Gen. Gennaro Fergola. |
In seguito all'invasione delle truppe garibaldine, il 9 agosto 1860 le truppe napoletane abbandonarono la Sicilia e Fergola assunse il comando superiore delle fortezze di Messina, Augusta e Siracusa. Da questa posizione tentò di condurre operazioni in soccorso di Reggio Calabria, la quale era stata nel frattempo attaccata dalle truppe garibaldine, ma senza successo. (Ritiratasi la truppa nella Cittadella li 26 Luglio egli rimane nella fortezza, ove il 9 Agosto dello stesso anno ricevè per sovrano ordine il Comando Supremo della Cittadella, e delle Piazze di Siracusa ed Augusta. Dal 9 Agosto sudetto fine al 13 Marzo 1861, durante qual tempo fu promesso Maresciallo di Campo li 8 Ottobre 1860, comandò la Cittadella, e la sua prudenza, le maniere gentili, ed il suo sapere militare, gli fecero ottenere la fiducia della Guarnigione intera, che per la sua fedeltà ed attaccamento al Re ed alla Bandiera fu l'ammirazione d’ Europa, ed il Re volendo dargli un attestalo di suo compiacimento lo insignì della Gran Croce del Real Ordine Militare di s. Giorgio della Riunione. Onoratissimo sotto tutti i rapporti, onestissimo particolarmente in fatto d'Amministrazione. Religioso al sommo grado, buon Generale, ottimo padre di famiglia , sono le qualità che adornano e distinguono questo onorato soldato, ch'è stato un esempio di fedeltà ed onoratezza. Giunto in Napoli dopo la resa di Messina si è ritirato in seno di sua famiglia, ove con tenue pensione onoratamente».)
L’8 ottobre 1860 Francesco II delle Due Sicilie lo promosse maresciallo di campo, plaudendo al comportamento della guarnigione. In seguito alla resa della fortezza di Gaeta (14 febbraio 1861) la piazzaforte di Messina comandata da Fergola fu posta sotto assedio dal generale piemontese Enrico Cialdini, che minacciando rappresaglie intimò la resa. Sotto il comando di Gennaro Fergola, Messina resistette otto mesi fino al 13 marzo 1861.
A seguito della resa, ed in ragione della lunga resistenza, non fu concesso l'onore delle armi alla guarnigione e gli ufficiali vennero tutti arrestati. In segno di riconoscenza per l'attaccamento al Regno delle Due Sicilie, Gennaro Fergola fu decorato da Francesco II delle Due Sicilie con la gran croce dell’Ordine di San Giorgio.
La fine del Regno delle Due Sicilie, che com’è noto ebbe quale sommo artefice Giuseppe Garibaldi, fu caratterizzata dal voltafaccia di molti ufficiali e funzionari di quello Stato. Se questo è vero, lo è nella misura in cui tanti altri ufficiali fedelissimi alla dinastia regnante si batterono fino in fondo, tenendo alto il vessillo bianco con i gigli dei Borbone sulle fortezze di Gaeta, di Messina e di Civitella del Tronto.
Ancora oggi vivono i discendenti di un esercito dimenticato, che i denigratori di parte unitaria italiana vollero definire “l’esercito di Franceschiello”. Era un esercito armato e strutturato regolarmente in modo puntuale, ai cui vertici c’erano generali d’indiscusso valore, che da giovanissimi avevano servito anche il re francese Murat. Un esercito dissoltosi nel nulla. Una compagine militare annegata nel mare magnum dell’Italia unita e risorgimentale. Centinaia di nomi che non significano nulla per la storia italiana, ma non per quella napoletana.
Fergola il 20 agosto fu impotente di fronte allo sbarco garibaldino in Calabria ma organizzò una spedizione per soccorrere Reggio, assalita dai garibaldini, ponendo mille uomini al comando del colonnello Francesco Cobianchi. Ma l’impresa fallì per il tradimento della flotta napoletana, che non rese possibile lo sbarco. Pur trovandosi isolato dal resto dell’esercito che combatteva sulle rive del Volturno, in un territorio ostile, circondato dai garibaldini, mantenne unita la guarnigione, tra mille difficoltà, fronteggiando anche tentativi di contestazione disfattista. Espulse addirittura il colonnello Ferrara che proponeva di cedere ai piemontesi la fortezza di Messina, dopo la capitolazione di Gaeta.
