nella foto : Monaldo Leopardi
Alla prima, tumultuosa e spontaneistica (qui del 1797), fece, difatti, seguito quella del 1799, caratterizzata da forme organizzative abbastanza avanzate e da rapporti stabili con le Potenze europee in guerra con la Francia con conseguente coinvolgimento nel gioco diplomatico e militare, nel quale queste Potenze, unite dalla concorde volontà di respingere la Francia nei suoi antichi confini e, soprattutto, di estirpare dall' Europa il virus rivoluzionario, non dimenticavano tuttavia di assicurarsi situazioni di vantaggio in vista di possibili allargamenti territoriali dopo una vittoria che nei primi mesi del 1799 appariva a portata di mano.
Come noto, l' invasione francese della tarda primavera 1796 toccò soltanto la parte più settentrionale dello Stato della Chiesa, le legazioni di Bologna, Ferrara e Ravenna, sicché è nel 1797, dopo la sconfitta dell'esercito pontificio nella battaglia del Senio (2 febbraio), in terra di Romagna, che i marchigiani fecero conoscenza dell' esercito invasore e sperimentarono sulla loro pelle i benefici della Rivoluzione. Un' esperienza abbastanza breve, dal momento che la vittoria del Senio fu rapidamente seguita dal trattato di pace firmato a Tolentino il successivo 19 febbraio, che toglieva allo Stato della Chiesa le Legazioni, ma gli restituiva (temporaneamente) la provincia marchigiana, con conseguente ritiro delle truppe francesi fra marzo e maggio, ad eccezione che da Senigallia ed Ancona .
Quest'ultima città, dove operavano i più consistenti circoli giacobini della regione, tornò al Pontefice solo al termine della guerra di liberazione del 1799 e non per caso dal momento che il Bonaparte nel maggio 1797, pochi mesi dopo la firma del Trattato, enunciava: Ancona che abbiamo già in nostro potere, diventa ogni giorno più formidabile, e noi la conserveremo, finché i nostri affari di Roma ce la daranno irrevocabilmente. In questo breve lasso di tempo, in alcuni casi già prima del Trattato, in altri nei giorni immediatamente successivi, le popolazioni insorsero unanimi contro gli invasori e i giacobini locali, esattamente come era accaduto l' anno precedente negli altri territori italiani invasi, ma forse con ancora maggiore immediatezza, perché la dolorosa esperienza dei vicini non lasciava adito a dubbi su quanto ci si doveva attendere, e, per lo stesso motivo e per avere la rapacità delle requisizioni superato anche le voci più allarmistiche, con tale vigore e determinazione che in molti casi i francesi, per il momento più interessati ad una rapida e fruttuosa scorreria di rapina che a stabilire nelle Marche una di quelle repubblichette giacobine strettamente dipendenti dalla Repubblica-madre e a suo totale servizio, furono costretti a venire a patti.
E' il caso degli urbinati, che, dopo avere, il 25 febbraio, pressoché distrutto al Gallo una colonna francese proveniente da Pesaro e resistito all' attacco portato alla città dal generale Sahuguet, reduce dal terribile saccheggio di Fossombrone (vi erano stati compiuti atti sacrileghi e violentate molte donne, fra le quali le suore del convento di S. Agata), ne ottennero, l' 11 marzo, l'impegno al rispetto della religione e a non entrare nella città e nel suo contado (ad ogni buon conto, non fidandosi troppo, gli urbinati collocarono presidi su tutto il territorio in attesa della effettiva partenza dei francesi).
Come ricorda nel libro Insorgenti marchigiani Sandro Petrucci, analoghi successi ottennero le insorgenze di S. Lorenzo del Campo, di Cingoli e del Montefeltro. Qui la fortezza di S. Leo, caduta senza combattere il 5 febbraio, venne riconquistata un mese dopo dagli insorgenti condotti da un uomo di legge, un rappresentante della borghesia benestante di solito aliena dalle imprese guerresche e spesso favorevole alle idee rivoluzionarie: il notaio Giovanni Masini. Diversa la situazione delle città e dei paesi della costa, in particolare Ancona, Pesaro e Senigallia, nonostante che nel 1799, dopo lo scoppio del conflitto fra la Francia e le truppe delle Potenze della Seconda Coalizione, l’Adriatico fosse dominato dalle flotte alleate. Qui la forte presenza francese scoraggiò o fece presto tramontare i tentativi di resistenza.
