di Pietro Ferrari
Nei tempi della Christianitas gli uomini avevano come oggi i loro desideri, le loro frustrazioni e le loro speranze, ma tutto veniva ricondotto non soltanto alla semplice e propria ‘volontà’ ed al proprio impegno, ma alla preghiera e alla richiesta di una grazia particolare.
Nel centro di Teramo è situata una chiesetta che annualmente diventa luogo di un rito legato a Santa Caterina di Alessandria. Caterina fu una bella e colta diciottenne cristiana, figlia di nobili, abitante ad Alessandria d’Egitto. Qui, nel 305, arriva Massimino Daia, nominato governatore di Egitto e Siria. Per l’occasione si celebrano feste grandiose, che includono anche il sacrificio di animali alle divinità pagane. Un atto obbligatorio per tutti i sudditi. Caterina però invita Massimino a riconoscere Gesù Cristo come redentore dell’umanità e rifiuta il sacrificio. Non riuscendo a convincere la giovane a venerare gli dèi, Massimino propone a Caterina il matrimonio. Al rifiuto della giovane il governatore la condanna a una morte orribile: una grande ruota dentata farà strazio del suo corpo. Sarà un miracolo a salvare la ragazza che verà però decapitata. Secondo la leggenda degli angeli porteranno miracolosamente il suo corpo da Alessandria fino al Sinai, dove ancora oggi l’altura vicina a Gebel Musa (Montagna di Mosè) si chiama Gebel Katherin. Questo sarebbe avvenuto nel novembre 305.
All’interno della chiesetta si conserva il simbolo della santa: una ruota dentata (sia lignea che scolpita sulla pietra) che, se fatta girare recitando un Gloria il giorno del 25 novembre, giorno in cui ricorre la celebrazione della santa, la tradizione vuole porti fortune economiche e auspicati matrimoni. È diffuso e legato principalmente alla devozione popolare delle ragazze in età da marito che fanno “girare la ruota”, compiendo il gesto di percorrere con il dito il cerchio disegnato della ruota scolpita nella lapide posta sul muro a destra dell’ingresso, mentre rivolgono le loro richieste. Altre fanno girare, mediante una manovella, la ruota di legno di noce, ricoperta da un cerchio di ferro dentato, che si trova vicino alla statua che ritrae la martire. Le giovani rivolgendo le loro preghiere chiedono un felice matrimonio, le sterili richiedono la gravidanza, le partorienti un felice esito del parto.
Lo storico teramano Muzio Muzii cita la chiesetta come esistente già all’inizio del Trecento. In tempi successivi, notizie sul culto della santa e la considerazione per questa chiesa sono riportate negli statuti del comune di Teramo del 1440 dove si legge che la ricorrenza, da celebrarsi il giorno 25 novembre, è prescritta tra le feste comandate. Le epigrafi, in grafia gotica elaborata, recano simboli diversi: la prima, a sinistra del portale, ha una ruota dentata a otto raggi e l’iniziale S(anctus) da riferire alla stessa Santa, la seconda, sopra il portale, reca il simbolo dell’incudine con martello e le inizialiS(anctus) (con S sormontata da uno croce) G(etulius). Quest’ultimo blocco fa riferimento alle case di San Getulio, contigue alla chiesa, ossia le fabbriche annesse all’antica cattedrale (posta posteriormente), successivamente trasformate in Seminario. La chiesa fu collegata al Seminario a partire dal XVI secolo. L’edificio religioso divenne proprietà privata della famiglia Castelli nel 1649, con Venanzio Castelli, membro della Società Economica di Teramo, che per lascito testamentario la ricevette in juspatronato. L’interno appare nella veste dei successivi restauri: il tetto è ripristinato nella seconda metà del Settecento, ulteriori rimaneggiamenti sono stati effettuati tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento (restauro del vescovo Pirelli). Gli arredi, in stile antico, si datano tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo.