Ma il momento più difficile giunse quando il generale piemontese Enrico Cialdini, espugnata la fortezza di Gaeta il 14 febbraio 1861, si diresse a Messina, chiedendo con una lettera a Fergola l’immediata resa della piazza, minacciando fucilazioni e rappresaglie, definendolo vile e assassino qualora avesse colpito la città. Il generale napoletano gli rispose: «Le sarà facile scorgere che cesserei di essere un onorato soldato se mi regolassi in diverso modo da quello che pratico». Cialdini gli rispose che doveva arrendersi perché era avvenuto un cambiamento di governo, ma Fergola fu fermo, affermando «che tale riconoscimento è valido solamente quando le potenze d’Europa lo avranno sanzionato». Ancora, rivolgendosi a Cialdini scrisse: «Se trovandosi del caso mio, Ella, generale d’armata, cederebbe una fortezza ad una semplice intimazione, coprendosi così d’obbrobrio e meritando lo sprezzo generale? No! Ella farebbe quello che fo io. Dà il nome di ribelli a degli onorati soldati» continuando «Io e il mio presidio che da me dipende facciamo il nostro dovere; né posso ideare ch’Ella abbia un diverso pensare, perché in tal caso non saprei riconoscere in lei il soldato, il generale». Resistette otto mesi, con dignità, ma dovette piegarsi all’impari lotta con i cannoni rigati del nemico il 13 marzo 1861. Firmò la resa, non prima d’aver indirizzato un commovente messaggio ai suoi soldati, precisando che non avrebbe ceduto se il bombardamento nemico non avesse minacciato la vita di mille tra donne e ragazzi, familiari dei militari, giunti da Gaeta. Scrisse: «Cediamo alla forza, perché sopraffatti dalla superiorità dei mezzi e non dal valore dei vincitori». Cialdini, furibondo per la subita resistenza, non concesse l’onore delle armi alla guarnigione e fece arrestare gli ufficiali dello stato maggiore borbonico con l’accusa infondata d’aver indotto Fergola alla prolungata difesa della piazza. La sera del 12 marzo 1861, scrisse alle sue truppe: “Uffiziali, Sottouffiziali e Soldati, è questo l’ultimo ordine che io vi rivolgo, e la mano mi trema nel vergarlo. Allorché presi il comando di questa Fortezza e di voi tutti, sacro giurammo di difendere fino agli estremi questo interessante sito fortificato che la Maestà del Re aveva affidato al nostro onore e alla nostra fedeltà. Avete ben veduto che tutti abbiamo mantenuto il giuramento, serbando fedeltà, attaccamento e devozione al nostro amatissimo sovrano Francesco.
