sabato 27 giugno 2015
GUADAGNO - SALARIO - INTERESSE (Estratto dall'opera di mons. Delassus "Il Problema dell'ora presente" Tomo II°)
Queste parole indicano tre fonti del capitale-ricchezza, tre forme che la proprietà riveste fin dalla
sua culla.
Il capitale nuovo nasce, abbiamo detto, dall'applicazione, mediante il lavoro, del capitale già
acquistato. Questo, per ciò stesso che è messo in opera, crea nuove ricchezze. Di queste ricchezze si
devono fare molte parti tutte le volte che il proprietario della materia prima e l'operaio non sono una
sola e medesima persona; e questo in virtù del principio da cui deriva il diritto di proprietà: la cosa
appartiene a colui che l'ha fatta. Se ha due produttori, il capitale ed il lavoro, due pure ne devono
godere il beneficio.
L'utile del lavoratore si chiama salario; l'utile del proprietario della materia prima messa in opera,
guadagno; vi può essere un terzo compartecipe, quegli che fornisce i fondi necessari all'impresa, ed
il suo utile, si chiama interesse. L'uno è giusto non meno che l'altro per la ragione suddetta: due o
tre cause sono concorse alla formazione d'un prodotto, ognuna ha diritto sul suo valore ad una parte
proporzionata all'influsso che vi ha esercitato, a quello che vi ha messo.
Quello che mette l'operaio, è il lavoro delle sue mani e spesse volte ancora quello della sua
intelligenza. Quello che mette il padrone è il lavoro intellettuale e corporale che richiede
l'andamento dell'industria, il suo avviamento, la sua buona gestione, ed il collocamento dei prodotti.
Quello che mette il proprietario o il capitalista, è la materia prima e l'utensile, oppure il danaro che
serve a procurarli. L'operaio può essere nello stesso tempo padrone e proprietario, in questo caso
l'oggetto gli appartiene senza divisione, altrimenti egli non può godere se non di quello che gli
tocca.
Anche allora che il proprietario non mette la materia atta al lavoro, come succede nella locazione
d'una terra, egli ha diritto ad un canone, poiché egli pone nelle mani dell'affittuale un'anticipazione
enorme di lavoro, tutto quello che ha trasformato il suolo arido in terra vegetale. Questo lavoro già
fatto, entra sì bene e sì necessariamente nella produzione dei frutti come il lavoro ultimo, quello al
quale si applicherà l'affittuale nell'anno corrente. Il proprietario dunque, con tutta giustizia, deve
partecipare al vantaggio che reca il raccolto.
Io non dico però che tutto questo lavoro anteriormente eseguito appartenga all'attuale proprietario
del terreno, e ch'egli debba essere retribuito nella proporzione da stabilirsi fra il lavoro dell'ultima
annata ed il lavoro dei secoli precedenti. No! Noi qui ritroviamo quel fondo comune, del quale
abbiamo già parlato, che appartiene all'umanità ed alla nazione, fondo del quale tutti ne devono
approfittare. Tutti infatti ne approfittano mercé l'acquisto a buon mercato dei frutti. Qual sarebbe il
prezzo d'uno staio di frumento, se occorresse ricominciare ad eseguire tutto il lavoro che ha
preparato la terra a produrlo e che l'ha resa fertile? Il prezzo al quale è ceduto ricompensa, da una
parte, il lavoro al quale s'è applicato il coltivatore per condurre a maturità i frutti dell'anno presente,
e dall'altra compensa i sudori che ha versato in questo campo la famiglia a cui appartiene, sia
ch'essa abbia conservato i suoi diritti, sia che li abbia ceduti ad un'altra. Il soprappiù del valore reale
appartiene a tutti: e tutti ne godono mediante la somma relativamente leggera colla quale essi
possono acquistare il frutto di tanti secoli di lavoro.
Vi sono certi democratici, anche di quelli che si danno il titolo di cristiani, che non l'intendono in tal
modo.
Il 20 novembre 1893 l'abate Pottier, d'accordo co' suoi discepoli, compilava a Liegi un programma
assai audace, per non dire di più. Fra le altre cose, l'art. 12 stabiliva la formazione di sindacati fra gli
affittuali, coll'esclusione dei proprietarii, e l'art. 13 stabiliva che il tasso e le altre condizioni di
affitanza venissero fissate da questi sindacati. Era puramente e semplicemente mettere in non cale il
diritto di proprietà; era partire da questo falso supposto che la terra sia, nel suo stato attuale, tale
quale è uscita dalle mani del Creatore, e che il proprietario non ha altri diritti che i diritti
convenzionali che gli dà "la sorte della nascita" in una società costituita su basi ingiuste, opposte
all'eguaglianza naturale degli uomini fra di loro. No, la terra data in affitto non è quale era nel
giorno della creazione, essa è pregna del lavoro dei proprietarii o di quelli ai quali essi hanno
trasmesso i propri diritti, e questo lavoro entrerà nella formazione dei frutti da raccogliersi del pari
che quello dell'affittuale. L'uno e l'altro hanno dunque diritto sul valore di questi frutti.
Commentando o difendendo gli articoli 12 e 13 della costituzione dei sindacati di affittuali, il Bien
du Peuple diceva: "Ebbene! che c'è dunque da spaventarsi tanto? L'affittuale ha il diritto di ritrarre
dalla terra che lavora quello che gli abbisogna per vivere onoratamente. Se, dopo ciò, gli resta da
pagare il suo proprietario, lo deve fare in coscienza secondo il contratto. Per quanto si possegga
esclusivamente una cosa, bisogna tuttavia, per l'uso che se ne fa, considerarla come cosa comune.
Se, sotto il rapporto dell'uso, la fortuna è comune al ricco e al povero, a più forte ragione, sotto il
rapporto dell'uso, i beni immobili sono comuni al proprietario e al locatario, e fa duopo che questo
vi trovi innanzi tutto la sua sussistenza. È ciò che cerca di assicurare l'Union démocratique, né più
né meno". Avvi in queste parole una negazione del diritto di proprietà, sì bene stabilito e dimostrato
nell'Enciclica Rerum novarum.(1) Avvi un espresso invito ad impadronirsi del bene altrui.
Certamente non avendo lo scrittore che un vago concetto di ciò che si facesse, recava, come
giustificazione, un ragionamento qualunque sopra una citazione di san Tommaso, stornata dal suo
vero senso, in modo da uscir dal cristianesimo per entrar nel comunismo.
Quelli che dicono che il valore viene intieramente dal lavoro e ad esso tutto intero s'appartiene,
dicono il vero; ma escono dalla verità allora che non vogliono tener conto, per così dire, che
dell'ultimo colpo di mano, che del lavoro dell'ultimo operaio, per pretendere che l'intero valore della
cosa a lui appartiene. Esso appartiene pure ai lavoratori precedenti della cosa, a quelli che l'aveano
messa in istato di ricevere la sua ultima forma, la sua ultima perfezione, sia che essi abbiano
conservato i propri diritti, sia che, per trasmissione ereditaria, o per vendita o per dono, li abbiano
ceduti all'attuale proprietario.
È dunque il lavoro, il lavoro di già fatto, quello del quale il proprietario od il padrone fanno
l'anticipazione al colono o all'operaio, mettendo loro in mano la materia da trasformare. Questo
lavoro appartiene al proprietario, al padrone, ed esso deve entrare in conto, a loro profitto, quando si
tratterà di stabilire il valore dell'oggetto nel quale questo lavoro si è incorporato, e di far la
ripartizione degli utili che questo valore apporta.
