mercoledì 9 novembre 2011
Rivolta in Sicilia, congiura contro Ferdinando II.
Chiesa Viva n°373
La fine del 1856 fu un periodo importante per le operazioni mazziniane nel regno di Napoli. Un agente di Cavour, a nome di Enrico Misley, massone degli alti gradi, aveva presentato, pochi anni prima a Mazzini, a Londra, il barone Bentivegna, siciliano affiliato alle Logge. Crispi, dal canto suo, aveva accreditato Bentivegna con una lettera a Lemmi, al quale da tempo Mazzini si rivolgeva spesso per consigli. Il barone strinse amicizia con Adriano, divenendone un amico molto stretto.
Verso il settembre 1856, il Comitato Centrale Europeo di Mazzini decise l’assassinio del re di Napoli e di scatenare, contemporaneamente, una rivoluzione in Sicilia. Bentivegna fu scelto per fomentare la rivolta, mentre Lemmi s’incaricò dell’assassinio.
Si era progettato di far saltare per aria Ferdinando II per mezzo di una bomba che un affiliato fanatico doveva gettare sotto la carrozza reale, durante una passeggiata pubblica di Sua Maestà. Per l’organizzazione dell’assassinio, Mazzini lasciava piena libertà a Lemmi, e questi scelse un ebreo lombardo, a nome Giosuè Possano, il quale aveva trovato le composizioni chimiche degli ordigni. Sotto falso nome, Adriano andò a Palermo, dove trovò tutto pronto per la rivolta, e da dove scrisse a Mazzini annunciandogli che «gli affari saranno fruttuosi in Sicilia». Poi, andò a Napoli, dove l’assassinio era stato fissato per il 22 novembre, giorno in cui sarebbe scoppiata la rivoluzione in Sicilia. Il Barone Bentivegna aveva fornito a Lemmi un giovanedei dintorni di Mesina, un certo Filippo Carabi, che fu suo compagno di viaggio.
Giunti a Napoli, e scelti due diversi alberghi, i due si diedero appuntamento per la domenica nelle cave di pietra di Pianura, per fare le prove con la bomba. Disposero la bomba e l’accesero a distanza con una lunga miccia che bruciava lentamente. L’esplosione fu terribile; fu tanto distruttiva, infrangendo un enorme masso, che il giovane Carabi comprese che, gettando la bomba sotto il cocchio reale, egli sarebbe stato fatto a pezzi insieme a Ferdinando II.
Prendendo la scusa di essere l’unico sostegno della sua vecchia madre, egli, dopo aver giurato che avrebbe mantenuto il segreto, consigliò Lemmi di trovarsi un altro esecutore dell’assassinio. Contrariato per questo rifiuto e, anch’egli molto attaccato alla sua preziosa esistenza, per non portare a termine l’assassinio di persona, Lemmi giurò di castigare il siciliano.
Infatti, il povero Filippo Carabi fu assassinato, cinque anni dopo, in una Loggia di Napoli, un giorno che egli vi si era recato senza alcun sospetto. Questo delitto fu commesso con una ferocia e una destrezza inaudita: gli archivi del Direttorio di Napoli ne danno i più minuti particolari: il sequestro di Carabi nel 1861, il suo processo svoltosi davanti a un tribunale segreto, la tortura spaventevole che gli si fece subire, e l’estremo supplizio posto in esecuzione nel più profondo mistero.
Scoppiata la rivolta in Sicilia, Lemmi si mise in contatto diretto con vari capi massoni napoletani, che lo consigliarono di non far uso di una bomba, ma di un pugnale, e che gli proposero, il 4 dicembre, in casa di un mazziniano a Torre del Greco, due militari affiliati: Giusepe Locuti e Agesilao Milano. L’emissario del Comitato mazziniano di Londra scelse il Milano.
L’8 dicembre 1856, nel momento in cui Ferdinando II passava in rivista l’esercito di Napoli, il soldato Agesilao Milano si staccò improvvisamente dalle file e tirò due violenti colpi di baionetta al re, colpendolo in mezzo al petto. Per fortuna, la baionetta si curvò e Ferdinando non fu nemmeno ferito. Tratto in arresto, Milano fu giudicato, condannato a morte e giustiziato.
Mazzini fece coniare una medaglia commemorativa in onore dell’assassino, qualificato come “martire”.
Nel frattempo, l’insurrezione in Sicilia fu repressa, il barone Bentivegna fu catturato e fucilato il 20 dicembre.
Il Governo reale ebbe la prova dell’esistenza di una congiura e si credette che tutto fosse stato organizzato dal Comitato di Londra; gli stessi massoni, eccetto Bentivegna, ignoravano la vera identità di Lemmi, ma questo è stabilito dal processo massonico di Filippo Carabi, esistente negli archivi del Direttorio di Napoli.
1 Cfr. Domenico Margiotta, “Ricordi di un 33”, Delhomme e Briguet, Editori, Parigi 1895. pp 21-25.