giovedì 15 ottobre 2015

QUAL SORTE L'ARISTOCRAZIA DEL DANARO RISERVA A SE STESSA ED ALLA FRANCIA? (Estratto dall'opera di mons. Delassus "Il Problema dell'ora presente" Tomo II°)

Ai giorni nostri la signoria appartiene all'oro. Questo metallo sottopone al suo possessore tutte le

forze, non solo della Francia, ma del mondo. Esso aveva senza dubbio un gran potere nei secoli

precedenti la Rivoluzione, ma trovava un rivale nell'aristocrazia che spesse volte n'ebbe ragione.

Oggi l'oro è divenuto quasi una divinità, dappertutto esso comanda, dappertutto lo si adora. Questa

nuova potenza non prende, da quelle che la precedettero, che gli abusi ai quali esse eransi lasciate

andare.

L'aristocrazia francese andò debitrice della sua grandezza a quello che aveva fatto la grandezza

delle aristocrazie antiche: la condiscendenza delle classi dirigenti verso le classi dirette, l'affezione

delle classi dirette verso le classi dirigenti, l'unione degli sforzi pel maggior bene di tutti. Appo noi,

come nelle antiche civiltà, la decadenza fu la naturale conseguenza della separazione che si fece fra

la nobiltà ed il popolo, vivendo ciascuno da sé, più non amandosi, più non aiutandosi a vicenda, né

più conoscendosi. La nobiltà aveva disertato le campagne per andare a perdersi nella corte dei re, e

spendervi in piaceri ed in lusso il danaro che il lavoro dei coltivatori le procurava. "Si può rimaner

legato e affezionato - dimanda Tocqueville - a gente con cui non si ha alcun vincolo di natura e che

non si vede mai? È sopratutto nei tempi di carestia che si scorge come i legami di patronato e di

dipendenza che, in altri tempi ancora tenevano uniti il proprietario rurale ai contadini, si sono

rilassati o rotti. In questi momenti di crisi, il governo centrale si spaventa del suo isolamento e della

sua debolezza; egli vorrebbe far rinascere per la circostanza le influenze individuali che egli ha

distrutte; le chiama in suo aiuto; nessuno si muove, ed egli si meraviglia di trovar morti quelli stessi

ai quali ha tolto la vita". Alcuni anni prima della Rivoluzione la nobiltà voleva riavvicinarsi al

popolo; era troppo tardi. Da un secolo, ogni classe aveva camminato da sé, dalla propria parte,

aumentando di età in età i suoi odii ed i suoi pregiudizi contro la classe rivale che più non

conosceva né comprendeva. Si sa ciò che ne divenne. La società si sfasciò nelle rovine e nel sangue.

Il conte di Chambord volle persuadere, al resto dell'aristocrazia, di riprendere, per quanto le

circostanze lo permettevano, il suo còmpito provvidenziale. "Io non cesserò - così egli - di

raccomandare a tutti quelli che sono rimasti fedeli alla nostra causa, di abitare più che è possibile le

loro terre, e di dar l'esempio di tutti i miglioramenti possibili. È il vero e solo mezzo di distruggere

le ingiuste prevenzioni e di rendere alla proprietà fondiaria la parte d'influenza che le spetta e che

sarebbe tanto utile che ottenesse nell'amministrazione e nella gestione degli affari del paese". Egli si

congratulava con quelli che avevano "colla fede dei loro padri conservato il culto del focolare e

l'amore al suolo natio". "Le seduzioni rivoluzionarie - diceva egli - esercitano sopratutto le loro

devastazioni nelle popolazioni abbandonate dai loro naturali protettori. Le brevi loro comparse non

potranno mai sostituire l'affetto nei rapporti, il disinteresse nei servigi, il successo nei consigli".

Purtroppo non fu ascoltato, come avrebbe dovuto esserlo.

La borghesia aveva preso nella società il posto della nobiltà. Quale fu la sua condotta in riguardo al

popolo?

