I. - Fuggire le parole equivoche.
Non si fece quanto basta attenzione alla maniera onde gli uomini del male sono arrivati ad invadere
tutti gli accessi della società. La loro destrezza è infernale. Essa si è manifestata in ciò sopratutto
che hanno saputo impadronirsi del linguaggio prima d'impadronirsi delle scuole, degli ospedali, dei
palazzi di giustizia e ben tosto delle chiese.
Vi sono delle parole che hanno la virtù di affascinare le masse: libertà, eguaglianza!; altre di
spaventarle. Nell'ultimo secolo e nella prima metà di questo, il grande spauracchio era il gesuitismo.
Ai nostri giorni, è il clericalismo. Se la framassoneria dicesse cattolicismo, il popolo saprebbe che
non vi ha nulla da temere, che non deve aspettarsi altro che la continuazione dei benefizi prodigati
da ben diciotto secoli.
Ma no: clericalismo! "La distinzione tra il cattolicismo e il clericalismo - lo confessò il framassone
Courdavaux, professore alla facoltà di Douai - è puramente officiale, sottile, pei bisogni della
tribuna; ma in loggia e per la verità, il cattolicismo e il clericalismo non sono che una sola cosa".(1)
Un altro spauracchio che le masse atterrite guardano da lungi con l'orrore istintivo che i loro
sfruttatori hanno saputo ispirare, è la mano-morta. Con questa sola parola destramente usata, la
framassoneria potrà, quando giudicherà venuto il momento, dopo avere spogliate e sbandite le
congregazioni insegnanti, gettare sul lastrico milioni di vecchi, d'infermi, di orfani che la carità
cristiana mantiene.(2)
Alle parole spauracchi bisogna aggiungere le parole bricconi, che servono a spogliare la società
cristiana di tutto ciò che ha fatto la sua potenza e la sua gloria fino ad oggi. Laicizzazione invece di
scristianizzazione; secolarizzazione invece di separazione dell'ordine religioso dall'ordine civile,
nella famiglia e nella società; neutralità scolastica invece di insegnamento ateo; separazione della
Chiesa dallo Stato invece di ateismo nel governo e nelle leggi; denunzia del Concordato invece di
spogliazione della Chiesa; disaffettazione in luogo di confisca; leggi esistenti in luogo di decreti
arbitrari ed illegali; tolleranza invece di licenza accordata ai più funesti errori, ecc.(3)
È molto tempo che Pio IX ha indicato la terza cosa che dobbiamo fare, se pur vogliamo trovarci
pronti per la Rinnovazione che Dio, nella sua misericordia, può ancora offrirci. Egli diceva:
"Bisogna dare alle parole il loro vero significato".
Mons. Sonnois fece la stessa raccomandazione ai cattolici del Nord nella loro assemblea del
1894.(4)
Prima di loro Mons. Pie in una Istruzione pastorale sulle attuali sciagure della Francia (1871),
avea detto: "Nulla vi è a sperare da queste parole vaghe e vuote, da queste trivialità sonore, onde
furono coperti ed addormentati, nella loro culla o nel loro letto di morte, tutti i regimi scomparsi. È
tutta una collezione di parole, che non dicono più nulla, a forza di venir ripetute da tutti i diversi
partiti, i quali hanno loro fatto dire quello che ad essi piacque. Un pensatore dei primi anni di questo
secolo ne dimandava già l'espulsione dal vocabolario degli uomini serî. "Queste sono - egli diceva -
espressioni di doppio significato, in cui le passioni trovano dapprima un significato chiaro e preciso,
sul quale la ragione si sforza invano di farle ritornare per mezzo di tardive spiegazioni; le passioni si
attengono al testo e rigettano il commento".(5) Ahimè! anche fra le persone dabbene, molti dei
nostri contemporanei furono tocchi, se non abbattuti, dal cattivo vento del loro secolo; spiriti troppo
sprovvisti di dottrina, o troppo impazienti di successo, per opporre una forte resistenza alle opinioni
dominanti. Ora, chiunque è tocco da questa debolezza non apparterrà mai alla razza degli uomini
pei quali la salute può essere operata in Israele".
Adunque, tutti quelli che vogliono preparare la via alla Rinnovazione, devono, fin d'ora, sforzarsi di
rimediare alla debolezza intellettuale prodotta dalle trivialità sonore, di cui le passioni sovversive
hanno tanto abusato; essi devono cessare oggimai di far uso di queste espressioni vaghe e vuote;
quali sono: libertà, democrazia, ecc.,(6) che non dicono più niente a forza d'essere state usate da
tutti i diversi partiti, che ne profittarono a lor piacimento. Chi può credere, per esempio, che la
parola democrazia, nella bocca d'Harmel, significhi la medesima cosa che nella bocca di Combes?
Il popolo, che entrambi li ascolta, può egli capire che seguendo Combes si allontana da Harmel, o
che seguendo Harmel si allontana da Combes?
Non è soltanto dal santuario che ci viene l'esortazione di ripudiare questi termini e di non adoperare
le parole che nel loro vero senso. Mons. Pie ci ha fatto intendere de Bonald; Le Play non è meno
stringente. Nella sua opera La Constitution de l'Angleterre dice: "Gli scrittori dell'Occidente devono
compiere un dovere molto importante: essi devono interdirsi l'uso di molte parole che guastano
oggidì la lingua. In vero, queste parole, in riguardo alla loro rispettabile apparenza, ed alla buona
impressione che producono dapprima sugli animi, sono adoperate nel senso contrario alla ragione
ed alle tradizioni del linguaggio per accreditare, le idee false, inspirate dalla passione, dal vizio e
dall'errore. In questo genere di aberrazione, gli scrittori francesi hanno davanti a loro due serie di
ostacoli (da riformare o da rinnovare), cioè: le parole libertà, eguaglianza, democrazia,
aristocrazia, ecc., allontanate dal senso legittimo che aveano fin dal tempo di Descartes; le parole:
nazionalità, liberalismo, civiltà, spirito moderno, progresso (con un senso assoluto), ecc., inventate
dopo il secolo XVIII".(7)
Le Play deplorava che le classi oneste ed illuminate non tentassero che raramente di ricondurre le
parole al loro vero senso, e che l'uso che ne fanno venisse anzi ad aggravare il male. Egli
aggiungeva: "L'intervento di qualche eminente scrittore basterebbe per iscreditare questa letteratura
rivoluzionaria, ed arresterebbe le persone dabbene sul pendio pericoloso in cui sdrucciolano. Esso
renderebbe prontamente allo spirito francese l'attitudine della quale i nostri amici si compiacciono
di tener conto". Le Play faceva qui, senza dubbio, allusione ad una lettera ricevuta dall'Inghilterra in
cui si ammirava "l'elasticità dello spirito francese".
De Ségur-Lamoignon, nel numero del luglio 1894 dell'Association catholique, diceva altresì: "L'uso
ripetuto di queste parole: democrazia, eguaglianza, se non l'abuso, sembra di tal natura da far
sorgere falsi giudizi, timori o speranze chimeriche, secondo l'interpretazione che se ne vuoi dare, e
secondo gl'individui che se ne prevalgono. In tale materia il linguaggio deve essere d'una precisione
assoluta, per evitare malintesi e risparmiare ogni illusione al pubblico sì dissimile che ci ascolta".
Più recentemente e poco prima della sua morte Ollé-Laprune ha fatto agli oratori ed agli scrittori
onesti lo stesso invito. Un giorno che leggeva il libro del P. Gruber, intitolato Auguste Comte,
scriveva questa nota: "Io dico sovente a me stesso e, data l'occasione, dico agli altri che in mezzo
all'anarchia intellettuale in cui viviamo, uno dei principali rimedi, all'immensa divisione di spiriti,
sarebbe che tutti i pensatori e gli oratori prendessero la ferma risoluzione di non parlar mai di
checchessia se non da senno. Vi sono delle idee correnti, forse direi meglio formole e frasi che
dovunque si trovano, dappertutto accettate senza controllo ... Qual servizio si renderebbe agli animi
diminuendo il numero di queste parole vaghe!".
Le Play assai bene osservò l'effetto paralizzante delle idee vaghe: "L'abuso incessante delle parole
non bene definite getta gli animi nostri in uno stato di vergognosa inerzia". Ed altrove: "Questa
fraseologia addormenta in qualche modo gli animi nell'errore, e rimanda ad un tempo indeterminato
la riforma".(8) Quando ci saremo sbarazzati di questa fraseologia che abbrutisce, riprenderemo
possesso delle nostre facoltà intellettuali".(9) Carlo de Ribbes ha pur detto: "La verità solamente
rialzerà la Francia, e perché questa verità produca il suo effetto rigeneratore, la nobile lingua
francese anch'essa dovrà essere restaurata".(10)
II. - Ripudiare la fraseologia seduttrice.
L'azione esercitata sulla gioventù da coloro che la istruiscono o che l'avvicinano, tanto
raccomandata dall'Alta Vendita, contribuisce sicuramente in gran parte alla corruzione delle idee
nella società cristiana. L'impressione ricevuta nei primi giorni della vita, difficilmente si cancella, e
l'uomo conserva generalmente nell'età matura i pregiudizi che per i primi han preso possesso della
sua intelligenza. Ma la corruzione degli animi mediante la fraseologia rivoluzionaria non è meno
efficace, perché colpisce tutte le età e tutte le condizioni in una maniera sì continua e sì astuta che
ben pochi pensano di mettersi in guardia od hanno la forza di schermirsene.
"È questa un'arte molto coltivata al nostro tempo", dice Le Play. I nostri Massoni la ricevono dal
loro maestro G. G. Rousseau. De Maistre ha detto di lui: "Tutto quello che era oscuro, tutto quello
che non presentava alcun senso determinato, tutto quello che si prestava alle divagazioni ed agli
equivoci, era sua proprietà particolare".(11) - "Malgrado gl'insegnamenti dati dalla ragione e
l'evidenza prodotta dalle nostre catastrofi, questa stupida fraseologia fornisce un giornaliero
alimento alle tendenze rivoluzionarie incarnate nella nostra razza. Sotto questa influenza, penetrano
sempre più, negli strati inferiori della società, il disprezzo della legge di Dio, l'odio delle superiorità
sociali, e lo spirito di rivolta contro ogni autorità".(12)
Mazzini non pensava diversamente da Le Play su questo punto. In riguardo a Lubienski, egli
diceva: "Le discussioni sapienti non sono né necessarie né opportune. Vi sono delle parole
rigeneratrici (13) che contengono tutto ciò che è mestieri ripeter sovente al popolo: libertà, diritti
dell'uomo, progresso, eguaglianza, fraternità. Ecco ciò che il popolo comprenderà, specialmente
quando si opporranno le parole dispotismo, privilegi, tirannide, ecc.".
Il senso pieno delle parole: libertà, eguaglianza, progresso, spirito moderno, scienza moderna, ecc.,
che incessantemente fan capolino nei discorsi e negli articoli dei politici, nella professione di fede
dei candidati, è rivoluzione, distruzione dell'ordine sociale, ritorno allo stato della natura per mezzo
della distruzione di ogni autorità che limita la libertà, la distruzione di ogni gerarchia. che rompe
l'eguaglianza e stabilisce mediante la fraternità un ordine di cose in cui tutti i diritti e tutti i beni
saranno comuni. Gli iniziati pronunciando queste parole sanno che esprimono tutto un programma
contro la legge di Dio e de' suoi rappresentanti sulla terra, che esprimono il concetto dello stato
sociale di cui G. G. Rousseau ha dato la formula. Gli altri, ripetendole dopo di loro, scioccamente,
preparano ad accettare questo stato di cose coloro che la framassoneria non potrebbe colpire
direttamente.(14)
Quello che si chiamò "il brindisi alla palla", cioè l'indirizzo presentato da Felice Pyat alla palla che
uccise Vittorio Noir,(15) mette in piena luce ciò che le società segrete aspettano dalla circolazione
della fraseologia massonica:
"In nome della Francia schiacciata dalle caserme, dai conventi, dalle prigioni, talmente oppressa
sotto questo triplice peso che non può più muoversi, piccola palla della Repubblica, liberaci!
