione britannica. Al Lehi appartenne anche il futuro premier Yitzhak Shamir.
Una squadra del Gruppo 13 marcia nel ghetto di Varsavia
Passando dalla Germania all’URSS, risulta curioso notare che pochi anni dopo – nel 1947-1948 – l’appoggio di Mosca alla fondazione di uno Stato ebraico, fu addirittura superiore a quello di Washington, in seguito principale alleato degli israeliani. Gli Stati Uniti si accodarono ma, nonostante tutto, temevano di irritare eccessivamente i loro partners commerciali arabi. Tra i più accesi detrattori del progetto era annoverato il segretario di Stato George Marshall che pochi giorni prima della proclamazione dell’indipendenza, guardò il presidente Truman negli occhi e gli disse che se avesse riconosciuto lo Stato ebraico avrebbe votato contro di lui alle elezioni di novembre[37]. Sulle relazioni sovietico-sioniste e sulla loro successiva rottura è consigliabile la lettura del saggio Perché Stalin creò Israele di Leonid Mlečin.
Non meno interessante, ma di breve durata, fu l’accordo tra l’emiro Faysal e il leader sionista Weizmann (1919). Con esso uno dei massimi esponenti del mondo arabo riconosceva – in linea di principio – il movimento sionista e gli “concedeva la Palestina”[38]. Ovviamente la merce di scambio, messa sul tavolo della politica internazionale, consisteva nella soddisfazione delle rivendicazioni arabe per un’indipendenza verace. L’Emiro Faysal (figlio del re dell’Hegiaz, sarebbe diventato“re della Siria e dell’Iraq”) chiarì che se questo aspetto non fosse stato rispettato dalle grandi Potenze, l’intero accordo sarebbe caduto, e così fu. A prescindere dall’esito del patto, risultano quantomeno inedite le dichiarazioni pro-sioniste da parte di un così alto rappresentante arabo in campo internazionale. Nell’articolo IV dell’accordo si scriveva: “Saranno presi tutti i provvedimenti necessari per incoraggiare e promuovere l’immigrazione degli ebrei in Palestina su larga scalae per far sì che al più presto possibile si stabiliscano nel paese degli ebrei per favorire la coltivazione intensiva del suolo”[39]. In una letteraa Felix Frankfurter, Faysal giunse a scrivere: “Noi arabi, specie quelli colti, consideriamo con la più grande simpatia il movimento sionista”[40]. Inutile dire che le ambizioni personali dell’emiro incidevano in modo chiaro sul suo atteggiamento politico. Questo accordo rappresenta senza dubbio la manifestazione più chiara delle tante occasioni in cui determinate convergenze di interessi tra israeliani da un lato e arabi o islamici dall’altro, si consumarono ai danni degli stessi arabi palestinesi o di altri popoli geograficamente prossimi alla Terra Santa.
L’Emiro Faysal I (destra) e Chaim Weizmann (sinistra), con abiti arabi, 1918
6. Vicino e Medio Oriente: Rumsfeld-Hussein, Irangate e oscillazione gheddafiane
Sicuramente vasta è la rete di “relazioni pericolose” che si è intrecciata nel Vicino e Medio Oriente – antico e futuro crocevia dei rapporti internazionali – dove realtà apparentemente inconciliabili hanno stipulato patti, trovandosi ad essere associati col “nemico del proprio nemico”.
Tra i tanti esempi che si possono citareil più significativo è forse quello relativo alla guerra Iran-Iraq (1980-1988). Donald Rumsfeld, che nel 1983 fu inviato da Reagan a stringere la mano a Saddam Hussein, nel 2003, da segretario della difesa, lanciò gli Stati Uniti verso l’invasione dell’Iraq e l’abbattimento del governo baathista. Ai tempi del conflitto con l’Iran, il rapporto Washington-Baghdad non si limitò ad una stretta di mano ma si spinse ad un consistente appoggio statunitense alle operazioni belliche di Saddam Hussein. Nel corso della stessa guerra gli Stati Uniti vendettero armi anche all’Iran degli ayatollah (dichiaratamente “antiamericani”), grazie ai buoni uffici dell’acerrimo nemico dello stesso Iran, Israele[41]. Il ricavato di questa operazione finì a finanziare niente meno che la controrivoluzione nicaraguense: quando questa operazione segreta venne resa nota (1986-1987) scoppiò lo scandalo Irangate (o Iran-Contras).