Insorgenze sfortunate, seguite da veri e propri eccidi, si ebbero, oltre che a Fossombrone, a Tavoleto, paese a cavallo del confine romagnolo e, quindi, partecipe tanto dell'Insorgenza urbinate, con un tentativo di assalto a Pesaro, quanto di quella che, come si è ricordato nel capitolo dedicato alle insorgenze emiliano-romagnole, nel marzo 1797 coinvolse il contado cesenate dall'appennino al mare. Le Marche centro-meridionali furono, a loro volta, interessate da centinaia di piccole e grandi insorgenze, perché se a volte le città si mostrarono inclini a chinare la testa di fronte alla forza, magari recuperando antiche ambizioni autonomistiche, di diversa opinione furono dovunque contadini e paesani, ad ingrossare le cui file concorsero poi, al loro arrivo nei centri più grossi, pressoché totalitariamente gli artigiani.
In questo territorio sembrano particolarmente significativi, anche a titolo di esempio di una assai più vasta realtà, i casi di Cingoli, Sant’Elpidio e Civitanova, anche qui coi rispettivi contadi in funzione di promotori. A Cingoli, come ad Urbino, gli insorti, che avevano dato inizio all’insurrezione con l’uccisione di quattro francesi incaricati di riscuotere le contribuzioni, si mostrarono così decisi a sostenere con le armi la fedeltà al Pontefice, che il generale Rusca, comandante della colonna incaricata della repressione, preferì evitare uno scontro che. anche se vittorioso, gli avrebbe causato troppe perdite e patteggiare, acconsentendo a tenere le truppe fuori dal paese e a condonare le richieste contribuzioni. A San’Elpidio e Civitanova l’Insorgenza, anche qui soprattutto contadina, prese toni ed aspetti da indurre alcuni storici ad attribuirle natura di sollevazione dei ceti subalterni rurali contro l’aristocrazia e la ricca borghesia (un caso di proto-lotta di classe). Si trattò in realtà della solita contrapposizione, comune a tutta la realtà marchigiana e non solo, fra i contadini, pronti a battersi per la salvezza del loro mondo minacciato di distruzione, e i nobili e i possidenti, che, anche quando si mantenevano in cuor loro fedeli al legittimo Sovrano, erano in gran parte assai più preoccupati della salvezza dei propri beni e, di conseguenza, inclinavano a cercare un compromesso con i troppo forti francesi
A Sant’Elpidio il contrasto assunse aspetti di particolare durezza o per particolari aspetti caratteriali di qualche protagonista o perché, a differenza di quanto era avvenuto ad Urbino e altrove, nessun appartenente al ceto dirigente aveva accettato la richiesta degli insorti di unirsi a loro prendendone la direzione militare. Ce ne offre prova nei suoi scritti un possidente di Sant’Elpidio, Gerolamo Mallio, decisamente avverso agli insorgenti. Costui, mentre si stava allontanando con altri del suo ceto dal convento dove si erano rifugiati per sottrarsi alle pressioni dei paesani, si era imbattuto in alcuni contadini, che vedendomi andar via mi dicevano che ero un cane a lasciare così la patria, che essi difendevano con tanto fervore. In pratica, commenta il Petrucci, una percezione di tradimento, da parte dei contadini, che spiega anche l’uccisione del conte Brancadoro, che non era affatto un giacobino, ma un inviato della città di Fermo al comando francese per scongiurare rappresaglie per l’uccisione di alcuni soldati.
Al ritorno aveva seguito la colonna del generale Rusca e nel corso di una scaramuccia era stato sorpreso da una pattuglia di insorti, di cui faceva parte un suo ex-colono, che si adoperò per salvarlo, assicurando che il suo padrone non aveva relazioni col nemico. Il conte se la sarebbe cavata se non gli fosse stata trovata addosso una coccarda tricolore, che, giudicata prova del tradimento, gli costò la fucilazione. Amor di patria dunque e fedeltà al legittimo Sovrano. Sentimenti che però poco hanno a che spartire col nazionalismo, proprio in quegli anni partorito dalla Rivoluzione, e trovano riferimenti e contenuti in un sistema di valori, al cui centro è collocata la Religione.