È ancora il lavoro, il lavoro già fatto, che il padrone confida all'operaio, mettendogli in mano
l'utensile o la macchina che permetterà a costui di lavorare la materia da trasformare. La facilità, la
rapidità, la perfezione con cui l'oggetto sarà fatto, in grazia di questo utensile, in grazia di questa
macchina, altro non è che la traslazione in quest'oggetto del lavoro nell'utensile, nella macchina.
Questo lavoro appartiene al padrone; trasportato nell'opera, gli appartiene ancora, e lo si deve
aggiungere. a quello della sua intelligenza, della sua assiduità, del prezzo della materia fornita per
apprezzare la sua parte e per conseguenza il suo diritto.
La Démocratie chrétienne nel numero d'aprile 1901 faceva suo questo ragionamento del signor Ott
nel suo Traité d'Economie sociale: "Coi vostri sudori vi siete acquistato un istrumento di lavoro;
esso è vostra proprietà; niente di più giusto. Ve ne servite, l'adoperate e ne traete frutti novelli;
niente di più giusto ancora. Non siete affatto obbligati di prestarlo ad altri per restar colle mani in
mano. Ma ecco che voi o non potete o non volete farne più uso da voi stessi; voi siete in posizione
di rendere ad un altro, prestandolo, un servigio, che niente vi costa; e volete esigere un prezzo di
questo servigio! Il vostro capitale è improduttivo nelle vostre mani, e pretendete di prendere una
parte del prodotto che un altro ne ritrae col suo lavoro! Per prestargli uno strumento di lavoro, che a
voi niente giova, voi volete spogliato quest'altro d'una parte della sua proprietà, privarlo del suo
legittimo diritto sul prodotto che egli ha creato!"
Queste esclamazioni cadono assolutamente nel falso: "Voi pretendete rapire una parte del prodotto
che un altro ne ritrae dal suo lavoro! Voi volete spogliare un altro d'una parte della sua proprietà,
privarlo del suo legittimo diritto sul prodotto che ha creato!" Sembra veramente che le macchine
cadano dal cielo, come la pioggia, o nascano come i funghi, che nessuno vi abbia messo la mano, o
che questo lavoro non sia della specie dei lavori che creano, e per conseguenza producono. Non
volendo tenerne conto, siete voi che "pretendete di prendere una parte del prodotto che un'altro -
colui che ha fatto la macchina, o che ne ha il diritto - deve ritrarre dal suo lavoro". Siete voi "che
volete spogliare quest'altro della sua proprietà e del suo legittimo diritto".
Tali espressioni insinuano nella mente del popolo false idee e nel suo cuore ingiuste cupidigie; esse
eccitano gli sdegni degli uomini che si credono lesi nei loro diritti da coloro che dovrebbero
maggiormente rispettarli.
Il lavoro degli operai crea loro dei diritti, e crea pur dei doveri di giustizia. Questo non è una novità.
La giustizia è l'oggetto di uno dei comandamenti di Dio, ed una delle principali virtù della vita
cristiana. La Chiesa non ha aspettato la venuta in questo mondo della democrazia per predicare
questa virtù ed imporre questo comandamento. Essa l'ha fatto sotto pena di castighi, ed anche di
castighi eterni dell'inferno. I democratici non troveranno certo niente di più potente per persuaderne
la osservanza sì ai padroni come agli operai. Diciamo ai padroni ed agli operai, poiché se i padroni
sono tenuti per giustizia a rimunerare esattamente il lavoro da essi eseguito, gli operai sono
egualmente tenuti per giustizia a lavorare coscienziosamente.
Si parla poco nei giornali e nelle riviste democratiche dei doveri di giustizia, a cui gli operai sono
tenuti verso i padroni, ma assai dei loro diritti. Se almeno, parlandone, ci si tenesse sempre nella
verità.
È esagerare i doveri del padrone ed i diritti dell'operaio il dire che la giustizia esige che il salario
dell'impiegato abbia per regola non il valore del suo lavoro, ma i suoi bisogni e quelli della sua
famiglia.