Anche su Gheddafi, trasformato in un’icona da certo “antimperialismo”, ci sarebbe molto da dire: in diverse occasioni si trovò ad essere utile per quell’”Occidente” che era “nemico dei suoi nemici”. Voltaire Network ha avuto modo di accusare Gheddafi di praticare spesso un doppio gioco funzionale agli interessi statunitensi[42]. Circa il suo ruolo di “disturbo”, Antonio Ferrari sostenne in un’intervista radiofonica: “Di vertici della Lega Araba, Gheddafi ne ha fatti fallire fin troppi. Io personalmente ne ricordo almeno quattro, di quelli a cui fui presente personalmente. [...] Che Gheddafi facesse il guastafeste per crearsi uno spazio, oppure per conto terzi, lo lascio alla immaginazione degli ascoltatori”[43]; non pochi dubbi aleggiano anche sulla sua assunzione di responsabilità relativa alla faccenda dell’aereo della PanAm precipitato a Lockerbie[44].Il leader libico, tra l’altro, “giocò un ruolo centrale”[45] al tempo della restaurazione al potere di Gafaar Nimeiry, quando nel 1971 era stato temporaneamente allontanato dal potere da un colpo di stato comunista, il suo ritorno in sella portò all’uccisione di molti oppositori[46]. Non solo: ancora oggi non è stata dimenticata dagli sciiti libanesi la misteriosa fine fatta in Libia nel 1978 dal loro leader MoussaSadr: i suoi seguaci accusarono Gheddafi di averlo fatto sparire insieme ai suoi due compagni di viaggio[47]. Forse anche in memoria di questo, i vertici religiosi iraniani non si stracciarono le vesti al momento dell’abbattimento del governo libico nel 2012.
Ci fermiamo, ma ogni paragrafo di questo breve saggio potrebbe essere ampiamente allungato.
Manifestazione in cui si chiede a Gheddafi di liberare Moussa Sadr (immagine tratta da PALAESTINA FELIX, palaestinafelix.blogspot.com/ )
[1] “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, che pone nella carne il suo sostegno e dal Signore si allontana il suo cuore. Egli sarà come un tamerisco nella steppa, quando viene il bene non lo vede […]”. Geremia 17-5,6.
[2]MariekeKleiboer, The Multiple Realities of International Mediation, Lynne Rienner Publishers, 1998, pag. 137.
[3]Patrick O’Sullivan, Geopolitics, Taylor & Francis, 1986, pag.128.
[4]Política, Volumi 16-18, Instituto de CienciaPolítica, Universidad de Chile, 1988, pag. 92.
[5] Cfr.: Isidoro Gilbert, El oro del Moscù, Sudamericana, 2011, Cap. 14.
[6]DeutscheDemokratischeRepublik, Repubblica Democratica Tedesca.
[7]Cooperazione nel Mediterraneo occidentale, Istituto affari internazionali, 1972, pag. 25.
[8]Stanford M. Lyman, NATO and Germany: A Study in the Sociology of Supranational Relations, University of Arkansas Press, 1995, pag. 124.
[9]Philipp Gassert, Alan E. Steinweis, Coping With the Nazi Past: West German Debates on Nazism and Generational Conflict, 1955-1975, Berghahn Books, 2006, pag. 19.
[10]Mirko Tomasino, Salvatore Giuliano e il Separatismo siciliano: riflessioni storiche, Liber Iter, 2012, pag. 43.
[11] Ruggiero Capone, La politica milazziana dell’Mpa nasce e muore nell’Isola, L’Opinione delle Libertà, 21 settembre 2010.
[12] Cfr.: Arrigo Petacco, L’uomo della Provvidenza, Edizioni Mondadori, 2010
[13] Guglielmo Salotti, Nicola Bombacci: un comunista a Salò, Mursia, 2008, pag.10
[14] Annali dell’Istituto Feltrinelli, Volume 13, 1971, pag. 32.
[15]Marina Cattaruzza, La nazione in rosso: socialismo, comunismo e “Questione nazionale” : 1889-1953, Rubettino, 2005, pag. 298.
[16] Si pensi al Fronte di Stresa del 1935 (accordo “anti-tedesco” siglato da Italia, Francia e Regno Unito).
[17] Marco Costa, A tu per tu con Andrea Giacobazzi, Stato&Potenza.eu, 22 febbraio 2012.In relazione a Dresler: YadVashem Studies on the European Jewish Catastrophe and Resistance, Issue 4, 1960, pag. 13.
[18] Dominic Candeloro, Chicago’s Italians: Immigrants, Ethnics, Americans, Arcadia, 2003, pag. 133.
[19] Frank Joseph, Mussolini’s War: Fascist Italy’s Military Struggles from Africa and Western Europe to the Mediterranean and Soviet Union 1935-45, Casemate Publishers, 2010, pag. 139; visibileanchesu YouTube: http://www.youtube.com/watch?v=8FsUgoghtRo .
[20] Gabriella Fanello Marcuccim, Il primo De Gasperi (dicembre 1945-giugno 1946): sei mesi decisivi per la democrazia in Italia, Rubbettino Editore, 2004, pag. 114.
[21] “L’adunata del 23 marzo dichiara di opporsi all’imperialismo degli altri popoli a danno dell’Italia e all’eventuale imperialismo italiano a danno di altri popoli; accetta il postulato supremo della Società delle Nazioni che presuppone l’integrazione di ognuna di esse, integrazione che per quanto riguarda l’Italia deve realizzarsi sulle Alpi e sull’Adriatico con la rivendicazione e annessione di Fiume e della Dalmazia[…]”. Seconda dichiarazione del Programma di San Sepolcro, pubblicato su Il Popolo d’Italiadel 24 marzo 1919, cfr.: G. Rumi, Alle origini della politica estera fascista (1918-1923), Laterza, 1968, p. 22.
