Riproduciamo - data la vicinanza del viaggio di Francesco in Terra Santa - questo articolo del settembre 2012, apparso sul quotidiano Rinascita e ripubblicato recentemente nel libro Anche se non sembra.
Cattolicesimo e sionismo. Eterna Dottrina e costruzione dell’indipendenza israeliana.
di Andrea Giacobazzi
La conversione degli ebrei a Cristo è, nella retta Dottrina, un dato fondante. Note – ancor più in tempi recenti - sono le preghiere cattoliche pro conversione Judæorum. Questo elemento è irrinunciabile per la comprensione delle relazioni e degli atti politici che hanno coinvolto in passato esponenti della Chiesa da un lato ed ebrei dall’altro.
Già da questi presupposti si intende facilmente come per la teologia cattolica non sia contemplato un diritto, esistente per se, alla creazione di uno Stato israelitico. Si può con ragione affermare che la questione sia risolta in termini metafisici prima che politici, ovvero nella dottrina prima che nella prassi: in sostanza l’urgenza sta nella conversione non nella costituzione di uno Stato la cui stessa esistenza non si potrebbe realizzare se i giudei abbracciassero la Fede Cristiana.
Visto però il sussistere de facto di comunità che non convertendosi si mantengono legate al giudaismo, per accidens non appare vietato che gli ebrei possano insediarsi in un territorio comune ed autonomo, in qualche parte del mondo, ovviamente senza che questo porti ad identificare il suddetto territorio con la Terra Santa e la sua trasformazione in "Stato ebraico". Quanto dato è confortato dal fatto che nelle società cristiane sia stata tradizionalmente tollerata de jure la presenza israelitica anche in spazi separati. Vedremo in seguito quale fu la posizione della Santa Sede rispetto allo sviluppo del focolare nazionale in Palestina e al momento dell’indipendenza dello Stato ebraico. Nel complesso, per dirlo con Rita Campus, si può affermare che "nell'opposizione alla formazione di uno Stato ebraico in Terra Santa da parte del Vaticano si intrecciavano motivazioni sia di ordine sia politico che teologico, complicate dalla delicata questione dei Luoghi Santi"[1].
Una volta chiarito ciò che indica il Magistero - per cui vale il principio “semper idem”, ovvero che non può mai contraddirsi - i modi con cui devono essere affrontate le questioni connesse alla presenza ebraica entrano nell’ambito della prassi politica, che pure – è bene ribadirlo – deve essere un’ortoprassi, ossia ispirata ai dettami della religione.
Quando il fondatore Teodoro Herzl decise di chiedere udienza a Papa Pio X (San Pio X, il solo Pontefice che negli ultimi quattro secoli si può fregiare del titolo di “Santo”, canonizzato da Pio XII), pare che le risposte del Capo della Chiesa furono tutt’altro che soddisfacenti per l’ideatore del sionismo. Il rifiuto fu netto: “Non riusciremo ad impedire agli ebrei di andare a Gerusalemme ma non potremo mai favorirlo”, “Gli ebrei non hanno riconosciuto il Signore nostro, quindi noi non possiamo riconoscere il popolo ebraico”, “Certo che preghiamo per loro, perché il loro spirito veda la luce. Proprio oggi la Chiesa celebra la festa dei non credenti che si sono convertiti in qualche modo miracoloso, come sulla strada di Damasco. Quindi se lei intende andare in Palestina a stabilirvi il suo popolo, saremo pronti con chiese e sacerdoti a battezzarvi tutti”[2].
Le stesse parole di San Pio X sullo “spirito che deve vedere la luce” erano mutuate dalla celeberrima preghiera del Venerdì Santo in cui si afferma in relazione agli ebrei: ut, agnita veritatis tuae luce, quae Christus est, a suis tenebris eruantur (affinché riconosciuta la luce della tua verità, che è Cristo, siano sottratti alle loro tenebre)[3].
