lunedì 23 giugno 2014
La notte di Campora del 3 giugno 1863
Nel 1863, la popolazione di Campora (SA), un piccolo paese del Cilento definito dal procuratore generale del re (saboia) presso la Corte di Appello di Napoli "covo di bruti picchè uomini", fu protagonista di una rivolta antiunitaria, che a tutt’oggi è sconosciuta agli stessi abitanti del paese. La notte di Campora vide protagonisti da una parte di cittadini e dai cosiddetti "briganti", uomini che avevano creduto e lottato per un’Italia migliore che la monarchia sabauda non seppe dare. Con l’unità d’Italia ci furono tasse fino allora sconosciute e il servizio militare obbligatorio. In questo clima, nacque una
reazione, una resistenza contadina all’unità italiana, che sfociò in quel movimento di protesta sociale definito — dagli storici detrattori del Meridione — "brigantaggio". I piemontesi, che non conoscevano affatto l’Italia inferiore — come la chiamavano — si aspettavano di essere accolti con tarallucci, tarantelle, fiori e fanfare, ma furono invece accolti da fucilate che forse nessuno aveva loro preannunciato; per farsi "rispettare" ricorsero a quella che lo scrittore-giornalista Salvatore Scarpino chiama "la pedagogia del plotone d’esecuzione". "Briganti — gridava ancora De Sivo — noi combattenti in casa nostra, difendendo i tetti paterni, e galantuomini voi venuti qui a depredar l’altrui? Il padrone di casa è brigante, e non voi piuttosto venuti a saccheggiare la casa?" Furono molte le bande di rivoltosi antiunitari che agirono al Sud, alcune col chiaro obiettivo di riportare Francesco II sul trono di Napoli. Anche nel Cilento ci furono diverse bande, ma la più importante — oggetto finanche di una interrogazione
parlamentare — fu quella di Giuseppe Tardio, originario di Piaggine, un paese del Cilento interno. Giuseppe Tardio, "intelligente ed inafferrabile condottiero dei contadini-briganti", come scrive Antonio Chiazza nella prima biografia su Tardio, era primo di quattro fratelli ed aveva studiato con sacrifici presso il Reale Liceo di Salerno, laureandosi nel 1858 — a 24 anni— in Legge con il massimo dei voti. Di sentimenti liberali, il giovane legale di origine contadina, dopo aver visto il gattopardismo e gli antichi padroni che, mutato regime politico, erano rimasti a galla per continuare a spadroneggiare, passò con i filoborbonici dopo essere stato addirittura ispettore della Polizia Generale ed essere stato anche in prigione per aver partecipato, tempo addietro ad una manifestazione a Salerno a favore di Vittorio Emanuele II. Il 18 settembre del 1861, con 32 uomini, partì dal porto di Civitavecchia e nella notte tra il 21 e il 22 settembre sbarcò ad Agropoli, dove compì numerose azioni di rivolta antiunitaria in numerosi paesi del Cilento: Centola, Foria, Camerata, Butani, Celle Bulgheria, Novi Velia, Vallo della Lucania, spesso accolto con simpatia da parte della popolazione, mentre la sua soldatesca andava sempre più ingrossandosi. Al comune di Camerata, ad esempio, nel luglio del 1862 i suoi militanti abbatterono gli stemmi reali, frantumarono il busto di Vittorio Emanuele II, lacerarono una litografia di Garibaldi e strapparono tutte le carte affisse ai muri. Tutto questo mentre due giovani sorelle, Anna Teresa e Filomena Castelluccio, rispettivamente di 24 e 22 anni, calpestavano i resti del busto del sovrano savoiardo gridando con rabbia: "ancora esisti?" e poi andarono incontro ai pochi liberali del paese gridando loro: "avete finito di fottere!"
Nel suo primo "Proclama ai popoli delle due Sicilie" pubblicato a Butani il 3 luglio 1862, a cui seguì più tardi il proclama di Campora, Giuseppe Tardio, che si qualificò come "Il Capitano Comandante l’armi Borboniche", scriveva: "Cittadini, il fazioso dispotismo del subalpino regime nel conquistare il Regno vi sedusse con proclami fallaci. Amari frutti ne avete raccolti. Riducendo queste belle contrade a provincia, angariandovi di tributi, apportandovi miseria e desolazione. Inaugurando il diritto alla fucilazione a ragione di Stato (del re Galantuomo!). I più arditi è ormai un anno da che brandirono le armi. E l’ora di fare l’ultimo sforzo è suonata.
