giovedì 8 maggio 2014

La Civiltà Cattolica : R.P. Raffaele Ballerini d.C.d.G. - DELL'OBBEDIENZA DEI CATTOLICI AL PAPA.

La Civiltà Cattolica anno XXVIII, serie X, vol. I (fasc. 639, 20 genn. 1877), Firenze 1877 pag. 257-272.

R.P. Raffaele Ballerini d.C.d.G.

DELL'OBBEDIENZA DEI CATTOLICI AL PAPA

I.

Sua Santità Papa Pio IX in sedia gestatoria.
 
 
 
Il debito della soggezione ai poteri da Dio stabiliti non ha la radice nelle prerogative più o meno insigni di cui questi posson essere dotati, ma nella intrinseca loro natura di emanazioni dell'autorità stessa di Dio, di suoi rappresentanti, di delegati da lui a riscotere dai sudditi quel tributo di obbedienza, ch'egli ha il diritto assoluto di esigerne, o immediatamente per sè o mediatamente per altri: e fino a tanto che questi poteri non si snaturano, pervertendo l'ordine da Dio voluto e prescrivendo atti da Dio vietati, essi hanno diritto a quell'obbedienza che i sudditi debbono a Dio, del quale sostengono le veci. Questa è la teoria razionale e cristiana del potere, promulgata nelle Scritture divine e mantenuta costantemente intatta dalla Chiesa. [Vedi § V. del presente articolo. N.d.R.]
 
 
 
 
 
 
 
Tra i pubblici discorsi, che il Santo Padre Pio IX fece sul cadere dell'anno passato, il mondo cristiano accolse con più notabili segni di plauso, come singolarmente opportuno, quello che egli indirizzò al sacro Collegio dei Cardinali, ringraziandolo degli ossequiosi augurii da questo portigli la vigilia del Natale. In esso di fatto, dopo encomiati gli esempii di virtù che il sacro Collegio dà splendidissimi, fra le angustie della persecuzione, la quale, da sì lungo tempo affligge la Chiesa, venne a ragionare dei nemici interni che a quest'afflizione sua concorrono e di costoro disse: «Sono pochi; ma possono veramente chiamarsi sediziosi, e unitamente agli esterni sono tutti spinti e animati dallo spirito dell'orgoglio e della superbia; e tanto gli uni come gli altri gridano e ripetono in diverso tono: Non serviam». [Ier. II, 20: «Non servirò.» N.d.R.] Aggiunse poi che questi nemici interni «assaltano la Chiesa con la voce e con la penna, pubblicando stampe di maggiore o minor mole, ma che tutte mirano a diminuire l'autorità della Chiesa. Sono stampe talvolta anonime, ed escono dal buio di qualche salotto..... Scrivono e parlano per conto proprio, non avendone la missione: Ex semetipsis loquuntur, come diceva Gesù Cristo medesimo de' farisei. [Cfr. Ioann. VII, 18. Mons. Antonio Martini commenta: «Vers. 18. Chi parla di proprio suo movimento, ec. Chiunque senza essere stato mandato da Dio si pone ad istruire gli uomini, nol fa certamente, se non per acquistarsi gloria, o altri umani vantaggi. Per lo contrario chi nel suo ministero dimenticando totalmente se stesso, non altro cerca, che la gloria di Dio, costui certamente è degno di fede, ed è incapace di tradire i suoi uditori.» N.d.R.] E per conseguente camminano alla cieca, nubes sine aqua, [Iud. I, 12: «Nubi senz'acqua» Mons. Martini commenta: «Nuvole, che promettono in apparenza copiosa acqua di dottrina, ma sono sterili e infeconde e facili ad essere portate a capriccio de' venti per loro leggerezza.» N.d.R.] predicando errori in quantità. Parlano, ma non possono dire col divino Maestro: Mea doctrina non est mea, sed eius qui misit me Patris». [Ioann. VII, 16: «La mia dottrina non è mia, ma di lui (il Padre), che mi ha mandato» N.d.R.] Quindi, in nome suo e della Chiesa, lament[a] il tradimento di questa sorta di nemici, con ricordare le terribili parole: Filios enutrivi et exaltavi, ipsi autem spreverunt me [1]. [Is. I, 2.: «Ho nutriti e esaltati dei figli: ed essi mi han disprezzato.» Il Discorso del Santo Padre al S. Collegio de' Cardinali ed al Patriziato romano del 24 dicembre 1876 fu pubblicato dall'Osservatore Romano n° 295 e dalla Civiltà Cattolica serie X vol. I, Firenze 1877 pag. 226-228. N.d.R.]
L'impressione che da questo discorso, appena divulgatosi, i cattolici ricevettero fu grande; e si manifestò nei loro diarii, i quali lasciarono pur trasparire una certa curiosità di conoscere determinatamente le indeterminate allusioni che esso conteneva. Ma oltrechè la cosa, a chi fuor di Roma vive, era difficile, ognuno intese non doversi alzare i veli, con cui il Santo Padre avea discretamente ricoperte le allusioni sue: e ciò molto più che l'appagamento di una tale voglia non era punto necessario, per comprendere l'importanza e l'opportunità della parola pontificia. Chè già da lungo tempo, coloro i quali, con occhio diligente, seguono quel che accade nel campo cattolico, venivano osservando e deplorando l'astuto lavorio, esecrato dal Santo Padre, per trarre il maggior numero possibile di fedeli alla pratica del Non serviam, che è l'impresa del campo nemico. Poco monta che i tentatori si chiamino Tizio, Caio o Sempronio, sieno uomini o sieno donne, si mostrino di un'intenzione o di un'altra, vestano un abito od un altro, scrivano libri grossi o libretti minuti: il caso è che l'opera di seduzione e di sedizione procedeva, non senza danno dei pusilli e scandalo dei meno accorti. Non si trattava di persone, ma di principii; e grandemente premeva che la malizia o la scempiaggine dei seminatori di zizzania fosse, da chi ne ha l'autorità, disvelata ai cattolici. E questo fece il Papa, nel sopra mentovato suo discorso.  
Ora tocca a ciascuno di noi cavarne il frutto che conviene. Il quale sostanzialmente consiste nella vera obbedienza al Papa ed alla Chiesa, che è l'antitesi perfetta del Non serviam, gridato dagli avversarii. E siccome costoro lo gridano pigliando le apparenze di una certa ragionevolezza, così riputiamo bene spese due franche parole, che sfatino l'equivoco o l'impostura.

II.

Questi sediziosi, conforme il Santo Padre li ha qualificati, sono pure da lui detti nemici, perchè alzano bandiera opposta a quella della Chiesa; ma interni, perchè protestano di non voler essere dichiaratamente nè eretici, nè scismatici, e di non voler mai uscire dall'ovile di Gesù Cristo. Hanno varii nomi, o meglio aggiunti, con cui adornano il loro titolo di cattolici, e se li scambian tra loro con una carità che edifica. Di sè poi fanno umilmente supporre cose le più magnifiche: essi arche di scienza, essi intelletti superlativi, essi menti illuminate ed illuminatrici al sommo grado. Dottrina e virtù stanno di casa tra loro. Questo è il segno manifesto di quello spirito di orgoglio e di superbia, dal quale il Pontefice li ha detti animati. Ve n'ha persino alcuni che si son fitto in capo di avere una specie di mandato da Dio, quale per dirigere il Papa nel governo della Chiesa, e quale per salvare a dirittura Papato e Chiesa dal naufragio. Vero è che questi ultimi, più presto che animati da spirito di superbia, son da credere mal fermi di capo, e forse più degni di compatimento, che di riprensione.
Tutti costoro sogliono comprendersi nella generica denominazione di cattolici liberali, che sembra sufficientemente propria, per questo che li caratterizza in un punto, il quale è a tutte le varie loro scuole o gradazioni comune; cioè la disubbidienza al Papa. Noi ignoriamo che altri li abbia descritti meglio, di quel che fece l'illustre barone d'Ondes Reggio, nel suo discorso al Congresso cattolico di Firenze. «Cotesti cattolici liberali, così egli, sono quelli i quali muovono dal dire, che ubbidiscono al Sommo Pontefice, che dottore infallibile definisce le dottrine della fede e della morale; ma possono non ubbidirgli in tutte le altre materie, su cui egli decide. Per quello in cui ubbidiscono sono cattolici, per quello in cui non ubbidiscono sono liberali. Sono l'uno e l'altro bellamente insieme armonizzati; inappuntabili pe' dettati della fede, inappuntabili pe' dettati della ragione [2]».
Nella quale descrizione si trovan raccolte le radici, per così esprimerci, di tutti i sofismi o pretesti che costoro allegano, per coonestare la loro disubbidienza, il Non serviam che gridano al Papa ed alla Chiesa.

III.