Frederic Le Play
Da una parte le tradizioni di patronato, di disciplina dall'altra, create dalle antiche corporazioni, si

conservarono per qualche tempo ancora dopo la Rivoluzione nella piccola industria. Le Play,

abbiamo altre volte avuto l'occasione di osservarlo, parla con compiacenza degli opifici che, verso il

1830, egli vedeva ancora sul modello di quelli dei tempi precedenti. "Prima del 1830 - egli scrive -

gli opifici parigini già portavano le traccie delle idee sovversive e dei sentimenti di odio che le

anteriori rivoluzioni avevano fatto nascere. Ciò nonostante ho potuto allora osservare istituzioni e

costumi che non la cedevano per nulla a ciò che ho trovato di più perfetto pel corso di trent'anni nel

resto dell'Europa: il padrone e la sua moglie conoscevano, in tutti i loro dettagli, la vita domestica

dei loro operai, e questi si preoccupavano incessantemente della comune prosperità. La solidarietà e

l'armonia tra il padrone e l'operaio apparivano in tutti i loro rapporti. Nel 1867, epoca in cui io

disponeva di numerosi mezzi d'informazione, - egli era direttore dell'Esposizione universale, - io ho

invano cercato, negli antichi opifici ingranditi ed arricchiti, qualche vestigio di queste cordiali

relazioni; sopratutto ho constatato la mancanza di benevolenza e di rispetto".
Funck-Brentano ne indicò la ragione in questi termini nella Politique: "Coloro che, usciti dalle


classi medie, arrivano rapidamente alla ricchezza ed agli onori, se in sé hanno trovato i mezzi per

arrivarvi, non hanno per questo le qualità necessarie all'esercizio delle loro nuove funzioni sociali,

che soltanto la tradizione e l'educazione sviluppano. Allevati nelle privazioni, essi hanno dei bisogni

insaziabili come la loro ambizione e il loro egoismo: guadagnare ancor più, salire più in alto. I loro

dipendenti, operai o impiegati, restano lo sgabello della loro fortuna o le vittime delle loro

ambizioni. Infine, siccome essi non hanno ricevuto dall'educazione, si potrebbe quasi dire dal

tirocinio, le qualità morali adatte alla loro elevata posizione, si addimostrano sempre meno delicati

nella scelta dei mezzi; la loro moralità si altera come il loro carattere, e non valgono qualche cosa,

se non per il loro istinto affarista o per il loro spirito d'intrigo. Nella generazione successiva il male

si accentua. I figli non possono ricevere dai genitori un'educazione che non ebbero essi medesimi,

ma per effetto della ricchezza o della posizione che i loro genitori hanno acquistato, i figli non

ricercano che la soddisfazione dei loro gusti e dei loro piaceri. I caratteri si degradano, e spesso la

terza o quarta generazione finisce all'ospedale od in una casa di salute, mentre nuove famiglie nello

stesso modo arricchite si sostituiscono alle prime".

In tutti i punti della Francia, sarebbe facile di metter dei nomi sotto ognuna di queste categorie.

E non poteva essere altrimenti.

La ricchezza che ha la sua fonte nella terra, trova dei limiti alla sua ambizione: essa non conosce

punto quella che proviene dall'industria, dal commercio, dalla banca; divenuta milionaria, aspira a

divenire miliardaria, e si sa che arriva ad esserlo più e più volte. È là tutto il suo scopo. e, per

raggiungerlo, essa sfrutta l'uomo come sfrutta la materia, invece di amarlo e servirlo. L'uomo

sparisce agli occhi del capitalismo, egli non è che uno strumento nelle mani di quelli, le cui facoltà

sono tutte rivolte verso la mèta che cercano di raggiungere: la ricchezza.