Non tardate punto ad armarvi, e schieratevi sotto il vessillo del legittimo Sovrano Francesco II, unico simbolo e baluardo dei diritti dell’uomo e del cittadino; nonché della prosperità commerciale e ricchezze dei popoli.
Esiterete voi ad affrontare impavidi gli armati Piemontesi, onde costringerli a valicare il Liri? ". Molti furono i camporesi con i quali - come risulta nel volume n° 99 conservato presso l’Archivio di Stato di Salerno e contenente l’istruttoria fatta per i fatti di Campora dal giudice Guerriero Filippo a Gioi il 30 settembre 1863 — il combattivo avvocato cilentano aveva preso contatti: Carlo Veltri, Andrea Perriello, Vincenzo De Nardo, Antonio Perriello e spesso si recava a mangiare con i suoi uomini a casa di Giuseppe Galzerano (fu Aniello), di Francesco e Angelo Ciardo, quest’ultimo ufficiale della Guardia Nazionale. E proprio a Campora, come dicevamo, egli preparò nella notte tra il 3 e 4 giugno 1863, un altro "Proclama ai popoli delle due Sicilie: " Cittadini, Voi che destinati foste dalla Provvidenza, a godere le delizie, che la natura, le scienze e le arti hanno profuso a dovizia in questa parte Meridionale d’Italia, seconda valle dell’Eden. Ma da quasi un triennio di duro, tirannico e fazioso dispotico regime subalpino, vi ha ridotto alla triste condizione dei barbari del settentrione del Medio evo, riducendo queste contrade alla triste
condizione di Provincia, disprezzando i vostri sinceri e pietosi atti di religione, angariandovi di tributi …Insorgete a un grido e accorrete a
schierarvi sotto il vessillo del vostro Augusto e Legittimo Sovrano
Francesco II, quale unico simbolo e baluardo pel rispetto della Religione, della sicurezza personale, dell’inviolabilità della libertà, della proprietà, del domicilio e della pace e dell’onore delle famiglie, nonché della proprietà commerciale e ricchezze dei popoli … Unico sia il vostro grido: viva Francesco II, l’indipendenza e autonomia delle Due Sicilie!". Con la presa di Roma del 20 settembre 1870, la libertà di Tardio e di altri rifugiati politici, cominciò a correre seri pericoli. E fu infatti, proprio un suo paesano — Nicola Mazzei (che faceva il bersagliere a Roma) a denunziarlo e a farlo arrestare per ben due volte, dopo che lo stesso Tardio era sfuggito la prima volta con uno stratagemma. Egli fu arrestato insieme a Pietro Rubano, anch’egli di Piaggine, unitosi a lui nel dicembre del 1861, dopo aver fatto
parte della banda di Carmine Crocco Donatelli. Tardio e Rubano furono tradotti nel carcere di Roma, messi a disposizione del Tribunale di Vallo della Lucania e successivamente trasferiti nel Carcere di Salerno. Fu istituito il processo e Tardio nominò suo difensore l’avvocato Carmine Zottoli, del foro di Salerno e famoso difensore di "briganti". Il 24 maggio 1871 egli produsse una sua memoria difensiva, nella quale rispondeva per iscritto sui capi d’accusa: " Io non sono colpevole di reati comuni poiché il mio stato, il mio carattere e la mia educazione non potevano mai fare di me
un volgare malfattore; io non mi mossi e non e non agii che con
intendimenti e scopi meramente politici; talché non si potrebbe chiamarmi responsabile di qualsivoglia reato comune che altri avesse per avventura perpetrato a mia insaputa contro la espressiva mia volontà e contro il chiarissimo ed unico scopo per cui la banda era stata da me radunata". Il 23 giugno 1892, dopo una serie di ricorsi e dopo essere stato trasferito a scontare la sua pena (prima la
condanna a morte, poi trasformata in lavori forzati a vita) nel terribile carcere dell’isola di Favignana (TP) - dove i Borbone rinchiudevano i nemici della patria e dove rimase segregato per 22 anni — Giuseppe Tardio, l’avvocato-brigante, si spense all’età di 58 anni, probabilmente avvelenato da una donna per paura, che facesse delle rivelazioni compromettenti!
Fonte: UN Popolo Distrutto