Anche nelle Marche, come nel resto d’Italia e in tutta Europa, la Controrivoluzione trova la sua motivazione più profonda nel Cristianesimo, all'epoca elemento fondante dell'identità delle popolazioni, che non per caso si riunivano sotto gli stendardi delle Confraternite al grido di Viva Gesù e Viva Maria e appuntavano al cappello o al farsetto un'immagine dei Santi o, più spesso, della Beata Vergine. Questa religiosità tuttavia non nasconde l' affiorare di contrasti e divergenze con le gerarchie ecclesiastiche, ritenute troppo deboli e pavide e a volte addirittura complici dei francesi (nel corso del XVIII° secolo l' eresia giansenista aveva contagiato non piccola parte del clero, predisponendolo ad accogliere con favore la Rivoluzione).
Divergenze destinate, invece che a risolversi, ad accentuarsi durante il dominio napoleonico e a crearel' ambiente favorevole al sorgere e al proliferare dell' anticlericalismo e dell' avversione al governo dei preti e spesso della vera e propria irreligione, che nei successivi decenni caratterizzeranno sia le Marche, sia la Romagna e la Toscana. Si è definita l' Insorgenza del 1797 spontanea e tumultuosa, il che ovviamente non comporta totale assenza di forme di organizzazione comune, sia pure all' interno di ambiti territorialmente ristretti ed omogenei (in genere una città e il suo contado, come, appunto, Urbino e l' Urbinate o anche l'intero Montefeltro), e anche di tentativi di stabilire più ampi collegamenti con le Insorgenze di città meno prossime, sicché a ragione il Petrucci respinge la tesi liberale di uno scoppio improvviso di follia collettiva.
Nelle Marche questa pur rudimentale organizzazione si presenta ad uno stadio più avanzato di quello riscontrabile in Lombardia, in Emilia e nella finitima Romagna nel 1796, perché le notizie di quanto vi era accaduto si erano rapidamente diffuse e il permanere su quei territori dell’esercito francese, accompagnato dall' installazione di governi-fantoccio e dall' arruolamento di truppe locali, era motivo di costante allarme, facendo sospettare che difficilmente l' invasore si sarebbe accontentato di quanto già assicuratogli dalle sconfitte inflitte agli austriaci e ai pontifici. Quello firmato a Tolentino era uno di quei trattati che la Francia repubblicana e, in seguito, quella napoleonica, stipulava con la riserva mentale di rispettarli solo finché le riuscissero utili. Il governo pontificio si era acconciato alla pur dolorosa amputazione delle sue province più ricche e per gran parte degli anni ’97 e ’98 gli ecclesiastici si adoperarono per tenere tranquille le popolazioni marchigiane.
Queste si sentivano particolarmente esposte, sia perché in vari luoghi avevano ancora in casa le truppe francesi, sia perché il territorio era percorso in tutte le direzioni dai commissari del Direttorio parigino alla ricerca di beni da confiscare per il sostentamento delle truppe e di opere d’arte da inviare a Parigi, tanto che, come scrisse l’ambasciatore francese a Roma, Cacault, ciò riduce all’estrema disperazione questa provincia che vede che le tolgono ogni cosa e che le incombe la più crudele carestia. Secondo il Cacault per ridurre allo stremo non solo le Marche, ma l’intero Stato della Chiesa fino ad un rapido e irreversibile collasso sarebbe stata sufficiente la rigorosa applicazione delle clausole del Trattato. Tuttavia già nell’ autunno del 1798 a Parigi, anche in considerazione di una prossima scomparsa dell’anziano Pio VI, gravemente malato, si era decisa una intromissione diretta nelle vicende dello Stato pontificio.
Il 10 ottobre il ministro degli esteri francesi, Talleyrand, scriveva al Bonaparte: Due cose dovete fare, cittadino generale. La prima impedire con tutti i mezzi possibili che il re di Napoli entri nel territorio del Papa. La seconda aiutare le buone disposizioni di chi pensasse che il tempo dei papi deve finire, incoraggiare la spinta del popolo romano verso la libertà. Ancora più deciso il direttore La Réveillére-Lépaux, l’inventore di una nuova religione destinata a sostituire il cristianesimo, che invitava il generale a prendere ogni iniziativa affinché non si dia a Pio VI un successore. Nei mesi seguenti, forse perché il Papa deluse le attese non decidendosi a morire e intanto erano cresciute le esigenze finanziarie del Direttorio, a Parigi venne decisa una nuova invasione, preceduta ed annunciata il 7 dicembre 1797 dalla conquista della fortezza di San Leo per iniziativa, formalmente, della Cisalpina, che ne sosteneva l’appartenenza anche geografica alla Romagna, ma in realtà condotta in porto dai polacchi del generale Dabrowscki e ancor più dalla terrorizzata remissività degli amministratori pontifici.
