di Isacco Tacconi - Fonte: http://www.radiospada.org/
Cari lettori, quest’oggi vorrei riprendere il cammino del nostro sentiero tolkieniano col sottoporvi un quesito: vi è mai capitato di percepire che ciò che sta accadendo intorno a noi, mi riferisco ai rapidi mutamenti della società e del tempo in cui il Buon Dio ci ha posti, sia mosso da un fine invisibile, da un progetto latente, preciso ma sfuggente e, quasi, “sovrumano”? Non mi sto riferendo ovviamente all’azione della Divina Provvidenza che tutto dispone e a cui nulla sfugge, sapendo volgere ogni cosa al bene. No, mi riferisco piuttosto a quei piani delle forze anticristiche, a quei disegni delle nazioni, a quei progetti dei popoli che nonostante l’impegno e le macchinazioni dei loro artefici finiranno, presto o tardi, per dissolversi come pula nel vento.
«Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?» (Lc 12,54-56).
Francamente, credo che questo tonante rimprovero risuoni alla presente generazione con una forza e una attualità così intense da far tremare i polsi, al pari della voce del profeta Giona. Chi può negare, infatti, i radicali sconvolgimenti di cui il secolo scorso è stato foriero e quello presente terribile, quantunque collaterale, prosieguo e avveramento? Una mutazione antropologica e culturale, diffusasi come una epidemia planetaria, letale quanto contagiosa tanto da sovvertire i cardini stessi dell’umanità, che a suo confronto l’abbattimento dell’Ancien Régime appare poca cosa.
«Il mondo è cambiato. Lo sento nell’acqua, lo sento nella terra, lo avverto nell’aria». Nel prologo della versione cinematografica del Signore degli Anelli questa frase, presagio di sventura, viene pronunciata da Galadriel, nel libro invece è Barbalbero, il Pastore di alberi, che nel prendere congedo, la pronuncia stanco e mesto come foglia d’autunno che ondeggia inesorabile verso la terra, ai Signori di Lòrien, Celeborn e Galadriel. Ma possiamo presumere che, verosimilmente, anche la Dama Bianca, con il suo sguardo penetrante e lungimirante, nella contemplazione della sua cattedrale boscosa, abbia meditato in cuor suo le stesse parole già dai tempi della riconquista della Montagna Solitaria da parte di Thorin Scudodiquercia, quando il Male tornò strisciando fra le ombre del mondo.
Il mondo come era non esiste più, molti di noi neanche lo abbiamo mai conosciuto, quel mondo, se non attraverso i ricordi a volte vividi, a volte sbiaditi dei nostri vecchi, o scoprendolo sui libri come se si trattasse di un passato ancestrale e obliato. Al suo posto un “altro” mondo è stato fondato sulle macerie dell’antico. Ma un tale trapasso di epoca a quali cause recondite è dovuto, e a quali effetti ultimi è ordinato? «Molto di ciò che era, si è perduto. Perché ora non vive nessuno che lo ricorda». Trovo che questa giudizio aderisca quasi perfettamente al nostro presente. Molto della nostra Santa Fede è andato perduto. Noi cattolici oggi ne siamo la prova, noi superstiti, noi “che un tempo eravamo tenebra” (cf. Ef 5,8), e come quello schiavo liberto della platonica Caverna siamo stati “chiamati dalle tenebre alla Sua luce meravigliosa” (1Pt 2,9). Personalmente provo una forte simpatia tra la mia attuale situazione di credente e l’esperienza di quello schiavo che, una volta cadute le catene dell’ignoranza e dell’illusione ex umbra et imaginibus, abbandona strisciante l’oscurità della caverna per volgersi verso la Luce vivificante della Verità che, ahimé, è divenuta quasi insostenibile: gli occhi sono stati troppo tempo immersi nelle tenebre.