[22]Marco Galeazzi, Il PCI e il movimento dei paesi non allineati (1955-1975), FrancoAngeli, 2011, pag. 33.
[23]R. Grieco, Dopo Mogadiscio, L’Unità, 22 gennaio 1948.
[24]Marco Galeazzi, Il PCI e il movimento dei paesi non allineati (1955-1975), FrancoAngeli, 2011, pag. 33.
[25]Gil Merom, How Democracies Lose Small Wars: State, Society, and the Failures of France in Algeria, Israel in Lebanon, and the United States in Vietnam, Cambridge University Press, 2003, pag. 91.
[26]Phil Hammond, Media, War & Postmodernity, Routledge, 2007, pag. 84.
[27] Will Podmore, British Foreign Policy Since 1870, Xlibris Corporation, 2008, pag. 110.
[28] Wayne S. Vucinich, JozoTomasevich, Contemporary Yugoslavia: Twenty Years of Socialist Experiment,University of California Press, 1969 , pag. 170; et Richard J. Aldrich, British Intelligence, Strategy and the Cold War, 1945-51, Routledge, 1992, pag. 72.
[29] Questo tuttavia non portò la Jugoslavia proprio dove desideravano gli inglesi e gli statunitensi. Pare che la CIA nello stesso periodo tentò di rovesciare il governo di Tito, cfr: Richard J. Aldrich (op. cit.).
[30] Enrico Miletto, Istria allo specchio: storia e voci di una terra di confine, FrancoAngeli, 2007, pag. 167
[31]Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali (1918-1999), Laterza, 2006, pag. 1192.
[32]Ibidem.
[33]Cfr: Marco Costa, Conducator: l’edificazione del socialismo romeno, Edizioni all’insegna del Veltro, 2012.
[34]Yehuda Bauer, Ripensare l’Olocausto, Dalai, 2009, pag. 187.
[35]Ivi, pag. 188.
[36]Ivi, pag. 189.
[37] LeonidMlečin, Perché Stalin creò Israele, Sandro Teti Editore, 2010, pag. 136.
[38] Eugene Rogan, Gli arabi, Bompiani, 2012.
[39]Relazioni internazionali, Volume 16, Istituto per gli studi di politica internazionale, 1952, pag. 751
[40] Paolo Maltese, Nazionalismo arabo e nazionalismo ebraico, 1798-1992: storia e problemi, Mursia, 1992, pag. 81
[41]Si riflette correttamente inGli occhi bendati sul Golfo di (Alberto Bernardino Mariantoni e Fred Oberson, Jaca Book, 1991, pag. 88): “Nonostante l’inimicizia viscerale e reciproca che esisteva in quell’epoca tra TelAviv e Teheran, era chiaro che il nemico principale da cui Israele doveva cercare di difendersi era l’Iraq di Saddam Hussein e non, certo, l’Iran di Khomeini.[...] Non potendo impedire le forniture militari e tecnologiche occidentali nei confronti dell’Iraq, per le ragioni che abbiamo visto (cioè, la necessità per l’Occidente di sbarrare, costi quel che costi, la strada al al khomeinismo), Israele dapprima e gli Stati Uniti in seguito, pensarono bene di riequilibrare il conflitto Iraq-Iran, aiutando «sotto banco» il regime degli ayatollah. Lo scopo: impedire la vittoria militare del regime di Bagdad e, in ultima analisi, prolungare «sine die» una guerra i cui protagonisti, in definitiva, altri non erano che due nemici giurati di Tel Aviv e di Washington”.
[42] “Colonel Qaddafi has for many years indulged in a devious double game, at the risk of alienating himself from both sides at the same time. He flaunted an ultra-radical rhetoric against U.S. imperialism and Zionism, while often serving their interests, including that of executing orderd to liquidate some of their main opponents”. Cfr:
Voltaire Network, Israel flies to the rescue of ally Khadafi, 5th march 2011, http://www.voltairenet.org/Israel-flies-to-the-rescue-of-ally
Voltaire Network, Israel flies to the rescue of ally Khadafi, 5th march 2011, http://www.voltairenet.org/Israel-flies-to-the-rescue-of-ally
[43] Antonio Ferrari, La guerra in Iraq si poteva evitare con l’esilio di Saddam ma Gheddafi agì per impedirlo, Radio Radicale, 5 ottobre 2010, trascritto in: Maurizio Blondet, Se perde, Gheddafi può fare aliyah, 8 marzo 2011, effedieffe.com.
[44]Ibidem.
[45]EzatMossallanejad, Religions and the Cruel Return of Gods, Zagros Editions, 2012, pag. 166
[46]Ispi – Annuario Di Politica Internazionale, 1967/1971, Dedalo, pag. 342
[47] Olivier Roy, Antoine Sfeir, Dr. John King, The Columbia World Dictionary of Islamism, Columbia University Press, 2007, pag. 58
Fonte: