Fonte: http://radiospada.org/
Inauguriamo oggi una rubrica, che chiameremo “Tolkieniana”, in cui Isacco Tacconi ci spiega i riferimenti e i simboli della fede cattolica presenti negli scritti di J. R. R. Tolkien, specialmente prendendo in esame i principali personaggi del Signore degli Anelli. [RS]
di Isacco Tacconi
La grandezza di ogni vero artista risiede nell’immortalità dei valori che riesce ad esprimere e non tanto nelle sue capacità tecniche tantomeno nella novità delle sue idee. La sua arte trascende la stessa sua comprensione e consapevolezza di ciò che egli effettivamente realizza. Il suo compito è, per così dire, «profetico» ossia “rivelare” come spiragli e riflessi di luce la realtà del soprannaturale, alla maniera dei rosoni delle cattedrali gotiche medievali. Nella misura in cui sarà impregnato del soprannaturale nella contemplazione dei Misteri della Santa Fede Cattolica l’artista potrà diventare un canale, un mediatore tra Dio e gli uomini, tra la realtà increata e il mondo creato, tra L’Essere per essenza e gli enti per partecipazione, illustrando, come in un quadro, “la realtà in trasparenza”. «Contemplata aliis tradere», diceva san Tommaso d’Aquino, intendendo che si trasmette agli altri ciò che si è contemplato. Chi si pasce e sostenta, quindi si “sostanzia”, della Bellezza, della Verità e della Bontà racchiuse nell’Unità dell’Essere fungerà da “portatore” di un tesoro non fatto da mani d’uomo pur essendo egli un fragile vaso di creta, sarà cioè un riflesso di una realtà più grande, eterna, immutabile. Il vero artista potrà dunque trasmettere agli uomini la Bellezza della Verità, lo Splendor Veritatis che egli stesso ha contemplato e amato: «Et vidimus gloriam eius, gloriam quasi Unigeniti a Patre, plenum gratiae et veritatis».
John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), nato in Sud Africa, rimarrà a soli quattro anni orfano di padre. Trasferitosi in Inghilterra soffrì l’abbandono dei nonni e di tutta la famiglia materna che ripudiò sua madre per essersi convertita al cattolicesimo dall’anglicanesimo. Questo abbandono comportò la miseria per mamma Mabel la quale visse un martirio esteriore ed interiore che, aggravato dalla malattia, la condurrà ben presto alla morte lasciando il piccolo Tolkien, ancora dodicenne, insieme al fratello minore Hilary orfani anche di madre. Memore del luminoso esempio di sacrificio della madre, John, insieme al fratello, venne accolto ed adottato da un sacerdote, l’oratoriano padre Francis Xavier Morgan il quale diverrà il suo vero padre, soprattutto nella fede. Di lui Tolkien scriverà: “era stato come un padre, più di un padre vero, pur senza esserci obbligato”[1].
Il giovane Tolkien si formerà anzitutto alla scuola del servizio dell’altare come chierichetto, studiando il catechismo il latino e il greco, dissetandosi a quella fonte inesauribile che è la Santa Messa. Si diletterà attraverso il canto pregato del gregoriano alla scuola degli angeli imparando ad amare la bellezza. Assimilerà il latino, lingua sacra della Chiesa e dei Sacri Misteri. Amerà le lettere e la letteratura, una passione che la madre infuse in lui fin dalla più tenera età. Orfano, senza nessuno al mondo, odiato dai suoi unici parenti a causa della sua fede cattolica e per questo ancor più amato da Colui che rende giustizia ai suoi santi, Tolkien troverà nella Chiesa Cattolica La Madre, in un sacerdote pio un padre, immagine del Padre Eterno che non abbandona la vedova e l’orfano, in Nostro Signore e nei sacramenti da Lui istituiti la fonte della Vita.