Non di rado vorremmo volgerci indietro per andare a liberare i nostri fratelli qui in tenebris et in umbra mortis sedent, i quali, come noi un tempo, ancora prediligono l’illusione alla realtà, le vacue ombre alla sostanza. Soggiogati ad un mondo fittizio che ci è stato messo dinanzi agli per nasconderci la verità. Una tale assuefazione alla menzogna che impedisce di sopportare il peso della verità. Il timore di essere da loro incompresi e biasimati ci trattiene: forse ci bandirebbero come squilibrati, ci deriderebbero come dei folli e, in realtà, lo siamo davvero. La Croce è, e rimarrà sempre, una follia e uno scandalo, e i cristiani sono i cruciferi, coloro che la portano impressa nel cuore, sulla fronte, sulle labbra. E tuttavia i figli di Dio sono, oggi più che mai, degli apolidi. Lo sono per essenza, appartenendo ad una Patria che non è di questa terra. Se fossero “cittadini del mondo”, il mondo li onorerebbe come sua proprietà e, in fondo, non desidera altro: onorarli con delle catene dorate.
J.R.R. Tolkien vide tutto questo e forse molto di più. Anch’egli fu travolto dalla Grande Guerra, e dovette soffrire ancor più nel veder partire i propri figli per la Seconda Grande Guerra, forse peggiore della prima. E non c’è dolore più grande per un uomo che dover assistere impotente alla sofferenza dei propri figli, non potendo evitare loro l’orrore della violenza irragionevole, empia, ingiusta. Ma c’è un elemento che nel disegno della storia del Mondo costituisce un fattore di precipitazione degli eventi: il tradimento.
Esiste un affresco che si trova nella Cattedrale di Orvieto nella cappella di San Brizio, opera di Luca Signorelli, che mi ha sempre colpito per la sua forza espressiva. Rappresenta l’Anticristo e gli ultimi tempi, mostrando una figura impressionante, simile per sembianza a Nostro Signore, con un volto ingenuamente dolce e suadente ma dagli occhi vitrei, avvolti da un rossastro baluginio. Le sue braccia sono mosse dal Demonio che lo manovra come fa un burattinaio con il suo fantoccio. Pensiamo, dunque, che tali meditazioni non sono una prerogativa dei nostri tempi, ma anzi la Chiesa ha sempre meditato e spinto i credenti a meditare sugli avvenimenti che precederanno il definitivo “Ritorno del Re”.
Quale il nesso tra queste meditazioni e la figura di Saruman? Non sarà troppo difficile, credo, intuirlo dopo aver svelato che il tradimento degli eletti è fattore di accelerazione nell’instaurazione del regno dell’oscuro signore su questa nostra “terra di mezzo”.
Saruman è uno dei Cinque Istari, capo del suo ordine e, in quanto superiore, risiede ad Isengard nell’alta torre di Orthanc. Il nome stesso di «Isengard» richiama foneticamente l’antico anglosassone facendoci intuire il suo scopo: sorvegliare l’Isen, il «grande fiume». Colui che risiede ad Isengard è perciò il “guardiano”, il custode. Interessante somiglianza con il termine greco epìscopòs che significa appunto «guardiano», «sorvegliante». Saruman dapprima non era malvagio, o meglio, non era propriamente «buono». Tolkien in realtà non dedica molto spazio a descrivere Saruman come era prima della corruzione. Possiamo però quasi percepire la sua mancanza di personalità, l’inconsistenza della sua figura. E quando coloro i quali, pur avendo ruoli di governo, posseggono una volontà debole e oscillante, facilmente vengono attratti e, in qualche modo, “posseduti” dalle loro idee. La philosophia perennis al contrario insegna che l’uomo è pienamente uomo, cioè veramente libero, solo quando è «dominus sui», ossia quando è capace di governare se stesso, di guidare egli stesso le proprie passioni e i propri istinti e non quando ne è preda.
Saruman è un essere, uno stregone, che si è lasciato avvincere, per imprudenza e presunzione, dall’illusione di poter cambiare il corso degli eventi per la brama del potere. Ha voluto “guardare”, ha voluto affacciarsi nelle tenebre dell’abisso senza la luce della Grazia, e ne è rimasto ammaliato. Un motivo ancestrale che risuona dall’Odissea di Omero al Santo Vangelo di Gesù Cristo. Tuttavia, una differenza sostanziale corre tra il Versatile Ulisse e Saruman il Bianco: nell’ascoltare la voce delle Sirene, il Re di Itaca non confidò in sé stesso. Saruman, al contrario, nello scrutare il Palantìr entrò nella tentazione con il cuore impuro e con la sciocca arroganza di chi, sicuro del proprio “candore”, (d’altronde l’abito è bianco) sfida l’oscurità. Che stolto è l’uomo. Quella veste bianca, se non è lavata nel Sangue dell’Agnello, non ha virtù propria. Ciò che di forte, solido e infallibile c’è in quell’investitura è un riflesso condizionato dall’alto anzi, dall’Altissimo, e ad ogni modo non rende quell’uomo bianco uno übermensch.
