domenica 13 novembre 2011

Le verità sulle vicende "Risorgimentali" nel Regno delle Due Sicilie(1860-1861):Il fallito tentativo Garibaldino del furto de "Il Monarco", lo spregevole comportamento del Generale Nunziante:Parte 13.

Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.




Il Monarca

Intanto Garibaldi non restava inoperoso. Avendo veduto che la truppa che si era ritirata sul continente non era stata vinta ma tradita, e che fremea di cancellare le patite onte, pensò ad ingrossare la sua armata con altri garibaldini esteri o del continente dell'alta Italia. Era per lui una necessità spingersi avanti, ma la forza che avea allora non era sufficiente per tentare il passaggio nelle Calabrie, temendo sempre d'incontrare qualche regio duce che facesse davvero. Si determinò avvalersi di nove mila volontarii che capitanava il medico Bertani in Toscana.
Egli non ignorava che costui volea scimiottarlo con buttarsi sullo Stato Pontificio, e quindi non avrebbe ceduto tanto facilmente que' volontarii. Si risolvette di recarsi in Toscana e persuadere il Bertani a cederli perché gli erano necessarii alla spedizione di Calabria.
Non è mio compito raccontare le commedie diplomatiche tra Torino e Napoli riguardo alla lega italica, nel disegno di precludere a Garibaldi il passaggio sul continente napolitano.
Lo scambio delle Note di que' tempi, non che i viaggi de' diplomatici tra le due Corti, erano, come ho detto, una vera commedia. E non dico questo per parte di Francesco II, il quale agiva lealmente, ma riguardo a Cavour che d'altro non si occupava che di usare qualunque mezzo per impadronirsi del Regno di Napoli. Basterebbe il solo diario di Persano per far conoscere di quali mezzi subdoli e disleali si servisse Cavour per rovinare il Re e il Regno di Napoli. Que' mezzi faceano arrossire e nauseare gli stessi liberali onesti e di buona fede. Intanto quel ministro piemontese salì in gran fama, non già nell'opinione degli uomini onesti, ma presso i rivoluzionarii, i quali si deificano tra loro per allucinare gli uomini di poca mente: o meglio, come disse non ha guari uno spiritoso pubblicista: «Son venuti in fama per effetto della nota società di mutua ammirazione.»
Garibaldi ricevette, o finse di ricevere una lettera del Re V. Emmanuele allora Re del Piemonte, in cui questi lo pregava di non portare la guerra sul continente napoletano.
In que' fortunosi tempi quella lettera si leggeva a piè di quasi tutti i ritratti del dittatore della Sicilia, che si metteano allora in mostra nella via Toledo.
In effetto, Garibaldi spacciò di aver ricevuto quella lettera, e che si recherebbe a Torino per rispondere a voce al Re. Però il vero scopo del suo viaggio era quello di recarsi a Castellammare di Napoli per impadronirsi di un vascello che trovavasi in armamento in quel Cantiere, e forse poi continuare il viaggio in Toscana, e pigliarsi i novemila volontarii comandati del Bersani.
Garibaldi lasciò all'ex prete Sirtori i suoi poteri dittatoriali, e gli ordinò di preparare la spedizione delle Calabrie. Il 12 agosto si imbarcò sul Tukery
già Veloce
con molti disertori napoletani appartenenti a questa fregata, e si diresse alla volta di Napoli. Arrivò nel golfo di questa città la notte del 13; egli vi era stato altra volta, il 4 dello stesso mese, e si vuole che avesse confabulato in Posilipo col generale Alessandro Nunziante.
Il vascello in armamento nel Cantiere di Castellammare era il Monarca,
e lo comandava allora il capitano di vascello signor Vacca. Questi un mese prima comandava la fregata l'Ettore Fieramosca.
Il Vacca la sera dell'otto giugno trovandosi nella rada di Palermo si recò dal vice ammiraglio piemontese, Persano, che trovavasi pure in quella rada, e trovò a bordo della Maria Adelaide
anche La Farina, e tutti e tre confabulavano a lungo. Vacca s'impegnò d'inalberare la bandiera piemontese sulla fregata che comandava: ma quest'offerta non ebbe allora effetto, perché Persano desiderava un pronunciamento generale della marina napoletana, anzichè piccole defezioni.
Or questo Vacca, comandante del Monarca,
il giorno 13 agosto avea dato ordine a' marinai si togliessero via le catene che assicuravano a terra il vascello, e si lasciassero solamente le gomene di canape.
Imarinai eseguirono l'ordine del Vacca, ma o fosse inavvertenza, o perché si era già tardi lasciarono una catena.
A notte avanzata il Tukery
entra nel porto di Castellammare, e sbarca a terra de' marinai che segassero le gomene, e salissero sul vascello. Vi era poca vigilanza, e tutto potea riuscir facile a Garibaldi attesa la complicità del Vacca. Però la catena di ferro, che si era tolta, e che assicurava a terra il vascello, impedì per questa volta un tentativo garibaldesco. Lo scricchiolare della catena destò la sentinella, la quale vedendo un nuovo legno a vapore senza fanali, gente estranea sul lido che segava le gomene, ed altra gente che saliva sul vascello, ruppe in un grido di allarme. Destati i marinai diedero di piglio alle armi, accorsero soldati di terra e si attacca una zuffa sul lido ed un'altra sul vascello. Alcuni soldati corrono al fortino, detto Pozzano, caricano i cannoni e tirano cannonate alla cieca. Il Tukery
fugge riparato d'altri legni del porto, e protetto dal buio della notte, prende il largo, e non è colpito d'alcun proiettile.
Fu catturata una barchetta appartenente al Tukery,
ed un'altra se ne trovò affondata vicino Vico Equense.
Sul vascello furono feriti due marinai, e uno fu ucciso. Fu ferito lievemente il Capitano in secondo Acton: forse costui si trovò accidentalmente nella zuffa, stantechè dopo poco tempo disertò al nemico dal quale ebbe premi.
IITukery ebbe varii feriti nell'attacco del Vascello.
Vacca, dopo il tentativo di Garibaldi, fuggì e riparò sopra una nave inglese. Egli il giorno 12 agosto avea confabulato col Persano, ed avea assicurato costui che tutto era preparato per agevolare la impresa di Garibaldi: e si era pure offerto di recarsi a bordo del Vascello per farlo rapire con più facilità.
L'insuccesso di Garibaldi si mutò in trionfo pe' liberali di Napoli e per la stampa rivoluzionaria; si dissero e si stamparono cose mirabili sul tentativo di Garibaldi; tutto era grande, tutto era magnifico anche gli insuccessi
di costui.
La gente onesta e pacifica di Napoli si commosse all'udire il tentativo di Castellammare, e cominciò ad emigrare, dappoichè si dicea che Garibaldi sarebbe entrato in Napoli per sorpresa come entrò in Palermo.
Il Dittatore, dopo il fallito tentativo di rapire il vascello, tirò diritto in Toscana per pigliarsi i nove mila volontari comandati da Bertani.
Immediatamente dopo il fatto di Castellammare si riunì molta truppa nei dintorni di Napoli. La brigata Bosco, della quale io facea parte, da Caserta fu traslocata a Napoli e destinata a' Granili: e si attivò la difesa litorale del golfo.
Il Re, che facea sempre bene quando agiva senza consiglieri liberali, rimunerò Bosco dei servizii prestati in Sicilia, particolarmente a Milazzo, lo fece Generale di brigata. Questa promozione fu accolta con piacere dalla truppa, dappoichè quel Generale era popolarissimo, nell'esercito, e giudicato prode e fedele al Re.
Mentre la brigata Bosco si trovava a' Granili, il Re venne e visitarla, e si fece avvicinare e parlare da tutti quelli che lo desideravano.
Lodò molti soldati sottuffiziali ed uffiziali, e diede gradi, decorazioni e soccorsi di danaro. fece a preferenza Aiutante Maggiore del 9° Cacciatori il Capitano del Giudice, il quale si era bene distinto in tutti i fatti d'armi di Sicilia, e gli regalò un magnifico cavallo delle scuderie reali.
Tra gli altri lodò la bravura del 1° Sergente Gennaro Ventimiglia, il quale si era sempre distinto, ed era stato il primo ad avventarsi contro i cannoni di Orsini in Corleone. Quel Sergente avea un gusto matto di assaltare i cannoni de' nemici mentre questi tiravano a palla o mitraglia: nel tempo della campagna del 1860 soddisfaceva a maraviglia quel suo gusto soldatesco ed io non so come sia rimasto in vita.
Il Sergente Ventimiglia, di bello aspetto, era religiosissimo, e quindi di buona morale: mi aiutava molto ad istruire le reclute nel Catechismo, e da' soldati era chiamato «il Sotto Cappellano».
È qui necessario ch'io faccia una breve digressione per rintuzzare tutti coloro che vogliono far credere che il Cristianesimo, e principalmente la nostra santissima religione Cattolica infiacchisse gli animi, e quindi riducesse il soldato Cattolico senza slancio, senza coraggio e senza brio militare. I nemici del Cattolicismo quando vogliono calunniare o mostrare difettosa questa divina istituzione, non possono far di meno che mettersi in contraddizione con la storia, con la logica e col senso comune. Io potrei qui citare innumerevoli esempi in contrario, cominciando dalla Legione tebana sino ai Zuavi pontificii; mi limito solamente a dire, che sentiva somma consolazione nell'osservare, che i soldati i quali si batteano con gran coraggio ed abnegazione erano quelli stessi che non bestemmiavano, che tenevano una buonissima condotta, e che frequentavano i Sacramenti. Io ammetto delle eccezioni, ed ammetto pure che tanti duci in Capo e subalterni scostumati o atei si sieno battuti valorosamente: ma il principio movente di costoro è diverso di quello del soldato; essi sacrificano la loro vita per la rinomanza e per la gloria mondana, sperando di far passare i loro nomi alla posterità, dopo di essere stati glorificati da' contemporanei. Al contrario, il povero soldato cade sul campo di battaglia non curato, non visto; e spesso i suoi stessi compagni ignorano le sue bravure, e il suo sacrifizio fatto a quel principio per cui combatte. Il vero soldato, generalmente si batte, e si fa uccidere pel dovere; e non esiste dovere senza Dio, e senza una santissima religione rivelata dallo stesso Dio.
Bosco avea raccontato al Re quello che mi era accaduto in Milazzo. Quel buono e clemente Sovrano ebbe la degnazione di farmi chiamare a sè, e con benevola e simpatica maniera m'invitò a raccontargli quei fatti. Io, per non tenerlo impedito, cercavo disbrigarmi in poche parole, ed Egli all'opposto m'invitava a dire tutte le particolarità che io volea omettere. Più volte si fece serio al mio racconto, e spesso gli venne il riso sulle labbra.
Fu quella la prima volta che io ebbi l'onore di parlare al mio Sovrano a lungo, e direi quasi confidenzialmente. Da quel giorno mi rimase una grande devozione a quell'ottimo e sventurato Principe, devozione che finirà con la mia vita: e dovunque Egli si trovi, o nella felice, o nell'avversa fortuna io farò sempre voti pel suo benessere e per la sua felicità.
Io, che mai in vita mia avea avuto il bene di accostare i Borboni, e da' quali né io nulla mai ho ricevuto, né pure i miei parenti ed antenati, che anzi io avea ricevuti de' torti dalla polizia Borbonica; non di meno per essere stato accolto una sola volta benignamente da Francesco II, sarò sempre ligato a questo cavalleresco e nobile Sovrano d'imperitura devozione. Non sò quindi capire come tanti uomini di troppa modesta origine, che furono da' Borboni innalzati alla prime cariche del Regno, onorati, arricchiti, e fatti amici e confidenti del Sovrano: come tanti nobili che videro nascere Francesco II, che li crebbe sopra i ginocchi e che in Corte erano i prediletti, abbiano potuto dimenticare in un giorno i ricevuti onori, i benefizii, l'affetto, l'amicizia, e tradire vilmente la dinastia.
Negli ultimi mesi del Regno di Francesco II si videro diserzioni di uomini che un anno prima sarebbe stata una follia sospettarle.
