SUL "IL GIORNALE", Marcello Veneziani scriveva:
Ah, l’Italia, «un piccolo regno unito di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore universale, cedendola al più logoro principio borghese – la trentesima ripetizione di questo principio dal tempo della prima rivoluzione francese – un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale d’una volta) e per di più pieno di debiti non pagati…»
Non è Bossi che parla né suo nonno. E non è nemmeno Pino Aprile, l’autore anti-sabaudo di Terroni. Ma è un osservatore esterno, molto esterno, e speciale, molto speciale. Che non polemizza con Napolitano, stroncando il suo libro Una e indivisibile (stroncare il libro di un Presidente della repubblica è diritto di critica o vilipendio del capo dello Stato?). Ma addirittura con Cavour, di cui pure riconosce la genialità ma applicata ad una causa indegna e piccina. L’irriverente italoclasta è addirittura Fëdor Dostoevskij.
L’appunto che ho citato è nel suo Diario di uno scrittore nell’anno di grazia 1877. Dostoevskij non è un detrattore dell’Italia ma un sostenitore convinto dell’Italia universale e non statuale, o per dirla con Herder, dell’Italia come nazione culturale, non politica.
Non è bello concludere il compleanno d’Italia, ovvero l’anno in cui l’Italia ne ha compiuti 150, con questa nota aspra e feroce. Ma Dostoevskij amava l’Italia e ci era venuto in pellegrinaggio culturale e spirituale. Ne parlava con cognizione di causa e amore d’Italia. Nello stesso testo, Dostoevskij osservava:
Lo scrittore russo era tutt’altro che vicino a una visione internazionalista, di tipo socialista e utopico, che condanna per il suo astratto universalismo. Nell’anno dell’Unità d’Italia, il 1861, Dostoevskij fondava una rivista, Vremja (Il tempo) che era tutta percorsa da un fremito di patriottismo russo e slavofilo e da un rifiuto dell’occidentalismo come omologazione mondiale.
La romanità come principio universale, l’imperium come principio ordinatore del mondo e la cristianità che si fa cattolica – cioè universale – a Roma, erano per lui il paradigma dell’unità spirituale del mondo. A cominciare dalla Terza Roma degli Czar (contrazione russa di Cesare, non a caso). Anzi, la sua idea è che sarebbe stata la Russia «a condurre a conclusione la missione dell’Europa», come scriveva in una lettera dell’inverno 1856 a Majkov.
In una pagina assai attuale Dostoevskij lamenta la subordinazione dell’Europa alla Borsa e al credito internazionale; ma poi spende la sua vena profetica in un delirio antigiudaico, ritenendo che siano gli ebrei a muovere la borsa, le banche e i capitali, condizionando gli Stati nazionali. («Non per nulla dominano là ovunque gli ebrei nelle Borse, fanno muovere i capitali, sono i padroni del credito e della politica internazionale» scrive nel marzo del 1877, per poi concludere con una filippica contro il giudaismo).
Dostoevskij scrive sull’unità d’Italia a ragion veduta, serbando la memoria dei suoi viaggi in Italia in cui rimase abbagliato dall’arte e dalla civiltà italiana, le rovine pagane e lo splendore medioevale, rinascimentale e barocco dellla Roma cattolica e apostolica.
Visita l’Italia, e arriva a Torino quando era capitale e poi scende a Roma, di cui soffre il gran caldo settembrino e si estenua a percorrerla a piedi, in una intensa settimana di bellezza. Qualche anno dopo vi ritorna, prima a Milano e poi a Firenze, nel breve periodo in cui era capitale d’Italia. E si arrabbia con i russi che spargono da noi «i loro rubli in carte di credito» e le russe che «puttaneggiano con i principi Borghese». Un quadro di sorprendente attualità, che sembra alludere al nostro presente, principi Borghese a parte… Al suo tempo riguardava la nobiltà russa, ora invece i nuovi ricchi della Russia postsovietica e le avvenenti russe in cerca di sistemarsi o sfondare.
Non sposiamo affatto l’idea negativa di Dostoevskij sull’unità d’Italia, e continueremo a considerare nobile e degna la causa a cui si dedicò il conte di Cavour. Difenderemo la memoria del Risorgimento, che è la traduzione civile e nazionale della Risurrezione, cara a Dostoevskij forse più che a Tolstoj. E senza cancellare le pagine infami scritte dopo l’Unità, i massacri e le deportazioni, continueremo a difendere la nascita necessaria e benefica dello Stato Italiano, la sua indipendenza e il suo sviluppo che integrò il popolo nella nazione. (chi riporta si dissocia, su questo punto, eh.. ;) )
Ma è giusto concludere l’anno dell’italianità ritrovata (e subito ri-smarrita), ricordando che l’Italia nazione culturale è universale e millenaria, mentre l’Italia politica e risorgimentale è domestica e secolare. Italia, grande nazione in piccolo Stato. L’Italia dell’unità evoca uno Stato, l’Italia della tradizione evoca una civiltà.
Fonte: http://venetostoria.com/page/