Questo in breve il background umano-spirituale di uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi. Come detto nell’incipit, la fede di Tolkien fu totalmente riversata nei suoi scritti e nelle sue creazioni fantastiche. E come poteva essere altrimenti? Era l’aria che respirava, era l’unica vera realtà che avesse consistenza e stabilità di fronte alla caducità e all’instabilità della vita terrena, incombente sempre lo spettro della morte. John, infatti, combatterà nelle trincee durante la Grande Guerra perdendo tutti i suoi amici più cari. Partecipò a quella che egli stesso definì «la carneficina della Somme»[2]. Ancora una volta rimarrà solo. Soltanto la sua Fede provata e purificata rimase, unica certezza dinanzi allo sfacelo della vita e della morte, a confortarlo e sostenerlo. In una lettera indirizzata al figlio Michael scriverà: «Al di là di questa mia vita oscura, tanto frustrata, io ti propongo l’unica grande cosa da amare sulla terra: i Santi Sacramenti. Qui tu troverai avventura, gloria, onore, fedeltà e la vera strada per tutto il tuo amore su questa terra, e più di questo: la morte. Per il divino paradosso che solo il presagio della morte, che fa terminare la vita e pretende da tutti la resa, può conservare e donare realtà ed eterna durata alle relazioni su questa terra che tu cerchi (amore, fedeltà, gioia), e che ogni uomo nel suo cuore desidera»[3].
Questi brevi estratti autobiografici dovrebbero essere sufficienti per farci comprendere la pasta di cui Tolkien era fatto, plasmata da una fede viva, interiore, intima, combattuta. Non dimentichiamo che l’Inghilterra era ancora ben impregnata di quell’odio e pregiudizio anticattolico apertamente contestati da G.K. Chesterton e il cardinal John Henry Newman solo pochi anni prima. Ecco un legame latente eppure non stupefacente, quello tra il santo cardinale dell’oratorio inglese e John Ronald Reuel Tolkien. Un filo rosso lega questi due giganti inglesi seppur vissuti in epoche differenti, e le loro vite per certi versi ravvisano non poche analogie. Entrambi convertiti dall’anglicanesimo, entrambi inglesi e cattolici in un’Inghilterra liberale e, per questo, antireligiosa, entrambi disprezzati dai propri cari, ambedue studiosi di antichità ed insegnanti ad Oxford, spiriti riflessivi ed introversi tutti e due si chiamavano Giovanni. Ma ciò che, in realtà, lega Tolkien a Newman è un rapporto di figliolanza. John Ronald infatti, lo abbiamo visto, sarà figlio dei padri oratoriani di San Filippo Neri i quali vennero trapiantati su suolo britannico dallo stesso Newman per mandato del Santo Padre Pio IX il quale lo pose a capo dell’oratorio inglese soltanto una generazione anteriore a quella di Tolkien. I primi oratoriani figli di Newman, dunque, allevarono e formarono il giovane Tolkien il quale può dirsi veramente un’eredità e una primizia dell’apostolato del santo cardinale John Henry Newman.
Parlando, invece, dell’opera letteraria di Tolkien è d’obbligo metterne in risalto l’assoluta unicità a causa dello scopo e degli effetti assolutamente imprevisti, e in una certa misura non voluti, della sua opera.
La peculiarità di Tolkien in quanto scrittore di romanzi fantasy è quella di aver creato un mondo, una realtà, dei popoli, dei linguaggi, delle culture del tutto fantastiche ma non irrazionali. Senza dubbio il suo è il primo vero fantasy letterario moderno, di cui l’attuale valanghiva produzione commerciale non è che una patetica e volgare scimmiottatura. Ciò che distingue infatti il Signore degli Anelli da un qualsiasi romanzo fantasy contemporaneo come quelli ad esempio della saga di Shannara, è la levatura morale dei suoi protagonisti, lo spessore psicologico dei personaggi, il simbolismo di cui l’intero romanzo è pregno e da cui il lettore viene inconsapevolmente avvolto.
