Modena, 5 ottobre 1658 - Francia, 7 maggio 1718
Maria Beatrice d'Este, moglie del re Giacomo II d'Inghilterra, ultimo re cattolico, cacciato dopo la rivoluzione protestante del 1688. La regina visse tutta la sua vita con animo purissimo e fermo nella difesa della Fede Cattolica: visse con grande dignità l'esilio in Francia dove morì nel 1718, subendo post mortem l'oltraggio della profanazione del corpo durante la rivoluzione francese. Maria Beatrice rifiutò di tornare sul trono quando domandarono a lei e a suo figlio, il pretendente cattolico Giacomo Stuart, di abiurare il Cattolicesimo: lei rispose che la Verità non è barattabile con un trono. Quando morì le damigelle trovarono nel suo corpo un cilicio, segno di penitenza e umiltà.
L’epoca in cui il divario e la contrapposizione tra l’Europa cattolica e quella protestante si cristallizzarono e che segnò la crisi definitiva dello stato di tipo rinascimentale, tanto che il sostantivo rivoluzione divenne patrimonio del linguaggio politico, vide anche una modenese, appartenente alla casa D’Este, tra i suoi protagonisti.
Oggi scarsamente ricordata nella città, che le aveva dato i natali, nel 1658, Maria Beatrice D’Este, figlia del duca Alfonso IV, fu regina d’Inghilterra, assieme al consorte Giacomo II Stuart, proprio in quel periodo storico in cui andava affermandosi il modello dello stato rappresentativo, a scapito della monarchia assoluta di diritto divino. Cresciuta ed educata nella piccola ma raffinata corte modenese, Maria Beatrice assimilò l’amore per la cultura di ascendenza umanistica, ma anche il rigorismo cattolico che furono tra i caratteri distintivi della madre, Laura Martinozzi, e che le ispirarono, nel corso della sua lunga reggenza, una politica di austerità e misura, onde ovviare al dissesto economico ed arrestare il degrado morale del piccolo stato.
Poco più che bambina, Maria Beatrice aveva espresso la volontà di seguire la sua sincera vocazione religiosa e di prendere i voti, per potere essere ammessa al Convento della Visitazione, edificato per volontà materna nei giardini del palazzo ducale, quando, appena quattordicenne, venne proiettata nello scenario internazionale, attraverso quel peculiare aspetto della politica seicentesca, rappresentato dalle alleanze matrimoniali, che obbedivano sempre a criteri di opportunità diplomatica, e che sottendevano logiche di prestigio. In quel lontano 1673, Giacomo Stuart, Duca di York, destinato a succedere al fratello Carlo II, sul trono d’Inghilterra, aveva investito, uno tra i suoi più fidati cortigiani, il conte di Peterborough, della carica di ambasciatore straordinario allo scopo di trovargli una moglie, che per natali, bellezza ed educazione fosse adeguata a divenire regina. Giunto a Parigi, il diplomatico inglese venne a sapere dell’esistenza di Maria Beatrice, da un suo ritratto che aveva ammirato nella dimora della zia materna ed ottenuto il consenso da parte del Duca di York si diresse verso la capitale dello stato estense.
Intanto anche il sovrano francese, Luigi XIV, inviò un suo funzionario a Modena, in appoggio alla delicata missione dell’ambasciatore inglese, dal momento che il matrimonio del futuro re con una nobildonna, appartenente ad una famiglia vincolata da una storica alleanza con la Francia, favoriva il suo disegno politico volto alla realizzazione e al consolidamento di una egemonia continentale, che si imponesse quale modello per tutte le monarchie assolute. Sottoposta a siffatte pressioni, Maria Beatrice resisteva eroicamente e si appellava alla madre, confidando nel suo aiuto: senza dubbio ella era animata da una autentica vocazione religiosa, e poco allettata dalla prospettiva di sposare un uomo, che per età poteva esserle padre e che avrebbe dovuto raggiungere in un paese, assai distante dalla sua terra natale e dalla sua famiglia. Tuttavia, vi fu una sollecitazione alla quale la giovane duchessa non osò opporre un rifiuto, quella che le fu rivolta dal pontefice, Clemente X, che le indirizzò un breve, nel quale la esortava ad accettare la proposta di matrimonio dello Stuart, essendo una coppia di sovrani cattolici, uno strumento ideale per contrastare la religione riformata, all’epoca trionfante in Inghilterra. Lusingata ed al contempo intimorita dalla rilevanza del compito cui veniva destinata, Maria Beatrice non poté che acconsentire alle nozze, celebrate per procura il 30 Settembre 1673 e seguite da un solenne Te Deum, nonché da un principesco banchetto nuziale.
Il successivo 5 Ottobre, compiuti i quindici anni, con un seguito di 60 persone, di cui faceva parte anche la madre reggente, si mosse alla volta della sua nuova patria. Si rese necessaria una sosta prolungata a Parigi, dove fu ospite alla corte del Re Sole, poiché il parlamento inglese stentava a concederle il permesso d’entrata, in ragione del suo essere cattolica, circostanza che la rendeva poco gradita, se non addirittura invisa. Dopo estenuanti e accesi dibattiti, infine, la riserva venne sciolta e la duchessa di York poté approdare a Dover nel Dicembre di quel medesimo anno, per conoscere il marito. Il primo incontro tra i due coniugi non avvenne sotto i migliori auspici e parve confermare coloro che avevano espresso dubbi circa l’opportunità dell’unione: se Giacomo rimase colpito dalla grazia adolescenziale e dall’eleganza innata di Maria Beatrice, l’impressione positiva non poté dirsi reciproca, per lei che, giovanissima si ritrovò sposata ad un uomo assai poco avvenente e per nulla brillante, oltre che di ben venticinque anni più vecchio. Dopo essere stati ammessi e presentati a corte, dove un banchetto venne offerto in loro onore, i duchi di York presero alloggio nel palazzo di St. James, che, edificato per volere di Enrico VIII, all’interno del parco omonimo, era già stato residenza di reali, ma che rispetto al livello qualitativo consueto nell’architettura italiana della seconda metà del Seicento risultava austero e spoglio.
Pertanto, la duchessa si circondò di pittori, scultori e arredatori allo scopo ingentilire la nuova dimora, operazione nella quale dimostrava di possedere un’attenzione per l’estetica, tutta italiana, che la qualificava quale degna discendente della casa d’Este, che aveva dato i natali a molti e celebrati mecenati e cultori delle arti. Seguendo la consuetudine dell’epoca per quanto concerneva i dibattiti intellettuali, Maria Beatrice a palazzo St. James animò un salotto letterario, in cui persone legate da affinità sociali e culturali si incontravano sistematicamente per discutere di poesia, filosofia ed arte, finendo per dar vita ad una sorta di circolo informale, che favoriva le circolazione delle idee e degli orientamenti più innovativi del pensiero. Intelligente e colta, dolce e al contempo volitiva, la duchessa di York si adoperò in ogni modo per guadagnarsi la benevolenza della nuova famiglia, facendo ricorso alle proprie capacità di ambientazione: si adattò rapidamente alle abitudini di palazzo, imparò un inglese impeccabile, si mostrò sempre allegra e compiacente, discreta ed affettuosa anche con coloro che erano prevenuti nei suoi confronti. Riuscì a stabilire un’ottima intesa col sovrano Carlo II e tentò con minore successo di entrare nelle grazie di sua moglie Caterina di Braganza e delle figlie di primo letto di Giacomo, Maria e Anna, per le quali ebbe sempre la tenerezza e le attenzioni di una madre. Anche il rapporto con il marito andava migliorando, l’affetto che questi le dimostrava l’avevano col tempo aiutata a superare la repulsione iniziale ed in lui aveva scoperto ed imparato ad apprezzare qualità quali la tenacia, il coraggio e l’abnegazione assoluta nel perseguire la realizzazione dei propri ideali. Nel Gennaio 1675 nacque la prima figlia dei duchi di York, Caterina Laura, battezzata secondo il rito cattolico e il giorno seguente secondo quello anglicano, purtroppo solo dieci mesi più tardi la piccola moriva, assalita da improvvise e violente convulsioni.