Questa regola, in diritto, è radicalmente falsa. La giustizia è l'equivalenza, e l'equivalenza vuol dire
valore per valore. La giustizia richiede che il valore del salario sia corrispondente al valore del
lavoro, niente di più. E se il valore del lavoro non raggiunge le esigenze del bisogno spetta alla
carità non alla giustizia di colmare il deficit. Ciò è quanto la Chiesa ha sempre insegnato come la
stessa ragione; è ciò che i veri cristiani hanno sempre praticato. Dopo di aver dato il giusto salario,
come salario, vedendo che questo non era sufficiente, hanno ascoltata la voce del loro cuore di
cristiani ed hanno praticata la carità. Ma vi sono dei democratici che non vogliono sentir parlare di
carità, per le belle ragioni già note.
È egli possibile misconoscere la più sublime delle virtù cristiane a tal punto da dire che la sua
pratica ha per effetto d'ispirare l'umiliazione e per conseguenza l'odio nel cuor del povero, e
l'orgoglio e lo spirito di dominio nel cuor del ricco? La carità umilia! L'ammetto in quel modo che il
raggio del sole compie la corruzione del putridume. Rendete sano il cuor del povero, fatevi rientrare
il sentimento cristiano, e la carità non isveglierà nel suo animo che nobili sentimenti di riconoscenza
e di amore. E d'altra parte, l'ascendente che un atto di carità può dare non è necessario a colui che,
per la sua posizione, è chiamato a sollevare chi sta in basso?
Ripudiando la carità, i democratici rovinano fin dalla base l'ordine sociale cristiano, quale il divin
Salvatore l'ha stabilito. La giustizia non basterà mai ad unire gli uomini, a farli vivere in pace e
sopratutto a contentarli. Sempre saranno tentati a non ammettere altri limiti alla giustizia che è loro
dovuta se non quelli che essi stessi impongono ai desiderii del loro cuore. Ora i desiderii del cuore
umano sono infiniti. Tutte le sue cupidigie, dal momento che ricevono qualche soddisfazione,
divengono bisogni. Il diritto ed il dovere di giustizia cresceranno con essi ? Chi può negare che
l'operaio oggi soffra la privazione di cose, alle quali, cinquant'anni fa, punto non pensava? La carità
cresce con queste pretese, poiché la sua natura è di essere buona e compassionevole, ma questo non
è per nulla affare di giustizia.
Presentare al popolo come un diritto da esigersi per giustizia, il contentamento de' suoi bisogni. è
dapprima un ingannarlo, poi un promettergli quello che è affatto inattuabile. Ed allora quali ire si
accenderanno nella sua anima per l'impotenza di potergli dare quelle soddisfazioni che, mediante
questo linguaggio inesatto, egli sarà autorizzato a credere legittime?
Lasciamo alla giustizia la sua parte, che è assai grande, e benediciamo Dio d'aver creato la divina
carità per sopperire alla sua deficienza.(2)
Mentre la democrazia non parla agli uni che di diritti ed agli altri che di doveri, la Chiesa tiene a
tutti il medesimo linguaggio: a tutti ella predica il dovere; a tutti permette la rivendicazione del
diritto, al padrone come all'operaio, all'operaio come al padrone.
A tutti, ella predica il dovere, perché conosce il posto che l'egoismo tiene nel cuore dell'uomo
decaduto; ella conosce ch'esso chiude gli occhi sul dovere e ne trascura l'adempimento. Ella non
predica la rivendicazione dei diritti, perché sa che questo stesso egoismo anche troppo la proclama.
Nostro Signore ha raccomandato l'abbandono del diritto come una perfezione,(3) ma ne ha
permesso la rivendicazione, perché sta bene che la giustizia sia fatta.
Parlare di diritti alle diverse classi della società è come gettar olio sul fuoco. Parlar dei loro
reciproci doveri è un assicurare il rispetto di tutti i diritti.