Il Signore degli Anelli non è una semplice lettura “da metropolitana”, non è un mero romanzo di piacere per passare il tempo. Anche se questa non fu assolutamente l’intenzione di Tolkien, il Signore degli Anelli è un libro impegnativo (la grandezza del volume ne è un segnale eloquente). Il professore di Oxford infatti voleva semplicemente scrivere dei racconti da leggere ai suoi figli ma anche soddisfare il suo desiderio di veder “vivere” quegli strani e complessi idiomi da lui inventati e sui quali aveva speso molto tempo della sua giovinezza, delle creazioni di cui ebbe sempre cura come il creatore la sua creatura. Eppure, l’opera da lui iniziata, andrà molto al di là delle sue prime intenzioni. La stessa stesura richiese una gestazione lunga e lenta e una continua riponderazione dei contenuti. In realtà le vicende della vita privata di Tolkien influenzeranno molto lo sviluppo del suo capolavoro il quale non fu appunto frutto di una pianificazione premeditata ma una creazione che sfuggì al suo controllo. Anche Michelangelo nell’accingersi ad affrescare la cappella sistina non seppe con chiarezza come si sarebbe sviluppata la sua opera né quanto tempo avrebbe occorso, tanto più che, come Tolkien, dovette interrompere e riprendere il lavoro più volte. L’accostamento sarà senz’altro ardito ma sia Michelangelo Buonarroti che John Ronald Reuel Tolkien, al termine della loro opera, si resero conto che essa aveva superato ampiamente i loro progetti e le loro aspirazioni e che essa esprimeva veramente, oltre ai contenuti oggettivi, tutta la loro interiorità e tutta la loro visione del mondo.
Inevitabilmente perciò il Signore degli Anelli diventerà anche una sorta di “diario spirituale”, probabilmente involontario, nel quale troviamo congregati i sentimenti più profondi di uno scrittore, uomo di Fede che fece della sua immaginazione uno strumento a maggior gloria del Signore al pari delle Confessioni di Sant’Agostino.
Dunque, anche se non è volutamente un racconto pedagogico, il Signore degli Anelli non può non esserlo. Con la sua trama complessa e la pluralità dei protagonisti coinvolti, il Signore degli Anelli rappresenta una allegoria della vita e della morte, del senso del dovere e del significato della sofferenza, della necessità del sacrificio e di quello dell’espiazione. È un grande affresco sul fine ultimo dell’uomo e della creazione tutta, ovvero il riposo dei beati i quali, dopo la traversata dell’oceano della vita, troveranno la quiete tanto sospirata sulle sponde luminose dell’eternità. Potremmo accostarlo, per la sua ricchezza e il suo spessore, ad un’altra produzione figlia dell’oratorio di San Filippo Neri la nota “Rappresentatione di anima et di corpo” di Agostino Manni, sacerdote oratoriano.
La cosa che al contempo stupisce e affascina del Signore degli Anelli in particolare ma di tutta la produzione relativa alla Terra di Mezzo in generale, è che nulla vi è in essa di esplicitamente cattolico. Ossia non ci sono riferimenti diretti a personaggi della Sacra Scrittura né il contesto storico che fa da sfondo alla trama è un’epoca cristiana come nei romanzi medievali di Boiardo, di Ariosto o di Tasso. Eppure, tutto nel Signore degli Anelli è cattolico. Ma è proprio questa sua bellezza al contempo implicita e manifesta ritengo sia stata ed è tutt’ora la sua forza persuasiva e coinvolgente, tanto da riuscir ad attirare persone delle più diverse estrazioni culturali e religiose. Con questo non voglio dire che leggendo il Signore degli Anelli si diventi cattolici, certamente no, ma chi ha avuto la fortuna e la grazia di leggerlo ha potuto gustare la bellezza fresca che può venire soltanto dalla Fede Cattolica integralmente vissuta e trasmessa.
La lettura del Signore degli Anelli ha la capacità di spingere il lettore a farsi spontaneamente bambino provocando in lui quasi la sensazione di essere preso in braccio dal buon papà seduto sulla poltrona, messo sulle sue ginocchia accanto al fuoco crepitante mentre la storia ha inizio. Cosa che Tolkien, d’altra parte, fece realmente con i suoi figli man mano che stendeva il suo capolavoro e, prima di coricarsi, gliene leggeva volta per volta il capitolo appena scritto. Lo stesso non si può dire degli scritti di C.S. Lewis il quale, proprio perché anglicano, risulta a volte moralista e pedante con la smania tipica dei protestanti di voler predicare “a parole”.