Alcuni, più teologizzanti degli altri, pretendono di pesare colle bilance dell'orafo il diritto che ha il Papa, in quanto maestro della Chiesa, di essere obbedito dai fedeli; ed il conseguente obbligo che hanno questi di professargli obbedienza: ma ciò colla lente all'occhio. E poi che cosa ne deducono? Che l'obbligo vero e stretto di quest'obbedienza, da loro chiamata necessitas fidei, si estende unicamente alle definizioni ex cathedra, aventi tutti e singoli i requisiti indicati dal canone del Concilio vaticano; ma non punto al resto, che è oggetto della così detta da loro pietas fidei. Rigorosamente adunque non ricercasi dai cattolici che la necessitas fidei; quantunque sia da lodare la pratica eziandio della pietas fidei. Strana confusione di formole e di concetti, che sembra a bella posta ideata, per ingarbugliare le teste del volgo!
Qui fa bisogno distinguere. Se per necessità della fede s'intende quella che è richiesta a rimaner cattolico, e non cadere formalmente nell'eresia, si concede che essa, come tale, non risguardi altro che le verità dommatiche, definite come tali dai Concilii, o dal Papa insegnante ex cathedra. Ma se s'intende quella che è richiesta a salvare l'anima, ad salutem, si nega che non riguardi anche altre verità, benchè non sieno dommi definiti di fede. Imperocchè nei cattolici la necessitas, ossia l'obbligo di obbedienza al Papa ed alla Chiesa, non è circoscritta solamente a quei casi, nei quali il disubbidire importa scisma ed eresia, ma ancora in quelli, nei quali importa peccato grave. Il corpo della dottrina cattolica ha molte verità, alle quali chi si ribella non può dirsi eretico, ma non può nemmeno scusarsi da colpa mortale. E per ciò in ogni corso il più elementare di teologia si legge spiegata la differenza tra le verità prettamente dommatiche e le verità non propriamente tali, ma tuttavia di fede, o appartenenti alla fede.
Or qual cattolico sarebbe colui, che ardisse di sostenere a queste verità esser debita, non l'obbedienza di necessità, ma quella di pietà; quasi che l'aderirvi coll'intelletto ed il crederle ed il professarle, sia atto supererogatorio di devozione e non obbligatorio di coscienza? I Romani Pontefici hanno condannate in grandissimo numero proposizioni teologiche e filosofiche, la cui contraddittoria non è certamente sempre domma di fede o di morale; nè condannandole hanno seguite sempre tutte le forme, espresse nel canone vaticano dell'infallibilità pontificia. Eppure sarebbe cattolico e sarebbe in via di salute chi dicesse: — Tutte queste condanne sono materia non della necessità, ma della pietà della fede: dunque sarà bene se io le accetto come vere, ma non sarà male se io le rifiuto come false?
Ripetiamo che l'opporre la pietà alla necessità della fede, senza limpide dichiarazioni, che stabiliscano la natura ed i confini dell'una e dell'altra, e senza includere esplicitamente nella necessità anche quelle verità, le quali, avvegnachè non sieno dommi definiti, sono però verità appartenenti alla fede, è un creare nodi e garbugli, pericolosissimi all'anima dei cattolici meno istrutti, e facilissimi a cambiarsi in istrumenti di fallacia e d'inganno. Di doppia specie pel cattolico è l'obbedienza necessaria: l'una dee preservarlo dall'eresia; l'altra dal peccato. Chi nega al Papa ed alla Chiesa la prima, oltre che nel peccato di eresia, incorre, se l'atto è esterno, nell'anatema che lo separa dalla Chiesa: chi nega la seconda, benchè non incorra nell'anatema, pecca ancor esso più o meno direttamente contro la fede e perde la grazia di Dio. La pietas fidei potrà concernere la perfezione dell'una e dell'altra, ma certo non ha che fare colla sostanza di quella obbedienza, il cui trasgredimento implica offesa grave alla fede e quindi colpa mortale.
Il simile si dica dell'uso ambiguo che si fa del testo ascritto a sant'Agostino: In certis fides, in dubiis libertas, in omnibus caritas; allorchè si lascia quasi credere, che nelle cose certe si rinchiudano solamente le verità dommatiche, e nelle dubbie tutte le altre. Questo sarebbe errore perniciosissimo e intollerabile nella Chiesa di Cristo. Quelle dottrine soltanto si possono dir dubbie, e per conseguente libere, intorno alle quali non consta con certezza il senso della Chiesa. E sopra queste di fatto versano le frequenti disputazioni dei teologi cattolici [3]. [Consigliamo vivamente la lettura di questa nota. N.d.R.]

 

IV.