Il comandante della fortezza, Filippo Silvani, aveva respinto il primo attacco, ed era tutt’altro che propenso alla resa, ma da Pesaro, dove ancora ci si illudeva di salvare la pace, gli giunse l’ordine di non opporre ulteriore resistenza e solo di cercare di ottenere una capitolazione vantaggiosa. Come sempre la remissività non servì a nulla. Il 23 dicembre i cisalpini occuparono Fano, il 25 il generale Lechi prese Pesaro e il 27 Urbino. Intanto già a metà novembre ad Ancona, dove si trovavano ancora truppe francesi, era stata proclamata la repubblica democratica. Nei primi giorni dell’anno seguente Macerata si diede ai francesi per evitare l’occupazione da parte dei temutissimi cisalpini, che scrive Carlo Botta, commisero atti di cui quei popoli si erano mossi a grandissimo sdegno: le avrebbero anche condotte all’ultima uccisione, se non fosse sopraggiunto Berthier coi soldati di Francia. Infine, cogliendo il pretesto della morte del generale Duphot, ucciso a Roma dai pontifici il 28 dicembre mentre tentava di eccitare il popolo romano alla rivolta, l’11 gennaio 1798 il Direttorio ordinò al Berthier (il Bonaparte aveva lasciato Milano per la Francia il 16 novembre) di invadere Roma e tutto lo Stato. L’occupazione di Roma e ancor più l’esilio intimato al Papa (17 febbraio) riaccesero il fuoco della rivolta in molti territori e città, che già in occasione dell’occupazione di San Leo e della penetrazione cisalpina avevano invitato le autorità pontificie ad organizzare la resistenza, offrendosi di affiancare le truppe regolari.
Così era accaduto ad Urbino, dove le nuove truppe erano state inviate non già per opporsi ai francesi, ma per prevenire eventuali tumulti di popolo e, come scrisse il cronista urbinate Fiorini, reso sospettoso dalla debolezza del governo e, soprattutto, dagli stretti legami di amicizia apparentemente esistenti fra un certo numero di ufficiali del Papa e i locali circoli giacobini, tenere a freno gli Urbinati e per più facilmente consegnare questa Città a dispetto della fedeltà del popolo nelle mani de’ Francesi e Cisalpini, come pur troppo avvenne. Comunque la pace continentale firmata il 17 ottobre 1797 fra la Francia e l’Impero consentiva agli occupanti una maggiore disponibilità di truppe e , quindi, un più efficace controllo militare del territorio.
Di conseguenza anche nelle Marche il 1798 fu un anno relativamente tranquillo per i repubblicani e le insorgenze risultarono meno estese, tanto nello spazio quanto nel tempo, e meno intense di quelle del '97. Unica rilevante eccezione proprio la città di Roma e le province pontificie del Lazio e dell’Umbria, verosimilmente perché l’attacco al centro stesso della Cristianità e al successore di Pietro rendeva ancora più manifesto il carattere anticristiano e, in particolare, anticattolico della Rivoluzione. Per di più queste popolazioni subivano per la prima volta la dominazione straniera e le offese al loro sentimento religioso sicché massima ne risultava la reattività, mentre i marchigiani si erano già impegnati in dure lotte protrattesi per poco meno di un anno, al termine del quale avevano dovuto constatare, assieme all’alto numero delle vite umane sacrificate e all’immensa quantità di bene materiali perduti, il fallimento di questi, pesantissimi sacrifici. Un insuccesso tanto più difficile da sopportare, in quanto era inevitabile attribuirlo, ancor prima che alla protervia dei repubblicani, alla debolezza del governo, all’assenteismo, quando non addirittura al tradimento dell’aristocrazia. Al contrario nel 1799 l' Insorgenza (non solo nelle Marche, ma qui i fenomeni risultano particolarmente evidenti), pur senza modificare le caratteristiche essenziali, raggiunse il punto più alto nell'organizzazione politico-militare grazie alla collaborazione con le iniziative sul campo delle Potenze europee nuovamente in guerra con la Francia: Austria e Russia, le cui armate erano affidate al comando supremo del generale Suvorov, Inghilterra (alcune navi inglesi incrociavano al largo delle coste marchigiane) e Regno di Napoli, rappresentato, dopo la rapida dissoluzione dell’esercito, dall' Armata della Santa Fede, al comando del cardinale Fabrizio Ruffo, alter ego del Re, rifugiatosi in Sicilia, sul continente.