Ulisse si fece legare saldamente all’albero maestro, immagine della Croce, abbracciando soltanto la quale è possibile passare non solo in mezzo alle bellissime e mostruose sirene, ma anche nella Valle Oscura e nel profondo abisso del Mare, avendo le pareti della morte a destra e a sinistra. Strettamente legato da solide funi, quasi crocifisso, mentre tra dolori insopportabili di chi gli infliggeva lo strazio delle mortifere tentazioni, gridava, e nessuno dei suoi lo ascoltava. Solo lui, Odisseo, si espose e guidò il suo vascello fra i pericoli e i flutti dell’interminabile esilio, fino all’approdo patrio.
Ma quelli come Saruman, hanno venduto la loro anima per riceverne in contraccambio il disprezzo e il dominio del Signore della menzogna, che promette e non mantiene. Che corrompe con un misero compenso, così vacuo e vuoto eppure così irresistibile per gli sventurati che ne accettano la dialettica. «Eritis sicut Deus», questa è la promessa di Sauron a Saruman non più bianco, già adulterato, già privato del candore virgineo che lo aveva innalzato nel consesso dei saggi guadagnandogli il primato. Ma il velo che ricopre le tenebre ha avvolto i suoi occhi ormai torbidi che mutano la luce in tenebre. “«Così sei venuto, Gandalf», mi disse grave, – racconta Mithrandir – ma nei suoi occhi pareva ci fosse una luce strana, il riflesso di un gelido riso del cuore”[1].
Il dialogo che segue è di estrema importanza per comprendere il pensiero empio che si impossessa della mente umana quando cede alle vuote lusinghe del male. “«Tu sei venuto, ed era quello lo scopo del mio messaggio. E qui rimarrai, Gandalf il Grigio, e ti riposerai dei lunghi viaggi. Perché io sono Saruman il Saggio, Saruman Creatore d’Anelli, Saruman Multicolore»”[2]. La follia ha già avvelenato il suo cuore e il delirio d’onnipotenza lo innalza smisuratamente, ma solo per farlo precipitare con una più grande rovina. Gandalf il Grigio, invece, è in questo contesto l’immagine dell’umiltà, dell’impotente, di colui che quando è debole è più forte dei potenti della terra perché altri combatte la di lui battaglia. “«Bianco!», sogghignò [Saruman]. «Serve come base. Il tessuto bianco può essere tinto. La pagina bianca ricoperta di scrittura, e la luce bianca decomposta»”. Lo stregone bianco smarrendo il senno si fa creatore, si autoproclama “forgiatore d’anelli”, imitatore di Sauron il Ribelle. Attraverso il suo ruolo di guida, concessogli perché amministrasse la giustizia e non perché lo utilizzasse a proprio arbitrio, egli si trasforma in uno straordinario veicolo del male. Il peggior avversario, infatti, non è quello manifesto ma quello occulto, e il dolore più grande è quello che ci viene inflitto, a tradimento, da coloro che erano nostri amici.
Il bianco della luce racchiude la smisurata varietà dei colori possibili i quali ne costituiscono una imperfetta, quantunque ammirabile, espressione particolare. Ma l’essenza della luce sfugge all’analisi della scienza umana e pretendere di penetrarla diviene perciò un’inevitabile peccato di hybris. Dio “abita in una luce inaccessibile” (1Tm 6,16) dice la Scrittura, ciò significa che ogni bene ed ogni bontà particolare da Lui proviene e a Lui appartiene, e nessuno se ne può appropriare per sprigionarne i colorati effetti o addirittura mutandone la natura. Questo, lo sappiamo, è l’intento segreto dello gnosticismo: raggiungere l’uguaglianza con Dio attraverso un patto con le tenebre; e se ci pensiamo questa è anche l’essenza stessa di ogni peccato.