Altri vi ha che affettano un desiderio scrupoloso di tenere l'obbligo di obbedienza al Papa entro i termini più precisi, nei quali dal Concilio vaticano fu posto. Costoro a piena bocca insegnano, che il Pontefice, in quanto è maestro, non ha diritto d'essere dai cattolici obbedito, se non circa la sola dottrina della fede e dei costumi: e che le materie politiche, essendo al suo magisterio sottratte, sono dunque libere a ciascuno e dal Papa e dalla Chiesa indipendenti. In cauda venenum. Il tossico del sofisma è nell'anfibologia della conseguenza. Le materie politiche sono sottratte al magisterio del Papa? Adagio. Tutte no, alcune sì. Quelle che non si connettono colla fede e colla morale, è vero: quelle che colla fede e colla morale hanno un legame, una relazione, è falso. Quindi falsissima è l'affermazione, così generica, che ai cattolici le materie politiche sono libere, e che queste materie sono per sè indipendenti dal giudizio della Chiesa e del suo Capo.
Forsechè il Pontefice non è maestro delle dottrine spettanti alle attinenze della società civile coll'ecclesiastica? Forsechè non giudica egli, per uffizio suo, i principii morali, da cui necessariamente dev'essere informata la politica? Forsechè non tocca a lui indicare gli errori e riprovare le iniquità, che dalla politica si scambian talvolta per oro fine di verità e di giustizia? E se i cattolici voglion essere e parere cattolici, forsechè non hanno il debito di sottomettersi, anche in questo, al Papa e di accettarne la sentenza?
Questo artifizio dialettico, per sottrarre teologicamente dal magistero del Papa una quantità di materie importantissime alla salute del cristianesimo, pur troppo è comune ai cattolici liberali, che, per le loro mire d'interesse o di ambizione, tendon sempre a separare il più che sia possibile (salve però certe convenienze) lo Stato dalla Chiesa, o la morale dalla politica. E che questo sia il vizio capitale del loro sistema, il S. Padre Pio IX più volte lo ha fatto intendere e lamentato; ed ultimamente ancora nel suo Breve dei 18 settembre 1876 al Vescovo delle Trois-Rivières nel Canadà, ove in espressi termini si legge: «Noi dobbiamo lodare lo zelo, col quale vi siete sforzato di premunire lo stesso popolo contro i versipelli inganni del liberalismo detto cattolico, tanto più pericolosi, in quanto che, sotto una esteriore apparenza di pietà, essi inducono in errore molti uomini onesti; e in quanto che, allontanandoli dalla sana dottrina, specialmente nelle questioni che, a prima vista, sembrano concernere piuttosto il Potere civile che l'ecclesiastico, essi indeboliscono la fede, rompon la unità, dividono le forze cattoliche, e forniscono un aiuto efficacissimo ai nemici della Chiesa, i quali insegnano gli stessi errori, sebbene con maggiore ampiezza ed impudenza; e conducono inesorabilmente gli spiriti ad aver comuni i loro perversi disegni [4]».
Le quali autorevolissime parole del Sommo Pontefice vengono a mostrare la futilità di un altro artifizio più ignobile, a cui gli avversarii medesimi ricorrono: ed è di screditare il debito dell'obbedienza dei cattolici al Papa, vituperandone i sostenitori; come se questi lo esagerassero, ne falsassero le condizioni e quindi pervertissero la sana dottrina della Chiesa.
Sì: noi scrittori dei giornali cattolici più devoti al Papa ed ai Vescovi e più studiosi di difendere, sotto la loro vigilanza, secondo le forze nostre, la integrità e la purità della fede, noi abbiamo corrotto il domma dell'infallibilità pontificia, perchè abbiamo asserito ed asseriamo, che al Vicario di Gesù Cristo è dovuta obbedienza, non solo quando definisce dommi, ma eziandio quando in altre maniere fa conoscere la cattolica dottrina; e perchè abbiamo, asserito ed asseriamo, che oggetto del supremo suo ed infallibile magistero sono altresì tutte le materie politiche, le quali colla fede e col costume hanno relazioni. Per questo siamo accusati di voler noi dominare la regola della fede, coll'intendimento di oscurarla, di guastarla, di straziarla. Ma quello che noi asseriamo è capriccio nostro, o non anzi certo insegnamento di tutti i teologi, e prima e dopo la definizione del Concilio vaticano? E se così è, chi può farcene rimprovero? E l'accusa di corruttori della fede, che ci è apposta, non si risolve in una calunnia, disonorante solo chi la dà, e non punto chi la riceve? Ma passiam oltre, nè ci perdiamo ad armeggiare contro le nebbie, nubes sine aqua, come il Santo Padre ha ben descritti i superbi cervelli di costoro.