Benedetto XV, successore di San Pio X, apparve politicamente meno intransigente. Quando nel 1917 concesse udienza a Nahum Sokolov, il dirigente del movimento nazionale ebraico riportò un opinione positiva del Pontefice e dell'incontro ma dopo la Prima Guerra Mondiale, nel momento in cui l'avanzamento del progetto nazionale si fece concreto, la Santa Sede non mancò di esprimere perplessità – se non vera e propria contrarietà – per lo sviluppo del piano nazionale sionista: il concentramento di alcuni gruppi ebraici poteva essere tollerato o caritatevolmente aiutato (in particolare per gli ebrei oppressi) ma il rischio della nascita di un vero e proprio Stato non era ammissibile nei Sacri Palazzi; negli anni che seguirono il conflitto, il Vaticano auspicava in ogni caso che i santuari "fossero posti sotto supervisione internazionale"[4]. Il Cardinale Segretario di Stato Pietro Gasparri, parlando col diplomatico belga Jules Van den Heuvel sostenne che “la trasformazione della Palestina in Stato ebraico non avrebbe solo messo in pericolo i Luoghi Santi e colpito i sentimenti dei cristiani ma sarebbe stato molto nocivo per lo stesso Paese”[5]. Di lì a qualche giorno lo stesso Papa Benedetto XV, rivolgendosi al rappresentante britannico John de Salis espresse le sue paure circa i progetti che in Palestina stavano prendendo piede[6]. Questi stessi timori furono ribaditi dal Pontefice nel suo discorso concistoriale del 10 marzo 1919 in cui affermò: "sarebbe certo un grave dolore per Noi e per tutti i fedeli Cristiani, se gl’infedeli venissero a trovarsi in Palestina in una posizione di privilegio e di preponderanza; molto più, poi, se quei santuari santissimi della Religione cristiana venissero affidati ai non cristiani"[7]. La contrarietà fu sottolineata sempre nel marzo 1919 dallo stesso Segretario di Stato Gasparri: “Il pericolo che maggiormente temiamo consiste nello stabilimento di uno Stato ebraico in Palestina”[8]*. Nel giugno 1921 il Papa ribadiva nuovamente ai cardinali riuniti in concistoro segreto: "Nella Terra Santa la condizione dei cristiani non solo non è migliorata, ma anzi è peggiorata a seguito delle nuove leggi e degli ordinamenti colà stabiliti, i quali mirano — non diciamo per volontà dei legislatori, ma certamente nei fatti — a scacciare la cristianità dalle posizioni che ha finora occupate, per sostituirvi gli ebrei"[9]. E ancora: "Poiché la condizione della Palestina non è stata ancora definitivamente regolata, Noi fin d’ora leviamo la Nostra voce affinché, quando sarà giunto il tempo di darle un assetto stabile, siano assicurati alla Chiesa Cattolica e a tutti i cristiani i loro diritti inalienabili. Noi non vogliamo certamente che siano menomati i diritti del mondo ebraico; intendiamo però che essi non si debbano in alcun modo sovrapporre ai sacrosanti diritti dei cristiani"[10].
Durante gli anni Venti il periodico Israel fu "protagonista di uno scontro con L'Osservatore Romano a proposito dell'insediamento ebraico"[11].
Col 1922 salì sul Trono di Pietro Pio XI che nel dicembre di quell'anno ribadì la posizione cattolica in difesa dei Luoghi Santi: "E per accennare a qualcuno dei pericoli più gravi, Ci tengono tutt'ora in vivissima angustia le cose della Palestina, di quella terra benedetta che fu la culla della nostra fede e che fu bagnata dai sudori e dal Sangue del nostro Redentore Divino. E voi stessi ben sapete, o Venerabili Fratelli, quale opera abbia spiegato nel difendere i diritti dei Luoghi Santi il Predecessore Nostro desideratissimo Benedetto XV di cui ci resta monumento gravissimo la memoranda Allocuzione pronunciata nel giugno dello passato anno"[12]. Sempre Pio XI riaffermò i diritti dei cattolici in Terra Santa "non solo di fronte agli israeliti ed infedeli, ma anche agli acattolici, a qualsiasi setta o nazione appartengano"[13].