"In nome dell'Italia che fa sentire il rantolo dell'agonia sotto l'amuleto e lo scoppietto, sotto i
vescovi ed i briganti, piccola palla della democrazia, liberaci!
"In nome della Polonia trascinata dalla coda d'un cavallo cosacco, piccola palla della nazionalità,
liberaci!
"In nome dell'Europa intera, preda di cinque tiranni viventi, piccola palla del buon soccorso, rendi
la sovranità ai popoli, i diritti all'uomo, i diritti ed i doveri, ed il più santo di tutti (l'insurrezione).
Rendici coraggio e coscienza! Rendici libertà, eguaglianza, fraternità, invece di baionetta,
ghigliottina e chassepot.
"Piccola palla dell'umanità, liberaci!".
Tutte queste parole: repubblica e democrazia, nazionalità ed umanità, libertà, eguaglianza e
fraternità, diritti dell'uomo e sovranità dei popoli, lanciate all'orecchio delle moltitudini, sono
dunque nel pensiero della setta che le mise in moto, tante palle destinate ad uccidere "i vescovi ed i
briganti", cioè l'autorità spirituale e l'autorità temporale; a demolire "le prigioni, le caserme ed i
conventi", cioè abbandonare la società alla più perfetta anarchia e al più abbietto materialismo.
Come si può spiegare che dei cattolici sinceri adottino tali parole, ne facciano anch'essi il grido di
raccolta, le avvolgano in frasi ad effetto, e sperino in tal guisa, come essi dicono, di ricondurre il
regno sociale di nostro Signor Gesù Cristo?!!
Non havvi alcun dubbio, essere la suprema direzione della framassoneria che fa la scelta di queste
parole, che le lancia ed incarica i suoi adepti a propagarle
"Noi incominciamo - aveano detto le Istruzioni segrete - a mettere in circolazione i principii
umanitari". Riforme, miglioramenti e progresso; e, ben presto, repubblica fraterna, armonia
dell'umanità, rigenerazione universale; tutte queste parole ingannevoli si leggono nelle Istruzioni.
Piccolo Tigre le fa seguire da queste: "La felicità dell'uguaglianza sociale" ed "i grandi principii di
libertà". Nubius aggiunge: "L'ingiusta ripartizione dei beni e degli onori". Abbiamo udito Gaetano
che rallegravasi nel vedere il mondo slanciato sulla via della democrazia.
Nel resoconto del III congresso delle Loggie dell'Est, a Nancy, nel 1882, si legge: "Negli ultimi
gradi (i più alti nella gerarchia massonica) si condensa un lavorìo massonico internazionale d'una
grandissima profondità. Non sarebbe da queste sommità che ci vengono le parole misteriose, le
quali, partite non si sa d'onde, attraversano talora le turbe, in mezzo ad un gran fremito e le
sollevano pel bene (!) dell'umanità?".