V.

I quali se tanto aguzzan l'ingegno, per attenuare l'obbligo della sottomissione al Papa, in quello intorno a cui possiede autorità d'infallibile magistero, non è meraviglia che poi sofistichino, per attenuarlo in quello, intorno a cui egli non possiede ugualmente infallibile l'autorità. — Il Papa è fallibile, fuori del suo magistero: dunque, nelle cose che a questo suo magistero non appartengono, possiamo non obbedirgli e rimanere cattolici sinceri. Tal è il loro cavallo di battaglia, contro chi li stringe ad accettare umilmente le pontificie prescrizioni.
Ma scusa più insensata di questa non può addursi. Il Romano Pontefice da Gesù Cristo non è costituito suo Vicario, solamente perchè ammaestri, ma altresì perchè regga la sua Chiesa: e la sovreminenza di Pietro non consiste solo nella podestà suprema ch'egli ha d'insegnare, nel che è il primato di magistero, ma in quella eziandio di governare, nel che è il primato di giurisdizione [5]. E questo è domma di fede cattolica, sì essenziale, che chi non lo professa cade per ciò solo nell'eresia insieme e nello scisma. Doppio pertanto essendo l'officio divinamente conferito al Papa da Cristo, nel ministero commessogli di pascere il suo gregge, vale a dire l'uno di maestro e l'altro di reggitore; chiaro è che tutti i fedeli sono ancora vincolati dal doppio obbligo di assoggettarsegli, tanto in ciò che si riferisce all'uno, come in ciò che si riferisce all'altro.
È vero: il carisma o dono dell'infallibilità non è al Papa concesso da Dio, fuorchè nell'esercizio dell'officio suo di maestro della Chiesa: ma che perciò? Dunque perchè il Papa non ha questo dono nel suo governo ecclesiastico, e può in cose particolari e di fatto, non riguardanti però la generale disciplina della Chiesa e non connesse colla fede e coi costumi, errare, è lecito disubbidirgli? Ma se la ragione dell'obbedienza negli ordini sacri, civili e domestici fosse, non più il possesso legittimo, bensì l'infallibile esercizio dell'autorità, che ne sarebbe più dell'ordine umano al mondo? I genitori non sono infallibili: dunque i figliuoli potrebbero lecitamente spregiarne i comandi. I governanti politici non sono infallibili: dunque i cittadini ed i sudditi potrebbero lecitamente violarne le leggi. I sacerdoti ed i Vescovi non sono infallibili: dunque i popoli cristiani, allo spirituale reggimento loro soggetti, potrebbero lecitamente non far conto alcuno delle loro ordinazioni. La ribellione e l'anarchia perpetua sarebbero in tutto e per tutto giustificate.
L'assurdità dei corollarii fa vedere quella del presupposto, da cui derivano. Il debito della soggezione ai poteri da Dio stabiliti non ha la radice nelle prerogative più o meno insigni di cui questi posson essere dotati, ma nella intrinseca loro natura di emanazioni dell'autorità stessa di Dio, di suoi rappresentanti, di delegati da lui a riscotere dai sudditi quel tributo di obbedienza, ch'egli ha il diritto assoluto di esigerne, o immediatamente per sè o mediatamente per altri: e fino a tanto che questi poteri non si snaturano, pervertendo l'ordine da Dio voluto e prescrivendo atti da Dio vietati, essi hanno diritto a quell'obbedienza che i sudditi debbono a Dio, del quale sostengono le veci. Questa è la teoria razionale e cristiana del potere, promulgata nelle Scritture divine e mantenuta costantemente intatta dalla Chiesa. «Ciascun uomo deve stare soggetto a chi gli è superiore, perchè ogni podestà viene da Dio, e chi resiste alla podestà resiste a Dio e da sè si condanna. Quelli che son rivestiti del potere sono ministri di Dio, ed a codesti ministri di Dio si ha da ubbidire, non solo per tema dell'ira loro, ma altresì per coscienza [6]». Di più l'Apostolo, nel nome di Dio, ingiungeva ai fedeli, che in ogni podestà riconoscessero Gesù Cristo, ed i servi ai padroni loro, benchè gentili, ubbidissero come a Cristo medesimo [7]. D'onde è provenuta nel cristianesimo quella nobilissima obbedienza, che non fa piegare la volontà dell'uomo ad altro uomo, perchè è questo o quell'uomo, ma unicamente perchè rappresenta Gesù Cristo; e muove non da bassi rispetti e servili timori, ma dalla coscienza e dall'amore, e solleva sino al trono di Cristo-Dio, l'uomo, che per lui ad altro uomo si assoggetta. Questa è l'obbedienza che può chiamarsi ed è la pratica dell'amore di Gesù Cristo; l'amore di Gesù Cristo in atto; il preziosissimo legame che stringe la terra al cielo; vincolo di unione, nodo benedetto di pace fra gli uomini, negli Stati, nelle comunità, nelle famiglie: Haec est illa obedientia, quae concordiam conservat in angelis, tranquillitatem generat in civibus, sine qua Respublica stare non potest, sine qua familia aliqua regi non potest [8]. [«Haec est illa obedientia quae concordiam conservat in Angelis, pacem nutrit in monachis, tranquillitatem generat in civibus. Haec est illa obedientia, sine qua respublica stare non potest, sine qua familia aliqua regi non potest. — Tale è l'obbedienza che mantiene la concordia tra gli angeli, che nutre la pace tra i monaci e produce la tranquillità tra i concittadini; obbedienza senza cui uno Stato non può sostenersi e senza cui alcuna famiglia può essere governata.» Ad fratres in eremo Sermo VII, S. August. Opera omnia (Migne) t. VI col. 1248-1249, Parigi 1861. N.d.R.]
Posto ciò, che valore ha, moralmente e teologicamente, la bella ragione degli avversarii, i quali si pensano di legittimare la loro disubbidienza al Papa nelle cose agibili, perchè in esse il Papa non gode dell'infallibilità assicuratagli da Dio nelle insegnabili? Il naturale buon senso basta a giudicarlo. Illecita è, secondo san Paolo, la disubbidienza di un servo cristiano ad un padrone gentile; e sarà lecita quella di un fedele cattolico al Vicario stesso di Cristo? Se nulla valesse, la ragione dei cattolici liberali scrollerebbe dalle fondamenta ogni ordine umano e cristiano.
«Può errare, notava sapientemente il barone d'Ondes Reggio, nel suo precitato discorso, può errare il Sommo Pontefice: ma passa questo divario essenzialissimo tra il Sommo Pontefice e gli altri: che egli può commettere errori nel governo della Chiesa, ma non mai che offendano la fede e la morale, poichè nello insegnamento della fede e della morale è infallibile; ma gli altri possono commettere errori, e non di raro sogliono, contro ambe quelle: onde gli errori del Sommo Pontefice non recano danno a ciò che più importa per la salute eterna delle anime, ed anco per il bene sostanziale della terrena vita, e solo possono colpire obbietti di secondario momento. Questa sì è vera, grande ed immancabile guarentigia, che il governo del Sommo Pontefice dà all'universo mondo! [9]»
Ma non occorre che ci diffondiamo di più a ribattere un sofisma, che salta agli occhi dei meno periti in queste materie. Tanto più che la soluzione di esso non è da cercarsi nella logica, ma nella morale; provenendo da difetto non di buon discorso, ma di buona volontà. E per ciò assai bene il Santo Padre ne ha mostrata l'origine, dicendo questi sediziosi «spinti ed animati dallo spirito dell'orgoglio e della superbia.» La disubbidienza è figliuola primogenita della vanagloria [10]. I cattolici che si arrogano il diritto di disubbidire al Papa, per poter essere liberali, non cederanno mai alla dialettica, se prima non cedono all'umiltà.

VI.

