Con quest'articolo continua la pubblicazione in varie puntate (qui la prima) di una "Breve storia critica del Crocifisso nell'arte a cura di Luca Fumagalli, socio fondatore e membro storico di Radio Spada. Ogni puntata sarà pubblicata, salvo emergenze, nel giorno di Sabato (tranne questa eccezionalmente di giovedì) , in ossequio alla Beata Vergine Maria, Regina e Corredentrice del genere umano.
di Luca Fumagalli
2. Archeologia della Passione
Il supplizio della croce non era in uso presso il popolo ebreo. Una volta sola, in tutta la storia giudaica, Giuseppe Flavio, ricorda questa pena a proposito di uno degli Asmonei, che avrebbe fatto crocifiggere parecchi prigionieri[1]. Il popolo ebreo lapidava quelli che riteneva rei di morte. La crocifissione invece era comune ad alcune popolazioni antiche quali gli egiziani, i persiani, i fenici, i cartaginesi e naturalmente i romani[2] che, una volta conquistata la Palestina nel 63 a.C, esportarono questa pratica anche in quelle terre.
La pena della croce era riservata soltanto a coloro che non possedevano la cittadinanza romana e che si erano macchiati di gravi delitti. La croce era dunque il patibolo riservato ai delinquenti più vili, agli assassini, ai traditori, ai falsari. Tutta quella feccia della società di cui Nostro Signore condivise la sorte.
Data la vasta estensione dell’impero romano possiamo ipotizzare applicazioni della crocifissione differenziate da regione a regione che però non andavano ad intaccare nella sostanza lo svolgimento usuale della pena: il giudice, riconosciuta la colpevolezza dell’imputato, dettava il titulus, cioè la motivazione della sentenza[3], e indicava le modalità d’esecuzione, compiuta poi dai carnefici, o, nelle province, dai soldati. Nel caso di Gesù il titolo, “Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum”, era scritto in tre lingue: ebraico, greco (lingua ufficiale e internazionale dell’epoca, un po’ come oggi l’inglese) e in latino, la lingua giudiziale. Non c’è alcun motivo storico per ritenere, come testimonia moltissima produzione artistica, che la scritta fosse abbreviata nelle iniziali I.N.R.I. L’utilizzo nell’arte di questa famosissima formula è spiegabile piuttosto semplicemente: il titulus non solo risultava più leggibile, ma permetteva così all’artista di non dover perdere troppo tempo a scrivere con precisione un messaggio assolutamente ancillare nel complesso della simbologia cristologica[4].
Denudato e legato ad un palo o ad una colonna, il condannato veniva colpito con strumenti diversi a seconda della condizione sociale. Per gli schiavi e i provinciali c’era il flagrum o flagellum, formato da due o tre strisce di cuoio o corda intrecciate con schegge di legno oppure ossicini di pecora o piccole palline di piombo che provocavano serie lacerazioni ed abbondanti versamenti di sangue (spesso le ferite erano così profonde da mettere allo scoperto le ossa e sovente i martoriati spiravano sotto le battiture).
Il condannato veniva poi rivestito e condotto al supplizio. Il titulus, appesogli al collo o portato da un banditore, aveva la funzione d’informare i passanti sulle sue generalità, sul delitto e sulla sentenza. I responsabili d’efferati delitti erano caricati del patibulum, un palo orizzontale in legno, e legati ad esso (come accadde a Gesù). Se i malcapitati erano più di uno, venivano legati tra loro con una lunga corda che poteva passare intorno al collo, ai piedi o ad un’estremità del patibulum. Lungo il cammino essi subivano strattoni e venivano oltraggiati, maltrattati, pungolati e feriti per indebolirne la resistenza. Giunti sul luogo dell’esecuzione, situato sempre fuori dalle mura cittadine, erano spesso già piantati i pali verticali, gli stipes (di altezza variabile dai 2,30 m ai 5 m), su cui fissare i patibulum. Il condannato veniva spogliato e i suoi vestiti diventavano proprietà dei carnefici, quale prezzo della loro prestazione; probabilmente (ma sussistono ancora alcuni dubbi) il Crocifisso non era completamente nudo[5]. Veniva poi appeso alla croce per le braccia e per i piedi con quattro chiodi (due per le mani e due per i piedi che venivano inchiodati separatamente); preventivamente però le mani gli erano state legate da alcune corde al fine di agevolare l’inchiodatura da parte dei soldati che altrimenti sarebbe stata impossibile a causa delle contrazioni e degli spasmi dei giustiziati[6].