La medesima sciagurata sorte accomunò quasi tutti i figli generati dalla coppia: nel corso del suo matrimonio con Giacomo, Maria Beatrice si sottopose a ben dieci gravidanze, allo scopo di dare alla luce un figlio maschio, che incarnasse i diritti della dinastia e la promessa di continuità. Due soli figli raggiunsero l’età adulta ed è significativo, che fossero stati allevati lontano dalla corte inglese, circostanza che avvalora il sospetto, più volte espresso, soprattutto nell’ambiente dei diplomatici stranieri residenti a Londra, che fossero stati avvelenati da coloro che non gradivano il consolidamento della discendenza stuarda. In seguito alla scomparsa dei figli Maria Beatrice e Giacomo furono assaliti da profondi periodi di scoramento, e non ebbero remore nel mostrarsi in pubblico addolorati e sofferenti, in un’epoca in cui il decoro e l’etichetta, unitamente all’elevata mortalità infantile, imponevano agli esponenti delle classi dirigenti ed in particolare a quelli di stirpe reale di vincersi e di non mostrarsi affranti, in nessun caso. Frattanto si andava profilando una grave crisi politica, quando, abilmente orchestrate da ambienti filo-costituzionali, si diffusero voci, circa una congiura regicida, ordita dai gesuiti, ai danni di Carlo II.
Se la reazione del sovrano fu improntata alla totale indifferenza, ritenendo egli la veridicità della notizia del tutto infondata, diversa fu la condotta del suo consiglio privato, che inaugurò una triste stagione, compresa tra il 1678 e il 1681, che fu contraddistinta da provvedimenti vessatori, incarcerazioni ed esecuzioni capitali ai danni degli esponenti del cattolicesimo inglese. Il parlamento approvò la legge di esclusione, che obbligava i cittadini titolari di un ufficio pubblico o militare a professare la fede anglicana ed un editto reale vietava l’ingresso dei cattolici a corte. La violenza era dilagante: vi furono 35 condanne a morte e più di 2000 detenzioni. Gli stessi duchi di York, bersagli ideali della propaganda negativa, nella quale si mescolavano confusamente la difesa delle tradizionali libertà anglicane, il timore dell’assolutismo, il sospetto nei confronti dei Francesi ed il disprezzo per gli Irlandesi, vennero costretti dal re ad abbandonare il paese e per tutelare la loro incolumità e la loro libertà, furono esuli prima a Bruxelles, poi ad Edimburgo. In particolare, la posizione di Giacomo, destinato a succedere al fratello, appariva compromessa: fin dal 1676, rifiutandosi di assistere alle funzioni del Venerdì Santo nella cappella di corte, egli aveva ufficializzato la propria abiura alla religione di stato e da quel momento con estrema coerenza, ma poca avvedutezza politica, aveva fatto a più riprese professione di fede cattolica.
Il rischio più grave, consisteva in un’estensione del principio accolto dalla legge di esclusione, che in teoria poteva essere applicata anche al duca di York e alla sua discendenza, precludendo loro il trono, poiché non anglicani. Tuttavia, il parlamento equamente diviso tra Winghs, sostenitori della libertà parlamentare e Tories, filomonarchici, non votò mai un provvedimento di proscrizione nei confronti del fratello del legittimo sovrano. In modo tale che quando nel febbraio del 1685 Carlo II morì, Giacomo e Maria Beatrice divennero re e regina d’Inghilterra. La cerimonia d’incoronazione, avvenuta nella chiesa collegiale di St. Peter fu sontuosa: i sovrani percorsero in nave un breve tratto del Tamigi tra musiche e giochi d’acqua e Maria Beatrice, la cui elegante e snella figura era fasciata da un abito tempestato di gemme e da un mantello di porpora ed ermellino, spiccava per bellezza e raffinatezza; in quella occasione, il re e la regina si astennero dai sacramenti di rito anglicano, ma i sudditi li accolsero ugualmente con manifestazioni di deferenza e di giubilo. Nessuno realisticamente poteva ritenere che Giacomo II e la consorte si sarebbero allontanati dalla loro confessione religiosa, ma l’attaccamento e il rispetto, in particolare dei ceti più umili, nei confronti della stirpe stuarda rimanevano integri. Il dovere di lealtà, obbedienza e assistenza nei confronti del sovrano, fu alla base del rapporto monarchia-nazione per tutta l’età moderna: il concetto di fedeltà esprimeva in maniera comprensibile alla maggior parte della popolazione, l’esigenza della coesione, della autorità e della disciplina, e, più in generale, l’idea della collettività statale e degli obblighi connessi con la sua esistenza e il suo riconoscimento. Dal punto di vista storico, politico e culturale quell’esigenza e quell’idea furono concretamente impersonate nella figura del sovrano, circostanza tragicamente sottovalutata da Giacomo II, che nel momento in cui il suo trono veniva insidiato non seppe appellarsi all’alto valore etico connaturato alla fedeltà popolare. Il regno dei nuovi monarchi iniziò, sotto i peggiori auspici, inaugurato dal tentativo di sollevazione guidato dal duca di Monmouth, figlio naturale di Carlo II; ma se la sedizione fu soffocata con relativa facilità dalle truppe regolari, ciò che contribuì a distruggere il limitato consenso di cui Giacomo II godeva, furono la sua mancanza di tatto e sensibilità diplomatica: egli aveva carattere, ma mancava di duttilità e sottigliezza, profondamente incapace di una visione d’insieme, adottò una politica, contraddistinta da una pericolosa commistione di intransigenza ed ingenuità. Se egli sottovalutò costantemente il potenziale pericolo rappresentato dalle due figlie di primo letto, Maria e Anna, ferventi protestanti, d’altro canto non esitò mettere in pratica una palese politica filo-cattolica, disattendendo quanto gli suggeriva Maria Beatrice, che lo esortava a non ostentare il suo credo religioso. Egli aumentò notevolmente il numero e l’importanza dei cattolici, presenti a corte, quattro dei quali entrarono nel consiglio della corona, inoltre favorì l’apertura di seminari e la costruzione di chiese ed incoraggiò i sacerdoti inglesi, esuli nel continente, a fare ritorno in patria. All’epoca dell’insediamento di Giacomo e Maria Beatrice erano oramai trascorsi quattro anni, dall’ultima volta in cui parlamento si era riunito, il nuovo monarca, dopo aver convocato secondo la prassi le camere e averle sciolte al primo conflitto, cercò, come in precedenza aveva fatto il fratello, di esercitare un governo personale. Forte delle proprie prerogative, Giacomo II tentò di fare abolire il Test Act di professione anticattolica e chiese una sospensione dell’Habeas Corpus, avendo opposto il parlamento un netto rifiuto, ricorse alla dichiarazione d’indulgenza, che concedeva libertà di culto e accordava protezione alle confessioni religiose minoritarie. Quando il sovrano ordinò che il testo della dichiarazione