L’11 ottobre 1924 l’Unione Cattolica pro Luoghi Santi e Pellegrinaggi si rivolse alla Società delle Nazioni chiedendo che venisse respinto il movimento sionistico. Con un documento si invitavano gli italiani a "prendere posto con parola e con la stampa contro il pericolo sionista fomentato dalle losche propagande delle molteplici e policrome logge massoniche nazionali ed internazionali"[14]. Allo stesso tempo il movimento sionista veniva definito anticristiano e si sottolineava come gli ebrei non avessero diritto ad una loro patria per la condanna divina che grava su di loro[15].
Riccardo Calimani[16], nella sua Storia del pregiudizio contro gli ebrei afferma che in quegli anni il Vaticano era "antisionista ma non per questo si può dire che fosse antisemita: pur con cautele e non senza ambiguità intervenne a favore degli ebrei perseguitati"[17].
La sostanziale stabilità della politica vaticana di contrarietà verso la creazione di uno Stato sionista si riflesse, come già accennato, in importanti organi della stampa, tra cui La Civiltà Cattolica, che in quegli anni sommava un chiaro antisionismo con una forte critica dell'ebraismo.
Sebbene alcuni documenti recentemente scoperti[18] paiano indicare nel successore Pio XII (Eugenio Pacelli, il cui Pontificato durò dal 1939 al 1958) un atteggiamento più aperto rispetto alle istanze sioniste, restava assolutamente ferma la posizione circa l'urgenza della conversione degli ebrei. Alla nascita dello Stato d’Israele (1948) il commento dell’Osservatore Romano non lasciava spazio a dubbi: “Il moderno sionismo non è il vero erede dell’Israele Biblico ma uno stato secolare […] Di conseguenza la Terra Santa e suoi Luoghi Santi appartengono alla Cristianità, il Vero Israele[19]”. Effettivamente l’uso stesso della parola “Israele” attribuita allo Stato ebraico, suona come una sostituzione rispetto al Novus Israel, Verus Israel incarnato dalla Chiesa di Cristo, pienamente titolare di quella Nuova Alleanza che ha completato e rimpiazzato l’Antica.
In termini politici è necessario ribadire che alla fondazione dello Stato il Vaticano non diede luogo ad un riconoscimento ufficiale. Ancora nel 1949 la Congregazione di Propaganda Fide, pubblicò sul suo bollettino d'informazione un articolo in cui si interrogava sul sionismo "novello nazismo"[20]; la stessa Documentation Catholique definì il sionismo come "nazismo sotto nuove forme"[21]. Parallelismi arditi ma sintomatici di uno stato d'animo presente nelle gerarchie. Recentemente Lorenzo Cremonesi - recensendo sul Corriere della Sera il saggio di Paolo Zanini Aria di Crociata. I cattolici italiani di fronte alla nascita dello Stato di Israele (1945-51) - ha parlato di conferme alle marcate "ostilità della Chiesa di Pio XII nei confronti del sionismo"[22].
Diversi furono i richiami di Papa Pacelli nel periodo in cui prendeva forma l’indipendenza israeliana, forte e decisa fu la richiesta dell'internazionalizzazione di Gerusalemme. Nell'Enciclica In Multiplicibus Curis il Sommo Pontefice affermava: "Siamo pieni di fiducia che queste suppliche e queste aspirazioni indice del valore che ai Luoghi Santi annette così gran parte della famiglia umana, rafforzino negli alti consessi, nei quali si discutono i problemi della pace, la persuasione dell'opportunità di dare a Gerusalemme e dintorni, ove si trovano tanti e così preziosi ricordi della vita e della morte del Salvatore, un carattere internazionale che, nelle presenti circostanze, sembra meglio garantire la tutela dei santuari. Così pure occorrerà assicurare con garanzie internazionali sia il libero accesso ai Luoghi Santi disseminati nella Palestina, sia la libertà di culto e il rispetto dei costumi e delle tradizioni religiose"[23].