Immensi sono stati gli sforzi che per lo spazio di cinque giorni si son fatti colle nostre artiglierie per distruggere i lavori di attacco che il nemico costruiva sulle alture della città di Messina ed in altri siti ancora, ma poco effetto à provocato il nostro fuoco, sí perché quasi tutti i lavori erano al di là della portata delle nostre artiglierie, sí perché altri trovavansi mascherati da casamenti ed oggetti occasionali. Veduto dunque che inutile si rendeva qualunque altro nostro mezzo di difesa, e che eravamo a causa dello incendio sviluppatosi minacciati da una sicura esplosione della gran polveriera Norimbergh e suo magazzino attiguo anche pieno di polvere, se non vi si apportava un pronto rimedio, è chiesta per ben due volte per mezzo di parlamentari una tregua al nemico per la durata di 24 ore. Ma vedendo egli di quanto aveva col suo fuoco prodotto di danno e della trista posizione in cui eravamo, à rigettato la mia domanda, e mi ha fatto sentire che dovevamo arrenderci a discrezione, e che se a tanto non divenivamo e non gli si dava risposta decisiva per le ore 9 della sera, avrebbe riaperto il fuoco con l’aggiunta di altre batterie che ancora non erano punto a vista della fortezza. In tale stato di cose, riunito il consiglio di difesa e sentitone anche il parere, è stato forza sottoporci a quanto il nemico imponeva. Quindi mio malgrado e vostro, domani la Piazza sarà resa. Cosí non avrei giammai ceduto, ma gli incendi che seco noi minacciavano 1000 e piú tra donne e fanciulli mal ricoverati, e che vi si appartengono, e la nostra eccezionale posizione, perché le potenze europee àn permesso una aggressione non mai letta nelle istorie, e noi da chicchessia sperar non potevamo soccorso di sorte, mi ànno obbligato a cedere. Cediamo alla forza perché sopraffatti dalla superiorità dei mezzi e non dal valore dei vincitori. Certo che la nostra resistenza non avrebbe salvata la Monarchia, sagrificata con la resa di Gaeta; non ci restava che salvar solo l’onore militare e nazionale: e mi lusingo che lo stesso nemico ci farà giustizia di concedercene l’orgoglio, come spero che voi me la farete: nel convenire d’aver visto con voi fino all’ultimo i disagi, le privazioni, ed i pericoli. Un dovere però mi resta a compiere ed è quello di esternare a voi tutti i miei sentiti e distinti ringraziamenti per aver saputo ognuno cosí bene secondare le mie vedute nel difendere questa Real Cittadella, ove rinchiusi per circa 8 mesi abbiamo dato le piú grandi prove di abnegazione e di fedeltà al nostro Augusto Sovrano Francesco II. Se l’abbiano particolarmente però i signori generali De Martino, Combianchi ed Anguissola, Ten. Col. Recco, Capitani Lamonica, Di Gennaro e Lauria; e fra tutti il mio capo di stato maggiore ed Uffiziali dello stesso signor Ten. Col. Guillamat, Capitano Cavalieri e Subalterni Gaeta e Brath. Io vi ringrazio tutti di cuore, poiché tutti avete gareggiato nella difesa della rocca. Accettate tutti vi prego tali miei ringraziamenti che partono da un cuore leale e riconoscente. Miei bravi compagni d’armi, nella mia lunga carriera militare di 47 anni ò veduto diverse peripezie non dissimili alla presente, ma però la provvidenza o presto o tardi ha fatto sempre rilucere la sua giustizia quando meno si attendeva, per cui non ci perdiamo d’animo, e confidando in essa auguriamoci giorni piú felici, i quali compenseranno i tristi e dolorosi che abbiamo sofferti. Mi avevo prefisso di porre ai piedi del Real Trono le mie umili suppliche per chiedere alla munificenza Sovrana un compenso speciale al vostro attaccamento, alla vostra sperimentata fedeltà, ma la sorte avversa delle armi me lo à impedito e con dolore mi divido da voi tutti, ma porterò scolpito profondamente nell’anima mia la rimembranza di voi, della vostra fede. Della vostra lealtà, del vostro militare coraggio. Non so quale sarà il mio destino ed il vostro in avvenire, ma se la mia età mi permetterà in seguito potervi rivedere, sarà sempre una vera gioia per me poter stringere la mano a qualcuno dei difensori di questa Real Fortezza, ai quali nè le minacce, nè i pericoli, nè le lusinghe, nè i pravi esempi, nè men la morte seppe far declinare da quella via d’onore che solo è sprone e ricompensa al prode che pel suo Re combatte per vincere o morire. Addio miei bravi camerati! Addio! La sventura ci divide, fede e lealtà fu la nostra divisa, e questa non si spogli giammai da noi, ciascuno di voi porti scolpita in core la nobile parola, che l’univa con nodo indissolubile al nostro sventurato, ma eroico sovrano”.
A Napoli, come in Sicilia, non v’è strada o piazza che sia stata intitolata a Gennaro Fergola, colpevole d’essere stato uno strenuo difensore dell’autonomia meridionale.
Fonte: UN Popolo Distrutto