La Rivoluzione aveva proclamato l'eguaglianza di tutti. Ma, osserva Le Play, rendendo

teoricamente l'operaio eguale al padrone, il padrone veniva esonerato verso di lui dell'obbligo

morale d'assistenza e protezione.

Essa aveva proclamato la libertà del lavoro. La borghesia, ricca d'esperienza, di mezzi e di capitali,

poteva lavorare o no a suo talento; ma l'operaio restava legato all'implacabile necessità del lavoro

quotidiano. Coi privilegi della nobiltà la Rivoluzione aveva gettato nel ciarpame i privilegi degli

operai, cioè i regolamenti che le costumanze nelle corporazioni li proteggevano. La borghesia non

avendo più ostacoli alla cupidigia sì naturale all'uomo, trattò l'uomo come un utensile, dal quale si

può trarre tutto quello che si può senza alcun riguardo alla sua sanità, come alla sua moralità.

Essa ciò fece senza esserne ostacolata dalle condizioni economiche che in altri tempi vi si sarebbero

opposte.(1)

Alla mancanza di freno, si aggiunse la mancanza di scrupoli. La continuità del lavoro e del

risparmio, per molte generazioni, trasmette a ciascuna di esse le virtù che hanno formata la base

della prosperità della famiglia. Ma queste tradizioni non si formano punto nelle famiglie le quali,

occupandosi d'industria, di commercio, di banca, rapidamente giungono, per felici colpi di fortuna,

all'apice della ricchezza. Esse dunque sono, come osserva Funck-Brentano, - generalmente

parlando, e salve le eccezioni che la virtù del cristianesimo può produrre, - poco disinteressate, poco

sensibili all'onore, poco inclinate ai nobili pensieri che la fede e la carità cristiana ispirano; e, per

conseguenza, più destre nei loro affari, che date al bene, ed aspiranti sempre più al benessere, al

lusso, ai piaceri che il danaro permette loro di procurarsi.

In queste condizioni, le buone relazioni sociali con quelli il cui lavoro ha servito ad elevarli e

continua a mantenerli nella loro posizione e a farli ingrandire, sono ben rare ed assai deboli, per non

dire del tutto nulle.

Lo sono ancora per un altro motivo. I grandi industriali, spinti dal desiderio di arricchirsi sempre

più, moltiplicano i loro stabilimenti, o li sviluppano con immense proporzioni. Chiamano per ciò

intorno ad essi popolazioni sempre più numerose. Il contatto dei padroni cogli operai diviene quasi

impossibile: fra essi si trovano i capomastri e contromastri, e sopra di loro tutti gli azionisti, poiché

le grandi intraprese non possono slanciarsi senza grandi capitali forniti da numerose borse. Si può

parlare di patronato e specialmente di paternità da parte di questi azionisti i cui coupons stanno in

fondo di una cassa forte, e che non conoscono affatto gli operai il cui lavoro forma il valore delle

loro cambiali?

Per tutte queste ragioni il borghese ricco ha finito col vivere tanto lontano dal popolo, quanto il

gentiluomo degli ultimi tempi. Egli avrà necessariamente la medesima sorte. Si può anzi dire una

sorte peggiore. Poiché in tutte le epoche e presso tutti i popoli la caduta dell'aristocrazia finanziaria,

industriale e commerciale, è stata accompagnata da disordini più violenti e sanguinari che non ne

abbia prodotti la sostituzione dell'aristocrazia fondiaria all'aristocrazia feudale.

In Grecia, in Italia, in Francia l'aristocrazia feudale, riposando sopra sentimenti profondamente

radicati nelle anime, si mantenne per molti secoli. L'uomo s'inchina senza ripugnanza dinanzi a ciò

che crede essere il diritto, o che le opinioni gli mostrano che è molto al disopra di lui.