d’indulgenza fosse letto in tutte le chiese del regno, sette vescovi anglicani si rifiutarono di obbedire e sfidando l’autorità regia, proposero di essere trattati come criminali. Nonostante il parere contrario dei più fidati consiglieri e soprattutto della moglie, il re li prese in parola e stabilì che fossero rinchiusi nella torre di Londra: l’immagine dell’Arcivescovo di Canterbury che assieme a sei confratelli veniva condotto nella famigerata prigione fu micidiale per l’immagine della corona. Dopo essere stata incoronata, Maria Beatrice si era augurata di potere finalmente contribuire alla realizzazione della missione, che aveva iniziato quando quindicenne e armata della sua sola fede aveva accettato di divenire regina di un paese protestante: se oramai era evidente come fosse impensabile riportare l’Inghilterra al cattolicesimo, si potevano almeno limitare le discriminazioni e le vessazioni cui erano sottoposti i fedeli a Roma. Fortemente danneggiata dalla politica intransigente e poco accorta inaugurata dal consorte, ella assai raramente divenne quello strumento di mediazione per il quale non le sarebbero mancate le qualità, e per mitigare l’amarezza delle sue ripetute delusioni anelò al conforto che le offriva la cultura, coltivando il gusto per l’arte e l’amore per il teatro, la pratica del mecenatismo e la curiosità intellettuale. Maria Beatrice divenne il fulcro della vita di corte, dettando legge in materia di stile ed eleganza, ma restando, al contempo, devota e inaccessibile, ligia nell’attenersi alla ritualità delle sue funzioni di sovrana e consapevole del significato simbolico di ogni suo gesto. Purtroppo il suo più grande momento di gioia privata, andò ad innescare una serie di conseguenze, che provocarono la perdita della corona: nel 1688 nasceva il figlio, Giacomo Francesco Edoardo, che era l’erede tanto atteso, l’unico che sopravviverà alla madre e che ella scoprì di amare al di sopra di ogni cosa in un’epoca e in un ambiente in cui il sentimento materno era ancora difficilmente disgiungibile dagli interessi di lignaggio. Per Maria Beatrice che aveva intenzione di porre la maternità al centro della sua regalità, rendendola l’origine della sua carità, del suo sentimento di protezione e della sua ricerca d’ordine, fu incredibilmente umiliante venire a conoscenza che nel paese circolavano pubblicazioni oscene nelle quali si metteva in dubbio la paternità del figlio o la stessa veridicità della gravidanza, sostenendo una delle voci più infamanti, che il piccolo, nascosto in uno scaldaletto, fosse stato introdotto nel camera della regina da un gesuita. Dapprima solo la pubblicistica scandalistica clandestina, poi i giornali d’opinione, infine lo stesso parlamento misero in dubbio la legittimità del figlio, facendosi portatori di un messaggio di grande violenza, che ledendo la credibilità e l’intangibilità delle figure dei sovrani, minava i fondamenti stessi dell’autorità del loro potere. Di fronte al pericolo insito nel perpetuarsi di una dinastia cattolica e assolutistica, le divergenze tra le fazioni parlamentari si appianarono, ed anche coloro che erano contrari, in linea di principio, a turbare l’ordine tradizionale della successione, con un intervento lesivo delle prerogative regie, mutarono la loro posizione e rivolsero un appello a Guglielmo d’Orange, poiché si recasse in Inghilterra, onde verificare le circostanze della nascita del principe di Galles e lo stato delle libertà civili e religiose. L’invito non giungeva inatteso: Stadthouder d’Olanda e marito di Maria Stuart, figlia maggiore di Giacomo, Guglielmo, che in precedenza era ricorso ad ogni mezzo per accreditarsi quale campione del protestantesimo, aveva già apprestato una flotta di 15.000 uomini, coi quali si accingeva a sbarcare sulle coste inglesi. Oramai il disegno politico dell’Orange era evidente: solo il sovrano si ostinava a non voler prendere in seria considerazione l’ipotesi di tradimento da parte della figlia e del genero e, perdurando nel suo