Se non che, per grazia di Dio, questi nemici interni (e ce lo ha fatto avvertire il Santo Padre) sono pochi. Parecchi già son passati notoriamente nel campo dei nemici esterni; ed altri che paiono tentennare a cavallo del fosso, vi si baloccano intorno più per leggerezza di fantasia che per malvagità di cuore. Nell'Italia segnatamente, coloro che non arrossiscono del titolo di cattolici sono, pel massimo loro numero, cattolici col Papa, affezionatissimi al Papa e molto ben disposti ad obbedire in tutto al Papa. Questa è la verità.
Per altro convien loro stare in guardia di sè e delle sottili insidie, alle quali il retto e buon animo loro è cotidianamente esposto. Noi viviamo nel secolo satanico per antonomasia, giacchè si vanta secolo della rivoluzione universale; ed è il solo secolo, nel quale siasi inneggiato a Satana, perchè ribelle a Dio. La disubbidienza, che è rivoluzione, prende tutte le forme possibili e non che si vegga mutata in domma politico, ma si vede eretta in idolo, cui si vorrebbero legalmente costringere tutti a sacrificare. Il cattolico dei nostri tempi ha necessità di forte e viva fede, per serbarsi quale dev'essere innanzi a Dio, innanzi alla Chiesa, innanzi al mondo. La fede ha da formargli il criterio pratico e ha da ravvalorargli il petto, contro il turbine degli errori e dei terrori che lo circondano. Il secol nostro è, sopra gli altri secoli, anticristiano, perchè sopra gli altri inimica l'autorità. Si miri a che son ridotte le autorità civili, i poteri degli Stati ai nostri giorni! Si considera come giuridica ed inviolabile la libertà di fare opposizione a tutti i poteri, e di giudicarli senza riguardo. Sopra ogni autorità si pretende che stia la così detta pubblica opinione, la quale, quando è qualche cosa, altro non è che il giudizio collettivo di molti cittadini, ciascun dei quali pesa per uno, se pure ha peso. Questa è l'autorità sovrana del tempo nostro. D'onde nasce lo spregio pubblico d'ogni altra autorità, se non sempre in sè medesima, certo in chi ne è investito e ne esercita pubblicamente gli officii. Pur troppo l'avvilimento in cui essa è caduta, fa sì che talora, in qualche paese, veggasi al timone dello Stato gente, che dovrebbe remigare nei bagni, col bollo dei galeotti in fronte. Ma in somma il fatto è questo: e la massima delle sciagure odierne si è, che, nel concetto comune, l'autorità sociale non gode più nè i caratteri, nè la forza, nè la riverenza che da essa non dovrebbero mai scompagnarsi.
Or il pericolo dei cattolici, anco migliori, è proprio questo: che, quasi senz'addarsene, si lascino trascinare dalla corrente: ed o si levino giudici dell'autorità del Papa e della Chiesa, come tutti fanno delle altre autorità, o non ardiscano, per umano rispetto, di mostrarsele ossequenti. Per ciò noi crediamo necessarissima la fede; e stimiamo che ai cattolici non si possa mai ripetere a sufficienza: — Siate uomini di fede! State in fide [11].
La fede ha da ricordar loro incessantemente, che l'autorità del Papa nel mondo è di una guisa diversa dalle altre; perchè soprannaturalmente divina nell'origine sua, ne' costitutivi suoi, nell'esercizio suo e nella sua finale destinazione. In somma, la fede ha da mostrar loro nel Papa quel dolce Cristo in terra, che santa Caterina da Siena non si saziava di servire, di ascoltare, di venerare. In quel modo che niun cattolico oserebbe far giudizio di Gesù Cristo, se, visibile nel Vaticano, visibilmente di là governasse la Chiesa, come di là governala il suo Vicario, così niuno osi farlo del Vicario suo. Chè chi temerariamente si fa giudice di lui, e lo biasima e lo censura, ferisce in lui l'eterna maestà del Verbo, ch'egli rappresenta. E qui sta il fiore di quella fede, che non mai troppo si raccomanda: vedere nel Vaticano Gesù Cristo; e nell'augusta persona del rappresentante, quella adorabile del rappresentato. E si badi che Gesù Cristo non è un Re costituzionale, che disgiunga la responsabilità sua da quella del suo Ministro; e che quindi il Papa, rispetto a Gesù Cristo, non è come uno di quei Ministri costituzionali, che posson essere dai fedelissimi sudditi travolti nel fango e lapidati, senza che il Re cittadino ne sia offeso. No, Gesù Cristo e il suo Vicario, in ordine all'ammaestramento ed al reggimento della Chiesa, fanno tutt'uno: tanto che, a tutto rigore è verissimo, che Gesù Cristo ammaestra e regge la sua Chiesa pel Papa; giacchè esso moralmente vive nel suo Vicario, e per esso trasfonde in tutto il corpo sociale della Chiesa la vita. Guai adunque a chi tocca il Papa! Guai a chi gli manca di soggezione, di ossequio, di obbedienza! Ogni strale scagliato contro il Papa, va direttamente a colpire Gesù Cristo.
È questa la massima capitale di fede, che dee valer di norma a tutti cattolici, per ben regolare le relazioni loro interne del cuore ed esterne dell'opera e della lingua col Papa. Posta per premessa, questa norma è fecondissima di pratiche conseguenze, le quali già ognuno da sè può scorgere.
Ma principalissima fra tutte è quella della docilità; e di una docilità filiale e volenterosa, eziandio in ciò che non è strettamente obbligatorio, o, al senno di grandi ingegni, pare meno proficuo agli interessi della Chiesa o del Papato. La fede ci fa sapere che, presso Dio, il merito dell'obbedienza tanto è maggiore, quanto è minore, in chi ne esercita gli atti, l'obbligo di esercitarli tutti. La stessa fede poi ci ammonisce, che la grazia di conoscere e vantaggiare gl'interessi della Chiesa, Iddio non la dà ai grandi ingegni, ma al suo Vicario in terra: e che egli solo ha i lumi a questo effetto convenienti, perchè egli solo ha da lui l'officio di pascere e governare il suo gregge. Dei grandi ingegni, quando umili sieno ed ubbidienti, il Signore suol valersi in servigio non ordinario della Chiesa; ma quando sono indocili e superbi, egli ne fa il conto che fece di Lucifero, intelletto il più sublime che uscisse mai dall'onnipotenza sua creatrice. Il governo della Chiesa di Gesù Cristo non è commesso ai grandi ingegni, ma al Papa; e più luce ha il Papa, per ben vedere quel che si confà o non si confà alla Chiesa ed alla Santa Sede, che non tutti i grandi ingegni del mondo ricongiunti in uno. Il che poi deve dai cattolici aversi presente all'animo tanto più spesso, quanto più spesso toccasi con mano, che alla fin fine questi grandi ingegni, i quali pretendono dirigere e consigliare il Papa, sono, come ben li ha definiti il Santo Padre stesso in un altro suo più recente discorso, «teste esaltate, che si lascian guidare dalla fantasia e dall'orgoglio e non dalla riflessione [12].» E ciò è per appunto che rende rationabile obsequium nostrum [razionale la nostra obbedienza. Cfr. Rom. XII, 1. N.d.R.] al Pontefice, anche nelle cose di politica ecclesiastica, le quali non sono alla umana prudenza per sè chiare: la certezza che il Pontefice ha da Gesù Cristo la grazia di stato, per veder chiaro ove l'umana prudenza vede scuro, e per ottenere il bene della Chiesa con mezzi, che non di rado paiono alla politica i meno acconci.
Nè temano i cattolici di cadere in quell'eccesso di obbedienza al Papa, che certi farisei del cattolicismo liberale, con istudiata simulazione, affettano di temere, siccome funesto «alle anime»: per lo che contro i giornalisti, ardenti promotori di quest'obbedienza, scoccano le frecce più avvelenate dei loro giansenistici turcassi. In questa materia, l'eccesso, non che temibile, ma neppur è possibile. Un eccesso di obbedienza vera e cristiana, com'è quella di che parliamo noi, si ridurrebbe ad un eccesso di carità verso Gesù Cristo; cioè ad un eccesso di quella virtù che, unica fra tutte, non è capace di eccessi. O pharisaei hypocritae, [O farisei ipocriti N.d.R.] poteste ancora voi partecipare a colpa sì bella!