Ho promesso di non ragionare della vita privata di alcuno, essendo questo il dovere d'ogni storico qualunque siasi, ma ho pure promesso di ragionare schietto e franco della vita pubblica di tutti coloro che ebbero parte nella catastrofe della dinastia e del Regno. Mi duole è vero, nominar le loro magagne e la loro slealtà: fossero duchi, principi, altezze reali, io non potrei occultare la verità; dappoichè è necessario che ognuno sappia le cagioni della caduta di un trono secolare, e di una delle prime dinastie del mondo.
Tristo compito è quello di scrivere gli avvenimenti contemporanei, però se non si scrivessero per umani riguardi mancherebbero a' posteri gli elementi di scrivere la storia de' nostri tempi.
Del resto, coloro de' quali ragionerò si fecero vanto de' loro tradimenti quando credevano averne profitto. Oggi però, o perché negletti o perché disprezzati, vorrebbero stendere un velo sul passato, ed imporre il silenzio a coloro che osassero svelare la verità a' presenti ed a' posteri. Costoro prima di fare il male doveano riflettere che la loro condotta sleale sarebbe stata giudicata dall'imparziale e severissimo tribunale della vera storia; giacchè fecero il male, ricevano ora rassegnati il guiderdone a loro dovuto.
E necessario al bene sociale, e per sicurezza di tutti i governi, che si mettano alla gogna tutti i traditori e specialmente quelle de' re. Ciò serve di salutare esempio a'117
presenti e a' posteri perch'eglino si astengano di tradire i Sovrani da' quali han ricevuto onori e ricchezze, e perché siano leali a' governi costituiti da' quali ritraggono vita e potere.
La famiglia Nunziante poco conosciuta sino alla fine del secolo passato comparve gloriosa la prima volta su' campi delle patrie battaglie combattute contro la così detta repubblica Partenopea del 1798, che altro non era che una schiava della Francia, e contro i Napoleonidi del primo impero.
Vito Nunziante, nato nella città di Campagna del Principato Citeriore, da onesti ed agiati genitori, ancora giovanetto, nel 1798 si ascrisse alla regia milizia del Reggimento detto Lucania; dopo due anni meritò il grado di alfiere. Vito si distinse sempre per l'attaccamento alla causa de' Borboni, e per la sua bravura in molti fatti d'arme: in poco tempo raggiunse il grado di generale meritamente datogli da Ferdinando IV, divenne poi Tenente Generale, e Quartier Mastro generale.
Vito è lo stipite della nuova famiglia aristocratica de' Nunziante: e questa famiglia può alzare altiera la fronte in faccia all'antica nobiltà del Regno, perché vanta la vera nobiltà del merito pe' servizi resi alla patria napoletana e alla dinastia de' Borboni, mentre non tutte le famiglie aristocratiche potrebbero vantare simili o altri servizi.
Il generale Vito Nunziante, nell'ottobre 1815, ebbe da Ferdinando I la trista missione di far giudicare e fucilare al Pizzo l'infelice e cavalleresco Gioacchino Murat, al quale si applicarono le stesse leggi che costui avea fatte contro gl'invasori del Regno. Vito adempì tanto bene quella difficile missione, che lo stesso storico arrabbiato Murattiano Pietro Colletta, nulla trovò a dire contro Vito Nunziante, anzi sembra lodarlo.
Ferdinando Nunziante figlio di Vito, anche generale, uomo probo e fedele a Borboni, rese a questi e alla patria segnalati servizi nella rivoluzione delle Calabrie del 1848.
La famiglia Nunziante amata e beneficata meritamente de' Borboni, brillò in Corte, ed ebbe onori e poteri. La maggior parte degli individui di questa famiglia, chi più chi meno fecero il loro dovere nel 1860 e 1861. Un solo nonpertanto, nelle cui vene il sangue di Vito Nunziante si era corrotto ed ammorbato all'alito di qualche funesta passione, fece di tutto per contaminare il suo già illustre nome che porta, ma contaminò solamente sè stesso.