Il dovere del padrone è di veder il suo fratello nell'operaio, e di amarlo come se stesso per amore di
Dio. Il dovere del dipendente è di vedere nel suo superiore l'autorità che gli viene da Dio, e di
comportarsi a suo riguardo, come lo richiede una tale investitura.
Il diritto del padrone è d'essere fedelmente servito, obbedito, rispettato, amato. Il diritto dell'operaio
è d'essere amato, rispettato, e di ricevere la sua mercede.
Così tutte le cose sono nell'ordine, e dall'ordine ne provengono pace e prosperità.
Il terzo fattore della ricchezza è l'interesse.
Si può dire del danaro prestato per l'acquisto del materiale necessario al lavoro, quello che fu detto
del materiale stesso. È lo stesso anche del lavoro, del lavoro cristallizzato, per così dire, che mette
colui che fornisce i danari necessarii sia nella costruzione degli opificii, sia per la compera delle
materie o degli utensili. Egli pure è un collaboratore, e non dei meno importanti: egli deve dunque,
come gli altri, ricevere la rimunerazione della sua collaborazione. La sua parte gli vien data sotto
forma d'interessi. Dire che il percepire questi interessi è un atto usuraio, è fare un delitto di ciò che
l'equità richiede.
Io ben so che la Chiesa ha interdetto finché ha potuto il prestito ad interesse. Ella fu saggia in questo
come in tutto il resto. Ella prevedeva le rovine a cui i popoli si sono esposti sforzandola a poco a
poco a tôrre questa interdizione, come la si sforza oggi a togliere a poco a poco la legge
dell'astinenza. Ma è un fatto che la legge che ha per sì lungo tempo governata la società cristiana,
oggi più non esiste, poiché i papi stessi hanno fatto dei prestiti. E se questa legge non esiste più,
vuol dire dunque che non era una legge naturale, ma una legge positiva che può essere abrogata col
consenso di chi l'ha introdotta. E trarre nell'errore il presentare come legge naturale l'interdizione
del prestito ad interesse, come lo fanno o mostrano di farlo i troppo zelanti democratici cristiani. Il
percepire un interesse non è in sé, non è mai stata l'usura propriamente detta, ma una mancanza di
obbedienza ad una legge in vigore. Oggi che questa legge è caduta, l'interesse abusivo, esagerato,
resta solo, e resta sempre peccato, perché per la sua esagerazione e pel suo abuso diviene
usuraio.(4)
Invece di attenuare il diritto di proprietà, i veri amici del popolo, se vogliono migliorare la loro
condizione, devono applicarsi ad ispirarne la stima ed il rispetto: la stima, per far nascere nel cuor
del proletario la volontà di formar intorno a sé, ed a suo profitto quello che Saint-Bonnet ha così
ben definito "l'atterrissement de la vertu";(4) il rispetto, facendogli comprendere che il capitale
accresciuto può solo far aumentare il salario normalmente e in modo durevole. Con maggior
capitale la stessa quantità di lavoro produce maggior ricchezza e la parte che ne deriva a ciascuno si
aumenta di altrettanto. Che si esamini in ogni senso la questione del miglioramento dello stato
materiale del maggior numero, essa rientrerà sempre in questo primo principio: aumento di capitale,
mediante il suo sviluppo nel padrone e suo acquisto per mezzo dell'operaio. Che si esamini in ogni
senso la questione dell'aumento o dell'acquisto della proprietà, essa rientrerà sempre in questo
secondo principio: formazione di capitale mediante la virtù di ciascuno e di tutti. Noi diciamo
"capitale" e non valori fittizii creati dall'aggio; questi si dissipano come sono venuti, e non
costituiscono propriamente un vero capitale.