VII.



È grandemente a desiderare che i cattolici d'Italia si perfezionino viepiù in questa fede ed obbedienza al Papa, che dev'essere il centro comune della loro unità di azione religiosa insieme e politica, a salvezza della patria. Già vediamo con piacere quanto prevalga fra loro, e massimamente fra i più autorevoli ed operosi, il concetto che nella Santa Sede s'immedesima la causa non meno sacra che civile dell'Italia. E noi riputiamo degnissimi di lode i valorosi scrittori dell'Osservatore cattolico di Milano, i quali, con zelo pari al sapere, lo propugnano ed illustrano. Le condizioni dei cattolici in Italia diversificano da quelle dei cattolici di Francia, di Spagna, del Belgio e di altri paesi, in ciò, che molti loro atti politici, in quanto tali, sono a questi liberi, perchè non contrariano diritti e ragioni di ordine religioso; ovechè ai cattolici d'Italia parecchi di questi atti non sono liberi, perchè opposti a prescrizioni giuridiche della Chiesa o a divieti pontificii, che anzi tutto e sopra tutto debbono osservare. Effetto è questo degli aggiunti particolari in cui si trova la Penisola, per avere nel suo grembo la Sede di san Pietro, spogliata ora dalla Rivoluzione che domina Roma e vi tiene il Papa medesimo stretto in ostile assedio, sub hostili potestate constitutum. Ond'è che, a voler accordare nella coscienza i doveri di cattolici con quelli di cittadini, è al tutto necessario che gl'Italiani prendano, nella loro operazione religiosa e civile, indirizzo dal Pontefice.
Dura può parere questa necessità agli spiriti ambiziosi, che della fede amerebbero farsi scala a mondane alterige; dura ai sognatori di patrie trasformazioni opposte ai consigli di Dio; dura agl'interessati nei frutti di un capitale che, essendo, come quello acquistato da Giuda, pretium sanguinis, [prezzo di sangue. Matth. XXVII, 6 N.d.R.] come quello è pure maledetto dal cielo: ma invece si stima dolce dagli altri, che nella tiara di Pietro veggono il simbolo storico e provvidenziale della pace e grandezza d'Italia. Perocchè il nodo che lega l'Italia al Papato non è fatto dall'arbitrio dell'uomo, è formato evidentemente da Dio. Or anche di questo nodo si ha da avverare, che Quod Deus coniunxit homo non separet [13]. [Non divida l'uomo quel, che Dio ha congiunto. N.d.R.] La nazionalità non può dunque essere mai ragione buona di separare l'una dall'altro: e dato che, per tale pretesto, una temporanea separazione morale o materiale avvenga tra loro, sarà causa di mali e danni gravissimi infin che perseveri. E l'odierno esperimento il dimostra. Che ha guadagnato l'Italia, colla quasi ventenne ribellione de' suoi governanti alla Santa Sede? Fame, servitù e delitti. Dal tempo dei barbari in qua, gli annali nostri non ricordano miseria maggiore di questa, che rode e consuma l'Italia che si è voluto strappare dalle mani del Papa.
I cattolici italiani pertanto, cui scalda il petto amore non solo di religione, ma ben anco di patria, devono rallegrarsi che Iddio abbia sì provvidamente unite le sorti politiche della Penisola con quelle del Papato, che ai diritti dell'uno non si possa fare ingiuria senza pregiudicare all'altra. Questo è privilegio unico del nostro paese: ma così fatto, che da noi richiede, per contraccambio, il tributo di un ossequio particolarissimo alla Santa Sede. Se per obbedire o deferire ad essa ci è forza rinunziare, nella guerra politica, ad una strategia che parrebbe efficace, ma non è conforme ai diritti o voleri suoi, non ce ne dolga troppo. Ciò prova che Dio ha disegni più reconditi e dispone la vittoria per altre vie. Questo ci detta la fede.
Del resto noi diciamo tutti giornalmente, che, senza un intervento speciale di Dio, la vittoria della giustizia pacificatrice d'Italia sfugge a tutte le umane previsioni. Ma quale titolo più valido, per ottenere codesto intervento, e quale argomento più solido, per isperare di ottenerlo, può darsi che questo di sacrificare temporaneamente a Dio il nostro zelo, il nostro coraggio e parte delle nostre stesse armi, per meglio obbedire e deferire al suo Vicario in terra? [Colori carattere aggiunti. N.d.R.]
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NOTE:

[1] V. l'Osservatore Romano dei 27 decembre 1876.
[2] Discorsi e proposte del barone Vito D'Ondes Reggio al secondo Congresso cattolico italiano, tenutosi in Firenze nel settembre 1875. Firenze 1875, pagg. 5-6.
[3] Bellamente e dottamente, al suo solito, monsignor Francesco Nardi scriveva sopra quest'argomento, in una lettera al Direttore dell'Univers di Parigi: «Il famoso testo attribuito a sant'Agostino, ed è come la parola d'ordine dei cattolici liberali, non si trova nelle opere genuine del santo Padre.
«Inoltre quel testo, che io credo doversi ad un controversista tedesco del tempo della falsa Riforma, non esprime guari un'idea giusta. Prendendolo nel senso che si presenta più ovvio, vorrebbe dire, che, salvo i dommi: in certis fides, il resto è libero: in dubiis libertas. Dico salvo i dommi, perchè i soli dommi sono l'oggetto della fede (manifestamente il chiaro Scrittore intende per fede quella che teologicamente è detta fede cattolica). Ora, forse che fuori dei dommi, il resto è libero? No, niente affatto.
«Vi hanno molte verità che ci sono insegnate dalla buona dottrina tradizionale della Chiesa, e che senza essere dei dommi, devono ammettersi e credersi, e non ci è punto libero rifiutare. Negandole, non si è eretico, ma ben temerario e cattivo maestro. Io non ammetto affatto in pratica il principio: in dubiis libertas. In dubiis, dirò più tosto examen e iudicium, e se volete aggiungervi anche un po' di humilitas, non sarà male.
«Quanto alla caritas, voi ne sapete qualche cosa, e anche io non l'ignoro. In generale le persone più avare di questa merce sogliono esser quelle che ne vorrebbero il monopolio». V. L'Univers dei 7 gennaio 1877 e La Voce della Verità di Roma degli 11 gennaio 1877.
[4] Veggasi questo vol. pagg. 116-17.
[5] Pontificem Romanum verum Christi Vicarium, totiusque Ecclesiae caput, et omnium christianorum patrem ac doctorem existere; et ipsi in beato Petro pascendi, regendi et gubernandi universalem Ecclesiam a D. N. Iesu Christo plenam potestatem traditam esse. Così definì il Concilio ecumenico di Firenze, dopo che altri Concilii precedentemente aveano definito il medesimo domma. Le quali definizioni tutte riconfermò il Concilio vaticano, nel definire che fece inoltre íl domma dell'infallibilità inerente al magistero pontificio. [«Item diffinimus, sanctam Apostolicam Sedem, et Romanum Pontificem, in universum orbem tenere primatum, et ipsum Pontificem Romanum successorem esse beati Petri principis Apostolorum et verum Christi vicarium, totiusque Ecclesiae caput et omnium Christianorum patrem ac doctorem exsistere; et ipsi in beato Petro pascendi, regendi ac gubernandi universalem Ecclesiam a Domino nostro Jesu Christo plenam potestatem traditam esse; quemadmodum etiam in gestis oecumenicorum Conciliorum et in sacris canonibus continetur. — Definiamo inoltre che la santa Sede Apostolica e il Romano Pontefice hanno il primato su tutta la terra, che lo stesso Romano Pontefice è il successore del beato Pietro principe degli Apostoli e vero vicario di Cristo, capo di tutta la Chiesa e padre e maestro di tutti i Cristiani; e che a lui, nel beato Pietro, è stato dato da nostro Signore Gesù Cristo piena potestà di pascere, reggere e governare la Chiesa universale, come pure è detto negli atti dei Concili ecumenici e nei sacri canoni.» Concilio di Firenze, Sess VI (6 luglio 1439). DB 694. N.d.R.]
[6] Omnis anima potestatibus sublimioribus subdita sit, non est enim potestas nisi a Deo.... Qui resistit potestati, Dei ordinationi resistit. Qui autem resistunt, ipsi sibi damnationem acquirunt... Dei enim minister est... ideo subditi estote, non solum propter iram, sed etiam propter conscientiam. Rom. XIII, 1-5.
[7] Servi, obedite dominis carnalibus... in simplicitate cordis vestri, sicut Christo. Non ad oculum servientes... sed ut servi Christi, facientes voluntatem Dei ex animo, cum bona voluntate servientes, sicut Domino et non hominibus. Ephes. VI, 5-7.
[8] S. Augustin. Prosec. [Ad fratres in eremo Sermo VII, S. August. Opera omnia (Migne) t. VI col. 1248-1249 Parigi 1861 N.d.R.]
[9] Disc. cit. pagg. 9-10.
[10] Inobedientia prima filia est inanis gloriae. S. Antoninus, Par. II, tit. 4, cap. 2.
[11] I Cor. XVI, 13.
[12] Vedi, nell'Osservatore Romano dei 9 gennaio 1877, il discorso da Sua Santità tenuto ai pellegrini italiani, il giorno dell'Epifania di quest'anno.
[13] Matth. XIX, 6.