È da notare che la massoneria si è servita della lingua francese per coniare le sue formole
rivoluzionarie. Questo non è sfuggito a de Maistre che ha conosciuto sì bene la potenza misteriosa
della nostra lingua. Nella terza delle Lettres d'un Royaliste savoisien à ses compatriotes, nei giorni
della Rivoluzione, egli disse: "L'impero di questa lingua non può essere contestato. Questo impero
non è mai stato più evidente, e non sarà mai più fatale che nel momento presente. Un opuscolo
tedesco, inglese, italiano, ecc., sui Droits de l'homme divertirebbe tutt'al più qualche cameriere di
paese; scritto in francese in un batter d'occhio metterà sossopra tutte le forze dell'universo".(16)
Quante perfide formole furono create da due secoli! Sotto il regno del Filosofismo furono
"tolleranza" e "superstizione" che passarono di bocca in bocca; sotto quello del Terrore "fanatismo"
e "ragione"; sotto la Restaurazione "antico regime", "decima", "privilegi"; sotto il secondo impero
"il progresso"; al tempo della recente persecuzione in Germania il "Kulturkampf"; in Francia nel 16
maggio "il governo dei parroci". Oggi le parole più in voga sono col "clericalismo",(17) la
"scienza", la "democrazia" e la "solidarietà"; la scienza contro la fede, la democrazia contro ogni
gerarchia religiosa, sociale e familiare, la solidarietà dei plebei contro tutti coloro che impediscono
il libero godimento dei beni di questo mondo, ricchi che li possedono e preti che ne interdiscono
l'ingiusta cupidigia; solidarietà quindi di tutti i popoli che, da un punto all'altro del mondo, devono
vicendevolmente aiutarsi per rompere il triplice giogo della proprietà, dell'autorità e della religione.
Al disopra di tutte queste parole campeggiano da un secolo queste voci: "Libertà, eguaglianza,
fraternità". La setta le fa risuonar dovunque, ed ottenne di farle inscrivere sui pubblici edifizi, sulle
monete, su tutti gli atti dell'autorità legislativa e civile. "Questa forma - dice il Fr... Malapert, in uno
de' suoi discorsi alle Logge(18) - fu precisata verso la metà dell'ultimo secolo (XVIII) da Saint-
Martin (fondatore dell'Illuminismo francese). Tutte le officine l'hanno accettata, ed i grandi uomini
della Rivoluzione ne fecero la divisa della Repubblica francese".
"Libertà, eguaglianza, fraternità, queste tre parole disposte in quest'ordine - dice ancora il Fr...
Malapert - indicano quello che deve essere una società ben regolata", quello che sarà, quando il
contratto sociale sarà giunto alle sue ultime conseguenze ed avrà arrecato i suoi ultimi frutti. Noi
vedemmo i frutti che Weishaupt ed i suoi pretendevano trarre da questa formula. Innanzi tutto
l'abolizione della religione e di ogni autorità civile, poi l'abolizione di ogni gerarchia sociale e di
ogni proprietà.
Ecco ciò che queste tre grandi parole dicono agli iniziati, ecco ciò ch'essi hanno nel pensiero ed a
che vogliono farci arrivare. Essi hanno fatto adottar le parole; per mezzo delle parole insinuano le
idee, e le idee preparano la via ai fatti. Non è dunque da stupire se, alla loro ammissione nelle
Vendite, i postulanti al Carbonarismo devono dire, nel giuramento che sono obbligati di prestare:
"Io giuro di adoperare tutti i momenti della mia esistenza a far trionfare i principii di libertà, di
eguaglianza, di odio alla tirannide che sono l'anima di tutte le azioni segrete e pubbliche della
Carbonara. Io prometto di propagar l'amore dell'eguaglianza in tutti gli animi sui quali mi sarà
possibile di esercitare qualche ascendente. Prometto, se non è possibile di ristabilire il regno della
libertà senza combattere, di farlo fino alla morte".(19) Ecco ben indicato il dovere, e tracciate le
tappe per compierlo intieramente: diffondere le parole, propagare le idee, far trionfare la cosa,
pacificamente, se è possibile, se no con una guerra a morte.