Mentre nel nord della penisola il principale punto di riferimento degli insorti era costituito, oltre che dal locale Sovrano legittimo e dal Papa, dall' Impero e a quest' ultimo da Roma in giù si sostituiva il Regno di Napoli, nelle Marche, terra di passaggio fra Settentrione e Meridione, agivano entrambe le influenze, sicché qui la diversità dei progetti coltivati dalle singole Potenze per l' assetto politico dell' Italia dopo la liberazione dai francesi, diede luogo a diversità di posizioni e anche a situazioni conflittuali, se non fra gli insorgenti, fra i loro capi. Nell' ambito marchigiano si possono quindi distinguere zone di maggiore o minore influenza delle Potenze interessate. Nei territori più prossimi alla Romagna risulta prevalente la presenza imperiale (militarmente rappresentata dalle truppe austro-russe del generale Suvorov e dalle masse agli ordini dell' ex-generale giacobino Giuseppe Lahoz, capace di inquadrarle e disciplinarle in un vero e proprio esercito). Più a Sud, in particolare nell'Ascolano, riesce determinante l' attrazione del Regno di Napoli, anche perché rappresentato sul campo, più che da truppe regolari, dall' Armata della Santa Fede e da gruppi di insorti locali sicché gli insorgenti marchigiani facilmente si trovano in sintonia con quanti portano la coccarda rossa del Re di Napoli.
Comunque nel ’99 tanto al nord quanto al sud della regione accorsero per battersi contro i francesi i volontari delle truppe a massa, fra i quali spiccavano, anche perché armati di fucili e carabine, invece che di forcali, accette, falci e altri arnesi del lavoro dei campi, gruppi di ex-soldati pontifici, di cacciatori e anche qualche antico bandito non necessariamente spinto dal desiderio del saccheggio. Molti fuorilegge, nonostante scelte spesso forzate dalla miseria o da un gesto inconsulto commesso in uno scoppio d’ira, avvertivano forte il richiamo del popolo dal quale erano usciti e della religione tutt’altro che rinnegata anche se contraddetta dal loro sistema di vita e che offriva con la guerra contro i nemici di Dio e del Papa un’occasione di riscatto. Fra i capi-massa marchigiani, si distinguono (i nomi, ricorrenti nelle cronache del tempo, rimarranno a lungo vivi nella memoria popolare finché non provvederanno a cancellarli, dopo l’unificazione italiana, le manipolazioni della storiografia e dell’istruzione obbligatoria) personaggi come Giuseppe Costantini detto Sciabolone di Lisciano, un piccolo coltivatore conosciuto per la sua passione venatoria e l’infallibile mira, esponenti della piccola nobiltà come Giuseppe Vanni da Calderola, Clemente Navarra da Castel Clementino, della borghesia benestante come Giuseppe Cellini, considerato fino all’arrivo del La Hoz il capo morale dell’Insorgenza marchigiana, il frate (o meglio, nonostante la scelta a favore del legittimismo, l’ex frate per il suo totale distacco, in via di fatto, dall’Ordine e l’assoluta indipendenza dai superiori) Donato de Donatis, più noto col nome di battaglia di Generale dei Colli.