Con la crocifissione si voleva provocare una morte lenta, dolorosa e terrificante, esemplare per chi ne era testimone: Cicerone lo chiama ora «supplizio il più crudele e il più tetro» ora «estremo e sommo supplizio della schiavitù»[1]. Bevande drogate (mirra e vino) o miscele d’acqua e aceto servivano a dissetare, tamponare emorragie, far riprendere i sensi, resistere alla sofferenza, mantenere sveglio il crocifisso perché confessasse le sue colpe. Raramente la morte veniva accelerata; se ciò accadeva era per motivi d’ordine pubblico, per interventi d’amici del condannato, per usanze locali. Si provocava la morte in due modi: col colpo di lancia al cuore (come fu fatto anche per Gesù) o col crucifragium, cioè la rottura delle gambe, che privava il condannato d’ogni punto d’appoggio con conseguente soffocamento per l'iperestensione della cassa toracica (non è possibile espirare completamente e viene meno quindi l'apporto di aria ossigenata all'organismo). Altre cause di morte erano il dissanguamento, la febbre vulneraria, gli strazi della fame e, ancora peggio, della sete[2]. La vigilanza presso la croce era severa per impedire interventi di parenti o amici; l’incarico di sorveglianza era affidato ai soldati e durava sino alla consegna del cadavere (che avveniva su richiesta dei conoscenti e parenti) o alla sua decomposizione.
La crocifissione come pena giudiziaria fu soppressa soltanto dal primo imperatore cristiano, Costantino (306-337).
Ai tempi di Gesù la croce usata dai romani per eseguire le sentenze era principalmente di tre tipi. Escludendo qui, perché forma molto più antica, il semplice palo (un tronco piantato nel terreno, o anche il fusto di un albero naturale, sul quale veniva innalzato, legato e inchiodato il condannato) abbiamo: la crux decussata o la croce di Sant’Andrea; la crux commissa o a T e, per ultima, la crux immissa o croce comune.
La crux decussata consiste in due pali disposti ad X, di cui le due estremità inferiori rimangono infisse a terra, e quelle superiori si allargano in alto, viene detta anche croce di Sant’Andrea perché la tradizione vuole che questo martire sia stato ucciso su una croce siffatta[1].
La crux commissa e la crux immissa sono però le due più diffuse nell’iconografia della crocifissione: la prima è composta da una trave verticale e da un tronco traverso posto orizzontalmente sopra la testata tale da prendere la figura di una T maiuscola; la seconda consta anch’essa di una trave posta verticalmente, traversata però a due terzi di altezza da un tronco orizzontale (per questo è anche chiamata crux capitata, vale a dire col prolungamento della trave verticale oltre le braccia orizzontali).
Tra queste due ultime croci è però difficile stabilire quale fosse storicamente quella su cui patì Gesù: se infatti la presenza del titolo della condanna sopra la testa di Nostro Signore[1] ci porterebbe ad optare per una crux immissa, d’altronde la particolare postura molle che assumeva il condannato a causa della sofferenza e dello sfinimento rendevano comunque possibile l’infissione del titulus all’incrocio dello stipes e del patibulum di una crux commissa.
Lo stipes non era un palo completamente liscio e piano: verso la sua metà sporgeva un tozzo e robusto zoccolo chiamato in latino sedile, su cui si appoggiava il condannato e aveva lo scopo di sorreggerne il peso per evitare che questi crollasse a terra: infatti l’inchiodatura nei palmi delle mani non era sufficiente a garantirne il sostentamento[2]. La sua esistenza viene chiaramente confermata dall’espressione “sedere sopra la croce” e da varie allusioni in molti testi della latinità come ad esempio in Seneca: «Hanc (vitam) mihi vel acuta si sedeam cruce sustine»[3] Artisti cristiani antichi, come vedremo in seguito, raffigurarono la croce di Gesù con un suppedaneum, su cui poggiano e sono inchiodati i piedi. Di questo suppedaneum non esiste alcun accenno nei manoscritti antichi ma la sua presenza ricorrente nella raffigurazione antica (compresa la prima crocifissione da noi riscoperta e risalente alla fine del II sec.) non ci permettono di escluderne totalmente la veridicità archeologica (e forse serviva da sostituto più pratico e di più veloce costruzione del sedile)[4].
Le Croci erano naturalmente in legno ed è stato possibile, grazie ad uno studio incrociato delle reliquie più insigni della Santa Croce, stabilire che quella su cui fu crocifisso Gesù era di legno di pino, albero d’altronde comunissimo nella regione palestinese.
In ultimo merita un veloce accenno un altro degli oggetti tradizionali della crocifissione del Cristo: la corona di spine, una costante dell’iconografia cristiana di tutti tempi. Ma Nostro Signore fu veramente crocifisso con la corona? Il Cardinale Costantini sostiene di si:
per levare le vesti addosso di Gesù […] si dovevano fa passare dalla testa; epperciò deve essere stato necessario di togliere prima dalla testa di Gesù la corona. Ma la crudeltà ebraica non avrà così facilmente dimenticato questo crudelissimo accessorio e avrà riposto la corona sulla testa, tanto più perché la corona con il suo beffardo significato completava l’iscrizione del titolo[5].
Siamo ormai giunti alla conclusione. In questo paragrafo sì è tratteggiato sinteticamente un profilo storico e archeologico della croce. Ora però è venuto il momento di penetrare il mondo dell’arte che ha regalato nel corso dei secoli immensi capolavori sulla tema della crocifissione di Nostro Signore, molti dei quali ancora oggi rimangono imperituri nella mente e nel cuore di tutti i fedeli.