atteggiamento quasi infantile di fiducia incondizionata, si rifiutava di organizzare una difesa adeguata alla minaccia, che si profilava all’orizzonte. Nel Novembre del 1688 le truppe olandesi sbarcarono nel Devonshire; mentre il re, a capo dell’esercito inglese, muoveva contro il nemico, per contenere l’invasione, la regina divenne reggente in luogo del marito. Fu tipico dell’età moderna, quando il potere e la responsabilità di governo venivano esercitati dalle donne, che la loro autorità fosse provvisoria e soggetta a contestazioni e la loro affermazione fosse imputabile alla mancanza o alla lontananza degli esponenti maschili del casato; del medesimo segno fu il caso di Maria Beatrice, cui, tuttavia, bastò la breve esperienza di reggenza, per dare prova di possedere acume psicologico, lungimiranza politica e arte diplomatica. Intanto le sorti del confitto volgevano al peggio e tra le fila dell’esercito regolare le defezioni furono così numerose, da convincere Giacomo II che l’unica strategia praticabile, fosse quella di arrendersi prima ancora di aver tentato una difesa. Addolorato ed umiliato anche dal tradimento della secondogenita Anna, che assieme al marito Giorgio di Danimarca andò ad ingrossare le schiere degli insorti, il legittimo sovrano, paventando il ripetersi dei sanguinosi conflitti che quarant’anni prima avevano lacerato il paese, preferì non radicalizzare lo scontro, che rischiava di degenerare in un’altra guerra civile. Se con questa scelta di elevato profilo etico, Giacomo II dimostrava di avere a cuore le sorti dei suoi sudditi, tuttavia il rifiuto di appellarsi alla fedeltà popolare verso la dinastia regnante, sancì la definitiva rinuncia al trono. Per la famiglia reale si apriva la via dell’esilio francese, a Saint Germain en Laye, sotto la protezione di Luigi XIV, l’unico sovrano europeo disposto a schierarsi in favore del re, spodestato a causa della sua fede. Il dramma politico che si era abbattuto sugli Stuart paradossalmente li aveva avvicinati: Giacomo e Maria Beatrice, si dimostrarono assai coraggiosi di fronte alle peggiori sventure ed estremamente dignitosi anche nel momento delle privazioni economiche; mentre attendevano al governo della loro piccola corte in esilio ebbero modo di stabilire un’intesa profonda, riuscendo ad incarnare quel modello di famiglia cristiana, cui la regina aveva sempre ambito, ma che i ripetuti tradimenti del marito, incapace di rinunciare alle sue favorite, avevano reso impraticabile. Nel febbraio del 1689 Guglielmo e Maria furono proclamati sovrani d’Inghilterra, ma prima di poter essere incoronati ufficialmente si impegnarono con una promessa solenne ad osservare la Dichiarazione dei diritti, un corpus di leggi che condannavano i tentativi di Giacomo II di sovvertire e distruggere la religione protestante, fornivano un fondamento giuridico ai poteri del parlamento e riaffermavano le tradizionali libertà del paese. Col loro giuramento, Guglielmo e Maria posero termine alla storia degli Stuart, destinati a non recuperare mai più la loro corona, ed anche a quella dell’assolutismo monarchico inglese: dal riconoscimento delle prerogative parlamentari, ebbe origine una nuova forma di governo di tipo costituzionale, ispirata alle teorie contrattualistiche di Locke e fondata sulla divisione dei poteri. Quanto avvenuto nel 1688 viene generalmente indicato come “Rivoluzione gloriosa” nella interpretazione autocelebrativa della storiografia liberale inglese, coll’intenzione anzitutto di sottolinearne il carattere pacifico ed in secondo luogo il preteso unanime consenso. In realtà, non si trattò che di una svolta nell’indirizzo politico avvenuta ai vertici dello stato, a garanzia degli interessi dei gruppi sociali più attivi sul piano economico, che si posero consapevolmente il problema della conquista del potere e che, a tale scopo, riuscirono ad avvalersi della brama di comando e dell’ambizione degli stessi famigliari del sovrano legittimo.
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