di DANIEL MOSCARDI
Il 27 Aprile 1859 segna una data epocale nella storia della Toscana, segnando di fatto la fine di 122 anni di regno della dinastia degli Asburgo-Lorena e, di fatto, la fine del Granducato.
Nel tardo pomeriggio di quel mercoledì dopo Pasqua, infatti, il Granduca Leopoldo e la sua famiglia lasciavano per sempre Firenze in direzione di Bologna e da lì a Vienna con poco più che i vestiti indosso, avendo scelto di abbandonare la Toscana piuttosto che provocare (improbabili) spargimenti di sangue a causa dei (pochi) tumulti inscenati ad arte dagli agenti piemontesi inviati allo scopo a Firenze.
In realtà tutto quello che accadde fu l’esposizione del tricolore italico alle finestre di alcuni edifici già predisposti in precedenza da chi aveva organizzato la cosa, in modo da far credere al Granduca che la città era tutta dalla parte del Piemonte. Fu una semplice quanto abile operazione di propaganda da parte di poche decine di persone.
La storiografia ufficiale negli anni ci ha propinato la favoletta del tiranno oppressore che fugge inseguito dalla folla ormai pronta alla sollevazione in massa. Altra menzogna fra le tante costruite ad arte per giustificare l’unità d’Italia.
Niente di tutto questo. E’ noto che i fiorentini si tolsero il cappello e salutarono rispettosamente “il babbo” (così veniva chiamato affettuosamente il sovrano dal popolo) mentre percorreva il tragitto che da Palazzo Pitti lo portava verso la via Bolognese. Pochi in realtà sapevano cosa stava accadendo, tranne gli organizzatori dei “tumulti di piazza”, e sicuramente il Granduca stesso pensava, come accadde 11 anni prima, che si trattasse di un esilio temporaneo. Ma così non fu.
Che la dimora dell’ambasciatore piemontese a Firenze, il conte Boncompagni, fosse il “centro direzionale” delle trame eversive era cosa ormai nota da tempo, tant’è che qualcuno, alcuni giorni prima di quel fatidico mercoledì si sentì in dovere di avvertire l’Arciduca Ereditario Ferdinando che qualcosa andava fatto, e presto, onde scongiurare il golpe ormai alle porte.
Ma il povero Ferdinando, dinanzi alla fatale inerzia del padre, aveva le mani legate, e il 27 Aprile è costretto ad assistere, da spettatore inerme, alla completa incapacità del padre di fronte all’incalzare degli eventi, e lo scrive nel suo diario:
“…piansi di rabbia della debolezza di mio Padre, piansi pel Paese, che si troverebbe in balia nuovamente degli esaltati e della canaglia, piansi per la figura ridicola e triste che si faceva tutti.”
E’ recente la scoperta delle memorie di un fidato ufficiale superiore dell’esercito Granducale, il Tenente Colonnello Michele Sardi, presso l’archivio privato di una famiglia fiorentina. Da queste memorie si desume che il fedele colonnello Sardi aveva già pronto un piano per stroncare l’intero gruppo di organizzatori del golpe, anche a costo della propria carriera.
Il piano del Sardi era ambizioso quanto audace: infiltrare una spia nell’edificio di fronte alla casa dell’ambasciatore piemontese a Firenze che al momento opportuno avrebbe dato il segnale per l’irruzione dei gendarmi toscani e il conseguente arresto di tutti i componenti del “comitato dirigente la cospirazione e dove convenivano i principali capi: Ricasoli, Peruzzi, Avvocato Galeotti, eccetera, (la spia in osservazione) poteva facilitare le mie vedute ed informarmi esattamente del momento in cui avrei farli sorprendere da buon numero di Gendarmi, arrestarli tutti, e silenziosamente tradurli a Volterra (cioè nella fortezza, tuttora carcere) e di lì a Portoferraio (…) e questo era un colpo che (…) dovendo ricadere su di me tutta la responsabilità, persuaso che il Granduca, per delicatezza, mi avrebbe forse anche destituito ma, quando era fatto, lo scopo desiderato era raggiunto e tanto bastava!”
Ma il timorato Granduca Leopoldo non assecondò l’audace piano del colonnello Sardi e il resto è storia.
Alla fine, è proprio il caso di dirlo, il principale artefice della fine del Granducato fu il Granduca stesso e la sua più completa incapacità a reagire a quanto stava accadendo. Non lo aiutarono un inetto primo ministro, Giovanni Baldasseroni, che fino all’ultimo fece compagnia al Granduca nel non comprendere quanto veniva preparato sotto i suoi occhi, e il comandante delle truppe granducali, generale Ferrari, che nulla fece per far affezionare le truppe al Granduca.
Rimane il ruolo dell’occulto macchinatore dietro le quinte, e cioè il Cavour. Chi pensasse di trovare quantità di lettere e istruzioni del Camillo Benso al suo agente in Toscana, ovvero l’ambasciatore Boncompagni, rimarrà deluso.
Il Boncompagni, soprattutto nei mesi precedenti l’Aprile 1859, fece un continuo andirivieni tra Firenze e Torino. Lo scopo? Impartire da parte del Cavour il maggior numero di istruzioni orali. Verba volant sed scripta manent, e questo il furbo Cavour lo sapeva bene.
Ma è ormai certo che all’ambasciatore piemontese furono dati ordini anche per un possibile Piano B, ovvero quello da mettere in atto nel caso che il Granduca avesse resistito e avesse scelto di rimanere a Palazzo Pitti.
Era sicuramente pronta una opzione militare che grazie al pacifico Leopoldo non fu messa in atto, e alla fine di quella giornata primaverile i fiorentini poterono andare a cena senza che un solo colpo di fucile o cannone fosse stato sparato in quella che i libri di storia chiameranno poi la “civilissima rivoluzione”.