Meno lungamente durò la nobiltà fondiaria perché essa era meno solida. Lo era ancor molto perché

anch'essa riposava sull'opinione. Queste grandi proprietà erano da lungo tempo nel possesso delle

famiglie, esse ne costituivano il patrimonio, ne portavano il nome, sembravano inerenti alle famiglie

stesse. Di generazione in generazione i lavoratori aveano visto trasmesso di padre in figlio il

dominio sul quale vivevano. Sarebbe stato necessario dimenticare i doveri ch'esso imponeva, perché

potesse venire il pensiero di spogliarneli.

L'aristocrazia del danaro presso gli antichi popoli non ebbe sì lunga durata. La spinta rapida delle

fortune acquistate coll'industria, col commercio e colla speculazione, non le raccomanda guari al

rispetto dei popoli, più che la loro instabilità, meno ancora quando è impura la sorgente dove molte

sono attinte. Infine, l'ineguaglianza delle condizioni che esse creano nella medesima classe, scatena

la cupidigia e gli appetiti.

Generalmente parlando, il borghese fa poco per calmarli, non cerca punto di ravvicinarsi alla classe

inferiore, di conoscerne le aspirazioni ed i bisogni; fugge il contatto delle sue miserie, anziché unirsi

ad essa per cercare di raddolcirne le sofferenze, di allontanarla dal vizio e di limitarne la povertà.

Sicuramente, in questi ultimi tempi un certo numero di padroni ha dato ascolto alla voce

dell'umanità e della religione, ha fatto grandi sacrificii pel miglioramento della condizione fisica e

morale de' suoi operai. Vi sono perfino degli azionisti, che nei consigli amministrativi li prendono a

cuore e difendono i loro interessi.

Tuttavia queste non sono ancora che eccezioni.

Lo stato attuale è questo. Attorno agli opifici vi affluisce molta gente venuta da ogni parte, sradicata

dalle campagne che l'hanno veduta nascere, strappata perciò a tutte le influenze della famiglia, del

vicinato. della parrocchia. Tutti i legami che li ritenevano nel bene, l'onor della famiglia, il rispetto

di se stessi dinanzi a coloro che ci conoscono, l'azione della religione colle sue istruzioni e co' suoi

sacramenti, tutto ciò è rotto e ben presto sostituito da altre influenze: la bettola, il giornale, il

sindacato; la bettola che corrompe il cuore, il giornale che corrompe lo spirito, il sindacato che

incatena la volontà. L'operaio diviene così assai facilmente, e ben presto, preda degli ambiziosi che

lusingano i suoi più insani istinti, degli scrittori che diffondono le più false idee, dei compagni dai

quali tutte le sane tradizioni, l'una dopo l'altra, sono combattute e rovesciate. I cervelli sono invasi

dal cieco dominio delle parole: progresso, eguaglianza, libertà, democrazia, e le mani tengono

l'arma invincibile del suffragio universale.

Tutto ciò non può a meno di produrre una profonda demoralizzazione, e la demoralizzazione non

indugia a produrre il suo frutto: il pauperismo. Gli appetiti divorano di giorno in giorno il salario;

più esso si accresce, più offre loro alimento, e più si sviluppa la miseria.

Essa piomba su quelle masse che, non avendo più né fede, né legge, né foco né loco, non hanno più

alcun ritegno, e son quindi pronte a tutto per procurarsi i godimenti di cui vedono saziarsi i loro

principali.

Alexis de Tocqueville
Il signor de Tocqueville ha scritto: "Non è mai senza difficoltà che le classi elevate giungono a

discernere chiaramente quello che accade nell'anima del popolo. Quando il povero ed il ricco non

hanno quasi più alcun interesse comune, comuni aggravi, comuni affari, questa oscurità che

nasconde alla mente dell'uno la mente dell'altro, diviene impenetrabile, e questi due uomini

potrebbero vivere eternamente uno a fianco dell'altro senza intendersi giammai. Curioso è il vedere

in quale strana sicurezza vivevano tutti coloro che occupavano i piani superiori e medi dell'edificio

sociale nel momento stesso in cui la Rivoluzione cominciava, e di sentirli ingegnosamente

discorrere fra loro delle virtù del popolo, della sua dolcezza, quando già il '93 era alla porta".