Il generale Alessandro Nunziante figlio di Vito, poi duca di Mignano, fece la parte d'Iscariota nel gran regicidio politico di Napoli; non son'io che lo dico, leggete il Diario dell'ammiraglio piemontese Conte Persano, ed ivi troverete fatti da farvi rabbrividire, perpetrati dal duca di Mignano a danno del Re e del disgraziato Regno di Napoli, dopo la proclamata Costituzione del 25 giugno 1860; basta leggere le stesse lettere del Nunziante, dirette al pregevole Conte.
Ed io sono costretto a raccontare in parte quei fatti nel corso di queste memorie.
Persano, forse, ha creduto rendere un gran servizio al suo amico generale Nunziante, dipingendolo un gran patriota italiano, un instancabile cospiratore contro i Borboni: ma non pensò qual posto avea costui occupato nella Corte di Napoli, e quanto era stato beneficato da' Borboni stessi contro i quali cospirava rabbiosamente: e quindi invece di esaltarlo lo ricoperse di fango.
Alessandro Nunziante, sotto il Regno di Ferdinando II raggiunse l'apogeo degli onori e della potenza. Chi volea favori, avendo amico il Nunziante tutto potea osare ed ottenere. Era costui l'amico, il confidente di Ferdinando II, era capo di quella gente di Corte che facea odiare quel Sovrano; si attribuiva a lui tutto quel male che i rivoluzionari addebitavano al Re. Si disse allora, e lo ripete il chiarissimo storico de Sivo, che Ferdinando II volea far grazia della vita ad Agesilao Milano, ed Alessandro Nunziante lo persuase a mandarlo al supplizio.
Quest'uomo o perché guadagnato dalla setta o perché vide la monarchia vacillante, con la maschera del patriottismo - che tanto avea perseguitato - cominciò a congiurare contro i suoi benefattori, i Borboni. Di fatti si legò in grande amicizia col ministro inglese a Napoli, Elliot, col ministro Sardo Salmour, e poi con Villamarina gente che la veste diplomatica cospirava contro la monarchia delle Due Sicilie.
Alessandro Nunziante il dì 8 giugno era stato nominato duce supremo di un corpo di esercito di 24 mila uomini: Re Francesco nulla gli negava, poichè nessuno può mettere in dubbio essere il Nunziante un mediocre Generale, ed un buon organizzatore di truppa. Avea costui meditato un disegno di attacco per riprendere Palermo dalle mani del filibustiere -
così anch'egli chiamava Garibaldi - con due sbarchi contemporanei in quell'Isola. Però proclamata la Costituzione cambiò pubblicamente livrea. Cominciò a credersi offeso dal Re: ed egli che avea goduto de' pingui soldi in tempo di pace, il 2 Luglio chiese la dimissione sotto pretesto che fosse odiato dal partito pre borbonico, e dagli annessionisti. Bel pretesto per un Generale in tempi di guerra! Il 17 dello stesso mese ebbe il ritiro con la paga di Generale, ed il permesso di andarsene all'estero. Ma non partì perché Persano e Cavour ne aveano bisogno in Napoli per far disertare in massa i Battaglioni Cacciatori su' quali si supponea che avesse molta influenza. In seguito fu chiamato a Torino da Cavour, che di già erano corse importanti intelligenze tra questi due personaggi. Giunto a Torino scrisse una lettera al Presidente de' ministri di Napoli; nelle quale dice: «Non poter egli portare sul suo petto decorazioni di un governo che confonde uomini onesti, retti, e leali, con chi merita disprezzo; però restituiva i diplomi degli ordini conferiti. »
Il Persano, che sapea essere stata scritta questa lettera sotto la dettatura di Cavour, per dare una lanciata non già al Ministero di Napoli, ma al Re Francesco, la chiama nobilissima lettera, egli soldato di un altro re! Ma Nunziante invece di restituire quegli inutili diplomi al Re di Napoli, avrebbe dovuto restituire tutto quello che avea ricevuto dai Borboni, se veramente fosse stato uomo onesto, retto e leale!...