Su tutti sovrasta, dapprima nel Pesarese, ma ben presto con un ruolo decisivo nell’intera regione, il milanese Giuseppe La Hoz, già ufficiale austriaco, poi generale cisalpino (in tale veste presente alla battaglia del Senio, dove rimase ferito, e, nel successivo aprile-maggio, alla feroce repressione delle Pasque Veronesi), infine unitosi, nella primavera 1799, ai capimassa Cellini e De Donatis. Questo lombardo di remote origini spagnole, assai discusso e arduo da decifrare per i suoi cambiamenti di fronte (comunque tutt’altro che rari in quegli anni tumultuosi), nominato dal generale Suvorov comandante in capo degli Insorgenti d' Italia, riuscì a trasformare i capi-massa in luogotenenti, membri di un suo stato maggiore, e soprattutto a dare alle truppe a massa organizzazione e disciplina quasi militari. Un risultato questo che, ancor più delle sue vittorie, gli assicurò l’ammirazione degli esponenti di quella parte della nobiltà che, pur rimasta in cuor suo fedele al governo pontificio, temeva più di ogni cosa al mondo, francesi inclusi, l’indisciplina degli insorti, anche per gli ampi varchi che questi lasciavano alla presenza di veri e propri banditi e dei profittatori a fini propri di ogni disordine.
Rappresentante di questo modo di pensare, nonostante il suo legittimismo, che ne ha fatto, con il De Maistre e il principe di Canosa, uno dei maggiori pensatori reazionari di questo periodo, il conte Monaldo Leopardi, che nella sua Autobiografia dipinge dapprima il La Hoz al suo approssimarsi ai confini di Recanati e nella prima fulminea incursione nella città come una minacciosa figura giganteggiante nel buio, per passare poi a riconoscerne i meriti quando, quando, poco dopo, vi sostò un paio di giorni coi suoi uomini: Nel giorno 3 di agosto del 1799 sulle ore 21 il generale La Hoz seguito da quattro o cinque a cavallo, entrò di gran galoppo a Recanati, e raggiratosi come un fulmine nell’interno e nell’esterno della città tornò a riunirsi con la sua truppa sulla strada di Macerata. Fra non molto rientrò alla testa di tutta la truppa, che ci sorprese con la sua disciplina, e col suo silenzio pari a quello di un coro di Cappuccini. Erano circa duemila uomini, quaranta cavalli, sei cannoni, e qualche carriaggio, e tutti andarono ad accampare a mezza via di Loreto sul terreno del Santuario coltivato da un certo Palpa. Il contegno di quella gente ci rassicurò, e infuse un rispetto grandissimo per il Generale che aveva saputo ispirarlo in tanti pochi giorni. Con questa truppa, che comprendeva accanto ai contadini, ex-soldati pontifici e i non molti giovani che avevano risposto ad una sorta di leva, in parte obbligatoria in parte volontaria, da lui bandita, il generale La Hoz inflisse ai francesi ripetute sconfitte, che, pur insufficienti ad evitare improvvisi ritorni offensivi dei repubblicani, tuttora forti dietro le ben munite mura di Ancona, gli assicurarono un controllo del territorio sufficiente a permettergli di istituire a Fermo e di trasportare poi a Macerata, designata capitale della regione in attesa della liberazione di Ancona, un’amministrazione civile denominato, per sottolineare l'unità di intenti degli Stati della penisola, Imperial Regia Pontificia Provvisoria Reggenza.
L’istituzione di questo organo di governo e il tentativo di creare un’organizzazione amministrativa capace di mantenere l’ordine senza coinvolgere le truppe, e di realizzare una leva militare e la riscossione non di contribuzioni di guerra, ma di regolari imposte rappresentano un’importante caratteristica dell’Insorgenza marchigiana, che sotto la guida dell’ex cisalpino era giunta a rendersi conto della necessità di accompagnare alle imprese militari un’ordinata vita sociale per favorire il ritorno alla normalità in attesa del definitivo ristabilimento di quelle antiche forme di governo che rappresentavano, come un sospirato mondo perduto, la concorde aspirazione degli insorti. Questi tentativi di organizzazione in certo senso da tempo di pace attribuiscono un ruolo particolare al generale La Hoz, distinguendolo anche sotto questo aspetto dagli altri capi dell’Insorgenza, quasi mai capaci di vedere oltre le immediate esigenze belliche e inclini a rinviare ogni diverso problema a dopo la definitiva cacciata dei francesi. Ciò non toglie che il La Hoz, condizionato dalle sue origini di ufficiale austriaco e di generale cisalpino, restasse sempre e soprattutto un soldato, e che, una volta fissatene le basi, preferisse delegare totalmente ad altri, non di rado, apprezzandone l’influenza sulla popolazione, ecclesiastici di sua fiducia, l’attuazione e la gestione dell’amministrazione civile per dedicarsi alla campagna militare.