Questo è esattamente ciò che Saruman lo stolto ha tentato di fare mutando l’aggettivo che individua il suo ruolo. Non sarà più «il Bianco» ma piuttosto Saruman “Multicolore”, lo snaturato, il pervertito. Curiosa l’analogia con la bandiera arcobaleno, divenuta simbolo non di libertà ma di libertinismo, la più tirannica delle schiavitù perché è quella che l’uomo si autoinfligge brutalmente dissennandosi in una esaltata disperazione senza uscita. La purezza che viene colorata dai colori delle passioni ha perduto la sua caratteristica bianchezza “«nel qual caso – risponde Gandalf –non sarà più bianca» – e prosegue – «e colui che rompe un oggetto per scoprire cos’è, ha abbandonato il sentiero della saggezza»”. La conoscenza, infatti, è potere, la conoscenza è dominio, il desiderio di conoscenza, se non è temperato dall’umiltà, diviene arbitrio che pretende di sciogliere i vincoli e possedere l’oggetto conosciuto. La conoscenza, per gli illuminati, è plagio divinizzante.
Un vecchio e nauseabondo motto spinge il cospiratore che vuole abbattere tutto ciò che sa di tradizione, di antico, quindi di non disponibile e sottratto al suo controllo: la smania della novità e l’ineluttabilità del progresso. Il grido di guerra “non si può più tornare indietro!”, questo è il simbolo, il credo del nuovo mondo inebriato dall’eccitante inquietudine del divenire. “«I Tempi remoti non sono più – dichiara Saruman –. I giorni Intermedi stanno passando. I Giovani Giorni stanno per incominciare. Finito il tempo degli Elfi, la nostra ora è vicina: il mondo degli Uomini che dobbiamo dominare. Ma abbiamo bisogno di potere, potere per ordinare tutte le cose secondo la nostra volontà, in funzione di quel bene che soltanto i Saggi conoscono».
Il bene non sarebbe più nelle cose, cioè nella loro oggettiva struttura ontologica, ma sarebbe piuttosto una gnosi che soltanto pochi eletti possono e debbono possedere per manovrare le masse dei villani senza intelletto. “Il Sol dell’Avvenire”, un futuro di ordine e perfezione che dovrebbe scaturire dal caos, ossia da una (necessaria) fase di distruzione e rivoluzione. “«Si tratterebbe soltanto – prosegue Saruman nel tentativo di corrompere Gandalf – di aspettare, di custodire in cuore i nostri pensieri, deplorando forse il male commesso cammin facendo, ma plaudendo all’alta mèta prefissa: Sapienza, Governo, Ordine; tutte cose che invano abbiamo finora tentato di raggiungere, ostacolati anziché aiutati dai nostri amici deboli o pigri. Non sarebbe necessario, anzi non vi sarebbe un vero cambiamento nelle nostre intenzioni; soltanto nei mezzi da adoperare»”[3]. La satanica tentazione legata al triste nome dello statista fiorentino Niccolò Machiavelli secondo cui “il fine giustifica i mezzi”, risuonerà, ahinoi, fino alla fine dei tempi quando Colui che è la Verità e la Vita svergognerà per sempre coloro che lo hanno disprezzato in quanto Via. Non c’è altro mezzo, infatti, per cui l’uomo possa elevarsi dalla propria miseria dovuta al peccato e raggiungere il proprio fine: Gesù Cristo Nostro Signore. San Tommaso, il Dottore Comune dell’Unica Chiesa di Cristo, punto irrinunciabile per non perdere la giusta cognizione della Fede, così ha espresso questa “necessità di mezzo: “Christo qui, secundum quod homo, Via est nobis, tendendi in Deum”[4]. E siccome, come insegna sempre il Doctor Angelicus, «bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu», non è possibile che un fine in sé buono conservi intatta la sua bontà se i mezzi adoperati per raggiungerlo sono intrinsecamente cattivi. Ma i rivoluzionari, accecati dal freddo bagliore dei loro ideali sono disposti a calpestare volentieri la morale, il bene e la giustizia. Proprio per questo colui il quale, nel patto delle tenebre, si è “autoilluminato” ha in realtà consegnato se stesso in balìa dell’Oscuro Signore che ne farà ciò che vorrà. Quanto bene si potrebbe fare, pensa il novatore, se solo non ci fossero quegli odiosi vincoli morali che ne rallentano l’affermazione; quanto si potrebbe progredire se solo non ci ostacolasse la legge della coscienza, se ci affrancassimo dal peso del dogma, se ci elevassimo al di sopra di ciò che è eterno!