Nell’interpretazione degli scritti di Tolkien troppo si è insistito sulla famosa metafora del “viaggio” enfatizzandone gli aspetti meramente “romantici” che portano ad una immagine di Tolkien parziale e distorta. Gli autori romantici, infatti, sono in genere contraddistinti dall’egocentrismo, dalla malinconia e dal ripiegamento su se stessi che pretende però di istruire, attraverso la lamentela, gli sventurati lettori. Niente di simile in Tolkien il quale scrisse principalmente per se stesso, per i suoi figli e per la sua amatissima moglie Edith. Niente di autoreferenziale dunque vista la sua mai celata timidezza e il suo carattere riflessivo che preferiva il nascondimento alla notorietà. La metafora del “viaggio” fine a se stesso, come ricerca o “quest” è uno stereotipo letterario romantico che non si addice ad un cattolico, tantomeno ad uno scrittore cattolico come Tolkien, il quale non va in cerca di qualcosa di indefinito o di immaginario ma, con i piedi ben piantati a terra, punta dritto al Cielo. L’uomo secondo la teleologia o escatologia cattolica è un «pellegrino» con tutto quello che il pellegrinaggio significa (espiazione, adorazione, offerta, riparazione, devozione, ecc.). È del tutto ingiusto, perciò, incasellare Tolkien e la sua opera in una delle categorie letterarie moderne. Egli sapeva che l’uomo non è un viaggiatore malinconico imprigionato nell’intramondano alla ricerca di un qualcosa di indefinito che appaghi l’ego dell’artista tormentato. Questo è nient’altro che lo stato dell’uomo che ha perso o rifiutato l’orizzonte soprannaturale e il senso della propria esistenza. Il cristiano al contrario, dice sant’Agostino, è come un albero che vive sulla Terra ma ha le sue radici in Cielo.
La concezione che è alla base del Signore degli Anelli e che regola tutta la Terra di Mezzo è, a ben vedere, aristotelico-tomista ossia cattolica. Sulla scorta della visione del mondo di cui San Tommaso d’Aquino per grazia di Dio ha arricchito la dottrina cattolica, Tolkien descrive la realtà da lui creata, riflesso di quella creata da Dio, secondo un duplice movimento che la anima e la guida. Il primo è un movimento di exitus («uscita») il secondo di reditus («ritorno») che spiega come tutti gli esseri spirituali escono e provengono da Dio e aspirano a ricongiungersi a Lui che è il Bene Supremo e la nostra eterna Felicità. Il Silmarillion è il volume dedicato proprio alla creazione e all’origine dei “progenitori” della Terra di Mezzo. In esso viene descritta anche “la caduta” attraverso la metafora di una splendida e divina melodia rovinata da poche note stonate frutto della ribellione e dell’orgoglio.
Questa è l’avventura dell’anima, la ricerca del suo Fine Ultimo e il “ritorno” al suo Principio Primo che si svolge in una vera e propria “Terra di Mezzo” fra il Paradiso e l’Inferno, in un luogo d’esilio che non è la sua patria. Il suo Fine è tornare al suo Inizio, al suo Creatore, varcando quello spazio indefinito, descritto da Tolkien come una traversata oceanica da una sponda ad un’altra, che è la morte. Il passaggio dalla riva instabile e mutevole di una terra “di Mezzo” ai colli eterni e immutabili del Regno dei Cieli, un premio riservato solo a coloro che hanno portato il loro “fardello” attraverso quella che l’Apocalisse definisce «la grande tribolazione». Non a caso Bilbo Baggins chiamerà la sua avventura, secondo la cosmologia tomista, “Andata e Ritorno” («exitus et reditus»).
Fatta questa doverosa, seppur troppo breve, premessa diamo inizio ad un esame più dettagliato dei simboli e dei personaggi tolkieniani o, perlomeno, dei più importanti.
[segue]