Nunziante, uomo onesto, retto, e leale,
fu mandato a Napoli da Cavour sulla fregata piemontese la Maria Adelaide
con una lettera diretta al Persano, nella quale il Cavour dicea: «La presente le sarà consegnata dal generale Nunziante, lo faccia scendere a terra quando e come desidera, ed agisca secondo le istruzioni che le mando col telegrafo.»
Le prime istruzioni che mandò Cavour col telegrafo a Persano sono brevi e compendiate, eccole: «Approvo. Nunziante stasera parte per Genova, faccio conto su di lui, e ancorpiù, su di lei.»
Cavour avea ragione di contare più sopra Persano che sopra Nunziante; poichè temea forse un congiuratore contro una dinastia dalla quale tutto avea ricevuto, non avesse nessunissima difficoltà di tradir lui che nulla gli avea dato, e conoscealo da poco tempo.
Alessandro Nunziante, soldato onesto, retto e leale;
appena gli fu ordinato da Cavour, mandò un tenero addio in istampa ai Battaglioni Cacciatori e alla guardia mobile Napoletana. Ecco l'addio: «Vi lascio, dicea, per santo pegno dell'amor mio l'esortazione di mostrarvi degni della gloriosa patria italiana: valorosi verso i nemici d'Italia, e generosi nella nuova via di gloria destinata dalla Provvidenza a tutti i figli della gran patria comune.»
In fede mia, coteste belle fasi di patria italiana,
di patria comune,
in bocca di Alessandro Nunziante, istigatore della fucilazione di Agesilao Milano, consigliere di persecuzioni contro i liberali, quello stesso che chiamava filibustiere
colui che combattea per la gran patria comune,
sembrano una stomachevole caricatura, un vero controsenso. Tant'è, erano questi gli uomini di cui si serviva la rivoluzione per fare la gran patria comune!
Alessandro Nunziante è uno di que' cinque esseri fatali, (quasi cinque piaghe), che prima afflissero ed ammorbarono il Reame di Napoli, e poi nel 1860 fecero di tutto per farlo cadere disonoratamente.
La moglie di Alessandro Nunziante, nata dalla più distinta aristocrazia napoletana, tanto bene accolta ed onorata in Corte, volle pure spezzare una lancia contro i Borboni.
Scrisse al Re Francesco una letterina, dicendogli: «Il posto di dama di Corte non mi appartiene,
le restituisco il brevetto,» (Forse perché si rammentò di essere stato condannato un suo parente in Inghilterra?) Chi l'avrebbe mai detto un anno prima, quando cotesti signori e signore strisciavano in Corte, e faceano tremare il Regno sotto l'egida dei Borboni? E pure, quella letterina della nobile signora manifesta una gran verità; non la pubblico perché con le donne principalmente, è bella la generosità; del resto, le donne non hanno alcune importanza politica, esse sono quasi sempre le vittime de' mariti.
Vito e Riccardo Nunziante, figli del generale Ferdinando, nelle cui vene scorre immacolato il sangue del prode e fedele avolo Vito; nel 1860, benchè allora giovanetti, ben facile ad essere sedotti dalle idee speciose ed allucinanti che predicava la rivoluzione, e dall'esempio dello zio Alessandro, pur tuttavia si contennero da veri e leali gentiluomini verso la dinastia, confermando su' campi di battaglia la tradizionale bravura e fedeltà del nome illustre che portano.
Il Tenente Colonnello Antonio Nunziante, fratello di Alessandro, non ismentì il nome che porta: fu Comandante dell'8° Cacciatori, e fece sempre il suo dovere in tutta la campagna del continente Napoletano. In Gaeta fu sottomesso ad un Consiglio di guerra, dal quale risultò innocente. La causa di quel Consiglio di guerra fu una lettera di un suo collega disertore, il Tenente Colonnello Pianelli, il quale lo invitava a disertare come lui al nemico col battaglione che allora comandava, come dirò appresso ragionando dei fatti di Gaeta.
Mi duole non poter dire lo stesso dell'altro fratello di Alessandro, Francesco Nunziante, comandante il Reggimento Marina, anzi costui merita ogni biasimo, perché avrebbe dovuto condurre a Capua quel Reggimento, e secondare il desiderio de' soldati suoi dipendenti, come dirò tra non guari.

(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).