L'illusione non è tanto facile oggi. Per chiarirsi, basta solo aprire i giornali popolari ed i libri di

coloro che sono i soli dottori ascoltati dal popolo. Essi cercano persuadere che la condizione

dell'operaio, nella nostra società, è peggiore di quella dell'antico schiavo. Vanno ancora più innanzi.

"La proprietà è il furto", scrive Proudhon. "Il capitale non è che lavoro morto - scrive Carlo Marx, -

e che, simile al vampiro, non vive che succhiando il lavoro vivo, e la sua vita è tanto più allegra

quanto più ne succhia". "A misura che diminuisce il numero dei potentati del lavoro - scrive egli

ancora - per la concorrenza ch'essi si fanno fra loro, si accrescono le miserie, l'oppressione, la

schiavitù, la degradazione, lo sfruttamento del lavoro, ma anche la resistenza della classe operaia

incessantemente ingrossata e sempre meglio disciplinata, organizzata, unita dal meccanismo stesso

della produzione capitalista. La socializzazione del lavoro e la centralizzazione arrivando ad un

punto in cui non possono più contenersi entro la barriera capitalista, questa barriera si spezza in

frantumi. L'ultima ora della proprietà è suonata: gli espropriatori, alla loro volta saranno

espropriati".

Ed in qual modo si opererà questa espropriazione? Marco Stirmer lo dice: "Se alcuno si oppone alla

nostra marcia lo faremo saltare come una roccia che impedisce il cammino".

Questa catastrofe i chiaroveggenti già da lungo tempo l'hanno annunciata. Basta solo ricordare le

parole che abbiamo citate di Le Play, di Blanc de Saint-Bonnet, di Donoso-Cortes, ecc.

Ma accanto ai chiaroveggenti, quanti altri ce ne sono che sembrano colpiti da quella cecità di cui

parla Pietro Leroux:

"Vi ha degli uomini veramente ciechi che non veggono nulla col cuore né col pensiero, che non

veggono se non cogli occhi del corpo. Se lor dimandate: Babilonia o Palmira hanno esistito, e sono

distrutte? Essi vi risponderanno: sì; perché possono mostrarvi delle rovine materiali, degli avanzi di

edifizi sepolti nelle sabbie del deserto ..., ma se dite loro che la società presente è distrutta, non vi

comprenderanno e si rideranno di voi, perché essi vedono per ogni dove i campi coltivati, le case e
le città piene d'uomini. Che dire di questi ciechi, se non ciò che Gesù diceva ai loro pari: Oculos

habent et non vident?"


Eppure la Provvidenza non risparmia loro gli avvertimenti.

"Quando una società non vede o non vuol vedere ciò che deve fare - disse Alessandro Dumas, figlio

- questa Provvidenza glielo indica dapprima con piccoli accidenti sintomatici e facilmente

rimediabili, poi persistendo l'indifferenza o l'acciecamento, rinnova le sue indicazioni con fenomeni

periodici, che si avvicinano sempre più gli uni agli altri, si accentuano ognor più, fino a qualche

catastrofe d'una dimostrazione così evidente che non lascia alcun dubbio circa la volontà di detta

Provvidenza. Allora la società imprevidente si stupisce, si spaventa, grida alla fatalità, alla

ingiustizia delle cose".

Egli è purtroppo possibile che noi rivedremo le scene orribili che ne' suoi ultimi tempi hanno

desolato la Grecia. Già ne abbiamo i prodromi negli scioperi che si moltiplicano, che si estendono,

che preparano lo sciopero universale, al quale si dispone tutto il mondo operaio e pel quale si

organizza.