Il Venerdì Santo del 1949 ancora una volta il Pontefice lanciava i suoi richiami attraverso l'Enciclica Redemptoris Nostris: "Con la sospensione delle ostilità, si è ancora lungi dallo stabilire effettivamente in Palestina la tranquillità e l'ordine. Infatti, giungono ancora a Noi i lamenti di chi giustamente deplora danni e profanazione di santuari e di sacre immagini, e distruzione di pacifiche dimore di comunità religiose. Ci giungono ancora le implorazioni di tanti e tanti profughi, di ogni età e condizione, costretti dalla recente guerra a vivere in esilio, sparsi in campi di concentramento, esposti alla fame, alle epidemie e ai pericoli di ogni genere. […] Questa pace, vera e duratura, Noi abbiamo ripetutamente invocato; e, per affrettarla e consolidarla, già dichiarammo nella Nostra lettera enciclica In multiplicibus «essere assai opportuno che per Gerusalemme e per i suoi dintorni - là dove si trovano i venerandi monumenti della vita e della morte del divin Redentore - sia stabilito un regime internazionale, che nelle attuali circostanze sembra il più adatto per la tutela di questi sacri monumenti»"[24].
Si può affermare in conclusione che negli anni della costruzione dell'indipendenza la posizione del Vaticano rispetto alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina fosse sostanzialmente contraria. L'idea di uno spazio per i rifugiati, magari di un focolare in cui non si giungesse ad una pericolosa subordinazione dei gentili o l'aiuto verso gli israeliti in occasione di questa o di quella persecuzione furono argomenti discussi e talvolta approvati. Il soccorso pontificio fu in più occasioni prestato agli ebrei da Benedetto XV (e.g. presa di posizione ufficiale della Santa Sede conto le azioni antisemitiche in Polonia, febbraio 1916[25]), da Pio XI ai tempi della condanna dottrinale del razzismo e del paganesimo nazionalsocialista (Enciclica Mit Brenneder Sorge) o, giusto per fare un ulteriore esempio, da Pio XII quando protesse gli ebrei dalla deportazione nei campi tedeschi. Questi, ed altri, furono chiari esercizi di carità cristiana verso uomini esposti a grandi rischi e a forti vessazioni. Se la Chiesa rigettò tanto l'antisemitismo di marca hitleriana (intrinsecamente anticristiano) quanto il nazionalismo sionista, questo non impedì di mantenere una posizione priva di compromessi teologici circa l'importanza della conversione degli ebrei al Cattolicesimo.
Negli anni '20, '30, e '40 vi furono ebrei sionisti e fascisti che cantavano insieme Hatikva, futuro inno nazionale israeliano, e Giovinezza, inno del Partito Nazionale Fascista, altri - socialisti - associavano Hatikva a canti sovietici, altri ancora intonarono God save the King. Un ebreo sionista poteva essere al contempo fascista (almeno fino al 1938), socialista, liberale, monarchico, radicale o altro ma non poteva certamente essere cattolico. O ebreo o cattolico: lungo via della Conciliazione, in quegli anni, non si sentirono troppi gruppi sionisti suonare la Marcia Pontificale. Una nota conclusiva sulla vexata quaestio di Pio XII: sugli scaffali delle librerie italiane in anni recenti si sono trovati fianco a fianco saggi con titoli come Il Papa di Hitler[26] o Il Papa degli Ebrei[27]. Quest'ultimo testo ebbe il merito di mettere in luce verità che erano state offuscate da certa propaganda. Apparirà scontato ma è bene ribadire che, copertine a parte, Pio XII non fu Papa dei nazionalsocialisti o dei giudei ma "semplicemente" Papa della Chiesa Cattolica, tanto nella sua volontà quanto nei suoi atti.