Voler aumentare il salario a pregiudizio del capitale, come pretendono di far le leggi operaie, che
sono fabbricate per comparire popolari, da uomini che non conoscono né la natura dell'uomo, né le
leggi della società, né quelle della produzione, è, per ripigliare il paragone del bacino, dargli un
colpo sull'orlo ed aprire così un varco al fluido sociale verso il suolo deserto. Trarre un aumento di
salario da una diminuzione di capitale è uno scemare la potenza di questa forza prima e paralizzare
la produzione della ricchezza che, in sul nascere, sarebbesi ripartita fra gli operai. Ogni strappo
ingiusto sul capitale del padrone lo mette nella necessità di ridurre d'altrettanto le sue intraprese,
egli non ha più la stessa quantità di lavoro da far eseguire, e la somma dei salari, se non il salario
stesso, dopo un aumento fittizio, ricade necessariamente più basso di prima.
Note:
(1) Se i beni immobili sono comuni, in quanto all'uso tra il proprietario ed il locatario, come afferma
l'organo del pottierismo, che resta della proprietà se non il privilegio di pagar l'imposta fondiaria ed
i diritti di successione?
(2) Si è discusso molto, in questi ultimi tempi, intorno "alla giustizia sociale". Affinché il salario
vada d'accordo colla giustizia sociale, fu detto, deve essere sufficiente per permettere all'operaio
posto in condizioni normali, il possesso d'un focolare, i mezzi di allevare la sua famiglia secondo la
sua condizione, di risparmiare di che mantenersi nei giorni in cui non potrà guadagnare e di
permettergli l'ascensione professionale. Che si debba desiderare che il lavoro giunga ad essere
organizzato in modo che permetta al padrone di procurare un tal salario, niente di meglio. Ma finché
non esista questa organizzazione, non si può parlare di giustizia.
La giustizia non esige dal padrone un salario sproporzionato al valore attuale del lavoro. Essa non
esige neppure da uno Stato particolare che organizzi il lavoro in modo da rendere questo salario
possibile, poiché la concorrenza internazionale non glielo permette.
Perciò, né la filosofia, né la teologia hanno conosciuto questa parola di giustizia sociale. La giusta
parola sarebbe: Ideale sociale. Ideale e giustizia sono due cose molto distinte.
(3) Vedi il Vangelo secondo S. Matteo, cap. V, vers. 40, e la Ia Epist. ai Corinti, cap. VII, v. 7.
(4) Sul finire del XV secolo e al principio del XVI questa legge ricevette i primi colpi. La scoperta
dell'America dava un vigoroso impulso al commercio nel mentre la Riforma scuoteva le tradizioni. I
grandi affari non si poteano intraprendere senza i capitali, ai quali bisognava dare, dicevasi, una
rimunerazione. Ciò non ostante l'aggiotaggio, quando fece irruzione col sistema di Law, sollevò una
energica riprovazione.
L'aggiotaggio, disse d'Aguesseau, esercita su tutti gli animi una tentazione irresistibile; esso crea
una classe funesta "i giocatori di Borsa essendo persone oziose, sterili allo Stato o piuttosto dannose
alla società, in cui essi non servono che a far rincarire eccessivamente i frutti della natura e le opere
dell'arte, ed è una imprudenza da parte del potere introdurre un genere d'industria, che senza fatica e
senza lavoro, dà maggior ricchezza in un momento, che le vie naturali non ne darebbero in un anno,
e spesso anche in un secolo".
Rovesciamento dì fortune, progresso di lusso, aumento di spesa della vita, demoralizzazione, ecco i
risultati dell'aggiotaggio.
Oggi è scatenato, niente più lo trattiene. Il suo sviluppo è una delle prime cause del socialismo. La
ricchezza, acquistata senza lavoro e a detrimento del lavoro, solleva le passioni antisociali.
Si può vedere nel Manuel des Spéculateurs à la Bourse, di Prudhon, gli effetti disastrosi
dell'aggiotaggio sui costumi pubblici e privati.
(4) Sedimento, cioè il risultato della virtù nel campo dell'azione. (Nota del Traduttore).