Ma ogni sciopero aumenta la miseria, ed ogni maggior miseria accende gli odii. In qual abisso lo

sciopero universale farà precipitare la società? Ed in quale stato ridurrà gli animi ed i cuori? L'ebreo

Enrico Heine non profetava punto ciecamente quando diceva: "Non è lontano il giorno in cui tutta

la commedia borghese in Francia farà una fine terribile, ed in cui si rappresenterà un epilogo

intitolato: Il regno dei comunisti. A Parigi possono allora accadere delle scene, a petto delle quali,

quelle dell'antica Rivoluzione sembrerebbero sogni sereni d'una notte d'estate".

Ciò non sarà solamente la rovina della borghesia, ma quella della patria e dell'intera società.

E perché? Perché la legge delle società umane avrà cessato di essere osservata. Sospendete la legge

di attrazione, ed il mondo cadrà in uno spaventoso caos, gli astri si urteranno e si infrangeranno gli

uni contro gli altri. Sospendete nel mondo sociale la legge dell'armonia fra le classi, ed esse pure si

divoreranno.

Papa Leone XIII
Nessuna cosa può salvare la nostra società da una irrimediabile rovina tranne il ristabilimento di

quell'armonia che Leone XIII ha mostrato come foriera di salute, ed alla quale troppo pochi padroni

si sono dedicati.

All'infuori di quello, ogni altro mezzo è insufficiente. "Uno - dice Mr. Ketteler - vuol guarirci con

una miglior partizione d'imposte, l'altro con varie categorie di casse di risparmio, il terzo

coll'organizzazione del lavoro, il quarto coll'emigrazione, questo col protezionismo, quello col

libero scambio, quest'altro colla libertà dei corpi di mestieri o colla divisione del suolo e della

ricchezza, un altro con mezzi precisamente contrari, ed altri ancora colla proclamazione della

Repubblica che sopprimerebbe ogni miseria e condurrebbe il paradiso sulla terra. Questi mezzi

hanno, certamente, più o meno, qualche valore, ed alcuni possono agire efficacemente; ma per

guarire le nostre piaghe sociali, non sono che una goccia d'acqua nel mare. La riforma interiore del

nostro cuore, ecco quello che ci salverà. Le due potenti malattie del nostro cuore sono da una parte

l'insaziabile sete di godere e possedere, dall'altra l'egoismo che ha spento in noi l'amor del prossimo.

Questa malattia ha colpito i ricchi ed i poveri. Che mai valgono una nuova ripartizione dell'imposta

o le casse di risparmio ... finché nei nostri cuori vivranno questi sentimenti?"(2)

 
Note:

(1) In niuna parte meglio si rivela la menzogna della libertà che nell'ordine economico. Il tuo

miraggio svanisce come un sogno subito che la lotta per la vita mette in contatto gl'individui isolati.

L'operaio trova dinanzi a sé un padrone che gli propone un salario determinato. L'operaio può egli

rifiutare questo salario? No, i bisogni dell'esistenza, una famiglia forse da mantenere l'obbligano ad

accettare le condizioni che gli sono offerte.

Neppure il padrone è più libero. Nella maggior parte dei casi egli non desidererebbe niente di

meglio che di retribuire convenientemente i suoi impiegati, i suoi operai; solamente non lo può

trovandosi di fronte ad una illimitata concorrenza, ha un bel ricorrere ad ogni sorta di espedienti per

sottrarsi agli effetti di questa concorrenza, egli non è meno costretto a subire questa legge. Legge

implacabile che mette nell'impossibilità materiale di dare a' suoi collaboratori una rimunerazione

adeguata alle condizioni dell'esistenza.

Così lo stato individualista non genera né l'indipendenza né la libertà, ma la servitù e la dipendenza;

dipendenza dell'operaio in riguardo al padrone, dipendenza del padrone in riguardo alla

concorrenza, dipendenza di tutti in riguardo alle condizioni economiche.
(2) Uno dei sei sermoni pronunciati a Mayence. (Traduction de Decourtins).