Saruman è l’emblema narrativo del tradimento di Giuda Iscariota che per raggiungere il suo disonesto fine, percorre una via diversa da quella della Croce, una via più breve e, apparentemente, più facile ma che inevitabilmente conduce al suicidio e alla dannazione. Similmente, Saruman il «multicolore», subirà una fine ingloriosa e direi quasi ridicola: uscirà di scena accoltellato dallo spregevole Grima Vermilinguo dopo aver tentato in vano l’instaurazione di una piccola dittatura sulla Contea.
Questa è la fine che attende tutti coloro che, per avventura e presunzione, abbandonano il retto sentiero tracciato e prestabilito. Il cammino ricevuto e trasmesso, il sentiero del Bene Immutabile, cioè del dogma. Infatti, ciò che da principio può sembrare una modesta e innocente eccezione, o “apertura”, può rapidamente degenerare in un tradimento della verità: «parvus error in principio, est magnus in fine».
Pertanto, coloro che imitano la presunzione dello Stregone bianco vanno molto oltre la mera imprudenza e, come disse San Pio X dei modernisti, stravolgono il senso stesso della verità (aeternam veritatis notionem pervertant). Se dovessimo infatti sintetizzare l’essenza del modernismo, cioè la più estesa e letale eresia che abbia mai colpito la Chiesa Cattolica, dovremmo ricordare una delle proposizioni che il Sant’Uffizio nel 1924, su disposizione di Papa Pio XI, condannò solennemente. Così la proposizione modernista anatemizzata: “Anche dopo aver concettualizzato la fede, l’uomo non deve adagiarsi sui dogmi della religione, aderirvi in modo fisso e immobile, ma deve rimanere sempre smanioso di progredire a una verità ulteriore, realmente evolvendo in nuovi sensi, e perfino correggendo ciò che crede”[5].
In definitiva appare proprio questo il nocciolo del dialogo tra Gandalf, l’umile stregone ancorato alla tradizione, e Saruman, affascinato e avvinto dalla “smania della novità”. Saruman, «il modernista», tenta di persuadere il suo confratello ad abbandonare la vecchia via per la nuova, spingendolo a tradire il mandato di conservare integralmente la verità contro la torbida ed evoluzionistica dottrina gnostica: «O Timothee, depositum custodi, et rursum, bonum depositum serva» (1Tm 6, 20).
In altre parole, la fine di Saruman (e di Giuda) è per noi tutti un monito vibrante che deve trattenerci la mano dalla presunzione di elevarci al di sopra della dottrina cattolica sempre creduta e ininterrottamente trasmessa. In altre parole, deve instillarci il timore di allontanarci dalla Tradizione che è la Regula Fidei. Il multicolore e il modernismo hanno in comune l’allontanamento dalla purezza immacolata della dottrina che ricorda la sentenza giovannea: “hanno preferito le tenebre alla luce”.
In ultima istanza potremmo solennemente dichiarare che il Signore degli Anelli è nella sua integralità, come nelle sue parti, un solenne «manifesto antimodernista». In esso infatti, i valori che più contano sono quelli immutabili ed eterni, come i dogmi. Ma non voglio rubare, anticipandolo, il materiale delle nostre prossime “serate tolkieniane”. Tuttavia, ritengo sia giusto proporvi l’“antidoto” che lo stesso nonno Tolkien ha lasciato impresso attraverso dei versi indimenticabili e densi di verità sostanziale. Attraverso di essi si ravviva in noi la speranza della restaurazione della Santa Chiesa Cattolica e si rinsalda in noi la fermezza nella Fede dei nostri padri: «Non tutto quel ch’è oro brilla, Né gli erranti sono perduti; Il vecchio ch’è forte non s’aggrinza, Le radici profonde non gelano. Dalle ceneri rinascerà un fuoco, L’ombra sprigionerà una scintilla; Nuova sarà la lama ora rotta, E re quei ch’è senza corona».