Suo scopo immediato la conquista di Ancona, dentro le cui mura si erano asserragliati i francesi del generale Monnier, fiancheggiati da numerose truppe cisalpine, per passare subito dopo all’impresa che avrebbe dovuto coronare il suo sogno di gloria: la liberazione di Roma per ridonargli quel lustro e primato, che ha goduto da tanti secoli fra i popoli cattolici, come si legge in un suo proclama. La città che affascinava il generale non era l’antica Roma repubblicana, tanto cara ai rivoluzionari pettinati alla Bruto, o quella imperiale, ma la Roma cristiana e pontificia. Alla liberazione di Roma miravano anche, con l’appoggio della flotta inglese, i napoletani, ansiosi di riscattare le troppo rapide sconfitte patite nel dicembre 1798. e il protrarsi dell’assedio di Ancona, condotto dal La Hoz con una abilità da tutti ammirata (il conte Leopardi, che per altro li considerava due abili avventurieri, arrivò a paragonarlo al Bonaparte), ma non sostenuto da un adeguato parco di artiglieria, consentì ai napoletani di vincere la corsa alla capitale della cristianità. Vi entrarono, trionfalmente accolti, il 30 settembre, quattro giorni dopo la capitolazione della Repubblica Romana, firmata a Civitavecchia dal generale Garnier.
E’ probabile che se non fosse rimasto così a lungo bloccato sotto le mura di Ancona La Hoz, aprendo un nuovo fronte sul fianco delle truppe francesi in ritirata, avrebbe anticipato di qualche tempo la liberazione di Roma, con esiti tuttavia imprevedibili, per la possibilità di una accentuazione dei contrasti esplosi fra lui e gli altri capi dell’Insorgenza marchigiana, che avevano come punto di riferimento il Regno di Napoli. e lo ritenevano partigiano dell’Austria. Contrasti che avevano indotto il generale lombardo, col quale si era schierato nonostante i suoi stretti rapporti con l’Insorgenza meridionale, Sciabolone, a ordinare l’arresto di Clemente Navarra, di Giuseppe Vanni e di Giuseppe Cellini, che pure era stato il primo, col De Donatis, anch’egli arrestato, a trattare e favorire il suo passaggio dall’armata cisalpina all’Insorgenza. S’ignora con quali sentimenti l’abbia accolta, ma è verosimile che Giuseppe La Hoz abbia fatto in tempo a ricevere la notizia dell’ingresso dei napoletani a Roma, prima della sua morte seguita appena dieci giorni più tardi a seguito di una ferita patita la notte precedente quando era intervenuto per respingere una sortita da Ancona dei repubblicani, che, guidati personalmente dal generale Monnier, erano riusciti a superare d’impeto, sbaragliandone i difensori, due delle tre linee d’assedio disposte dal La Hoz intorno alla città. Grazie al suo intervento i repubblicani erano stati respinti dentro le mura e la soritita poteva considerarsi fallita.
Tanto grande era però l’importanza attribuita dal Monnier alle capacità militari del La Hoz, che la sua morte, comunicata agli anconetani con un apposito ordine del giorno in italiano e in francese, gli consentì di celebrare la sconfitta come una grande vittoria. Il cisalpino Balbi, autore del fortunato colpo di fucile che, come si legge nella motivazione, aveva ammazzato il generale de’ Briganti (il Monnier lo credeva morto sul campo, ma in realtà il ferito, trasportato a Loreto, vi morì il giorno successivo), ricevette il grado di sergente. Dopo la morte del La Hoz la resistenza di Ancona si protrasse ancora per un mese, ma, sopraggiunto intanto il maresciallo austriaco Froelich con truppe regolari e un robusto parco di artiglieria, il 13 novembre il Monnier si arrese con l’onore delle armi. Venne così meno per il momento l’ultima presenza francese nelle Marche. Tuttavia i francesi vi rientreranno da padroni nel 1808, in contemporanea con la nuova occupazione di Roma decisa dal Bonaparte, ormai Napoleone I. Nella circostanza molti dei capimassa e dei combattenti dell’Insorgenza del ’99 riprenderanno le armi. Primi fra tutti Giuseppe Cellini, De Donatis e Sciabolone. di : Francesco Mario Agnoli (Da “Le Insorgenze antigiacobine in Italia (1796-1815)”, Il Cerchio, Rimini, 2003).