La proprietaria Tania Bonnici Castelli racconta così uno degli ultimi aneddotiriguardanti il rito della ruota: “Intorno a questa affascinante diciannovenne egiziana che scelse il martirio su una ruota dentata pur di non sposare l’imperatore pagano e restare fedele alla sua religione, si è sviluppata una credenza tra il sacro e il profano: chiunqueGIRI per tre volte la ruota di Santa Caterina posta sotto la sua statua nel giorno della festa, diventerà ricco e chi è in cerca di marito o moglie si sposerà entro l’anno. Sarà per le aspettative materiali ma anche per la struggente storia di una ragazza coraggiosa ed idealista che ogni anno la chiesetta viene visitata da una fiumana di gente, in fila per ore, in attesa di girare la ruota dei miracoli ai piedi della santa. In mattinata, in particolare, arrivano intere classi di studenti accompagnati dai loro professori. I più piccoli si mostrano subito curiosi e devoti a differenza dei quasi maggiorenni che entrano nella chiesa con fare irrispettoso. Parlano, ridono forte e, appena il docente gira loro le spalle, c’è anche qualcuno che si compiace di bestemmiare Dio e la Madonna. Insomma, il tutto viene vissuto come una «pagliacciata» a cui peraltro dicono di non credere. Quel ragazzo alto, magrissimo, con un po’ di barbetta rossiccia appena accennata sotto il mento, pantaloni lacerati ad arte, calati oltre il dovuto e con slip a molla griffata ben in vista, io me lo ricordo bene. Mi aveva colpito un certo livore nel suo sguardo, quegli occhi torvi di chi usa la ferocia per farsi notare. Nonostante il divieto imposto dall’insegnante di non mangiare in chiesa, lui era entrato con un enorme cono gelato, probabilmente acquistato al bar di fronte, che leccava con spudoratezza seduto tra i compagni. Classe liceale dell’ultimo anno, a tenerla buona ci voleva il coraggio della professoressa di latino che, sfinita, si lasciava andare a minacce sulla mancata ammissione agli esami per cattiva condotta. I maschi si assomigliavano un po’ tutti tra di loro, li differenziava solo la quantità di peli tra faccia e testa. Le ragazze, molto carine, sfoggiavano micro gonne nere con calze velate e stivaletti in tinta. La sequenza di tatuaggi che si intravedeva sembrava la riproduzione delle incisioni sui muri delle tombe egizie della Valle dei Re. Approfittando di un frame di silenzio, come faccio ormai da anni, cominciai a raccontare la storia della giovane, ricca e colta Caterina, una ragazza della loro età, che preferì morire lacerata pur di non rinunciare alla propria castità e alle proprie idee. Una scelta che l’ha resa santa e dispensatrice di tante grazie, soprattutto verso quei giovani che protegge e che si rivolgono a lei. Sentivo i loro occhi puntati addosso, ironici, scanzonati ma poi, mano a mano, catturati dalla vicenda. Sapevo come fare, esperienza di anni e di laboratorio teatrale! Terminata con successo la mia performance, invitai i ragazzi a mettersi in fila e a girare la ruota ognuno di loro per tre volte, esprimendo un desiderio. Evvai. Fu la stura a nuovi schiamazzi in dialetto, spintoni e bestemmie, tra le più fantasiose. «Ignoranti, cafoni e volgari – li apostrofava invano la professoressa – Quest’anno alla maturità esce greco e voi non sapete parlare nemmeno in italiano». Si disposero dunque in formazione davanti alla ruota per il rito propiziatorio: prima le femmine ridanciane e vezzose e poi i maschi fintamente sprezzanti ma poi alquanto intimiditi. Ultimo della fila, il ragazzo dalla barbetta rossa: truce, scocciato e con un residuo di cono ancora in mano. Girò per tre volte lo strumento di tortura ad una velocità tale da farlo decollare e, fissando per un attimo il viso in cartapesta di Caterina, ingoiò strafottente l’ultimo boccone del suo gelato… Puntualmente, il 25 novembre dell’anno successivo, in una giornata stranamente tiepida e primaverile, il portoncino della chiesetta di Santa Caterina tornò ad aprirsi ai suoi visitatori. Io ero lì come sempre a ricevere ed informare le persone che volevano vivere l’antica tradizione della ruota.
Stavo raccontando la storia di Caterina ad un gruppo di bambini della scuola elementare che mi ascoltavano a bocca aperta quando vidi entrare una coppia di ragazzi. Si tenevano per mano e si sorridevano. Denti perfetti, capelli lunghi e lisci lei, un’aria da americanina anni ’70. Gran fisico, sguardo limpido, un po’ pallido lui, un bel tipo. Quella barba rossa, però, la riconobbi subito. «Oddio – pensai – ecco il bestemmiatore, fine dell’incanto». Li seguii con lo sguardo: lui le parlava all’orecchio con dolcezza insospettabile e lei, ad ogni sua parola, si guardava intorno, estasiata. Mi passarono davanti senza vedermi e raggiunsero la ruota posta ai piedi della Santa. Lì, ognuno di loro ripeté il rito per tre volte, con calma e serenità. Prima di andare via, quasi furtivamente, il ragazzo lanciò per terra, tra i fiori e i lumini, un sacchetto di carta bianca e si dileguò in un attimo. «Butterò via quella cartaccia non appena escono i bambini», mi dissi, e così feci. Un colpo al cuore, di quelli che non ti dimentichi più, quando capii che la piccola busta non era un rifiuto ma conteneva un cono gelato, appena acquistato nel bar di fronte. Era un dono, un ex voto per grazia ricevuta, da parte di quel ragazzo che ringraziava Caterina per aver trovato l’amore e forse altro. Glielo aveva chiesto l’anno prima, a modo suo. Io non l’avevo capito, mi ero fermata alle apparenze. Non avevo avuto fede. La più bella e sincera delle offerte rimase insieme alle altre fino a sera. Ormai, però, era ora di chiudere la chiesa, di spegnere le candele e portare via i fiori. Intanto, appoggiato ai piedi di quella donna impagliata con gli occhi sempre aperti, il gelato era rimasto miracolosamente intatto.«Ci vediamo il prossimo anno, Caterina. Ti chiedo perdono per aver creduto che tu fossi morta. Il cono te lo lascio».”