Non è soltanto fra le classi degradate, ignoranti o sofferenti che questa fraseologia esercita le sue
rovine. Essa mette egualmente le vertigini alle classi superiori della società, ciò che la setta giudica
ben più vantaggioso pel fine che si propone di conseguire. Grazie alla confusione delle idee da essa
introdotte negli spiriti, regna al presente nelle classi che son chiamate per la loro posizione a dare
alla società il suo indirizzo, la più deplorevole divergenza di vedute, la più perfetta anarchia
intellettuale.
Siamo ritornati alla confusione di Babele, tutte le idee sono turbate e, in questo turbamento, molti
cristiani sono trascinati assai facilmente nella china degli errori massonici. Non si diffida di queste
correnti, ci si abbandona alle loro onde con tranquillità, e ciò perché la maggior parte delle parole
che ci trascinano possono servire ad esprimere idee cristiane, come si prestano ad esprimere idee le
più opposte allo spirito del cristianesimo. Le Play ne ha fatto l'osservazione. "Nessuna formula
composta di parole definite potrebbe soddisfare ad un tempo, e quelli che credono in Dio, e quelli
che considerano questa credenza come il principio di tutte le degradazioni; ma quello che è difficile
di ottenere con una disposizione di parole definite, diventa facile con parole vaghe, le quali
comportano, secondo la disposizione d'animo di quelli che le leggono o le ascoltano, un senso
assolutamente opposto".(20)
Un esempio metterà ciò in chiaro. Fra le parole oggi in voga, non ve ne ha alcuna di cui si faccia più
frequente e pernicioso uso che quella di "libertà". Essa è a due faccie, cristiana insieme e
massonica.
"La libertà - disse Leone XIII - è un bene, bene eccellente e proprio esclusivamente degli esseri
forniti d'intelligenza e di ragione". L'intelligenza dà loro la conoscenza dei propri fini, la ragione fa
loro scoprire i mezzi per conseguirli, e il libero arbitrio loro permette di scegliere quei mezzi che
meglio convengono e di impiegarli per raggiungere lo scopo che si propongono. Se tutti gli uomini
vedessero e ponessero il loro fine ultimo là dov'è, reclamando la libertà, tutti intenderebbero
dimandare che la via sia largamente aperta per arrivare al Sommo Bene, non sia chiusa da alcuna
pietra d'inciampo e che essi medesimi non siano impediti nella loro ascensione verso Dio. Ma chi
non sa che i fini che si propongono gli uomini sono senza numero, tanto diversi quanto diversi sono
gli oggetti delle loro passioni! Di guisa che il grido "Libertà" può uscire ad un tempo dal cuore dei
più gran santi, come dei più grandi scellerati, e, chiedendola ad una voce, sembrano desiderare una
stessa cosa. Realmente essi vogliono cose così diverse ed anche così opposte come sono opposti, da
una parte, gl'infiniti gradi che portano l'uomo alla più alta virtù, e dall'altra, i gradi non meno
numerosi che lo fanno discendere nella più funesta corruzione.
La santa Chiesa dimanda la libertà nelle orazioni che innalza a Dio nel santo sacrificio della Messa:
Ut destructis adversitatibus et erroribus universis secura tibi serviat Libertate: la libertà di servire
Dio senza essere impediti né dalla malignità né dall'errore. Quanto differente è quella che le turbe
reclamano! A questo grido "Libertà" il fanciullo indocile, il servo orgoglioso sentono sorgere nel
loro cuore il desiderio dell'indipendenza dai genitori e dai padroni; gli sposi infedeli vedono
spuntare il giorno in cui il loro nodo coniugale sarà disciolto; il cattivo soggetto aspira ad uno stato
politico e sociale in cui la coercizione del male non esisterà più. Questo grido abbraccia tutte le
ribellioni, desta tutte le cupidigie. Il cristiano stesso sente a questo grido che il giogo del Signore gli
diviene più pesante, perché la concupiscenza originale non è interamente estinta nel cuor di
nessuno, ed ogni uomo è, più o meno, amico, nel suo fondo perverso, della libertà perniciosa. Per
tutti il grido di "Libertà" ha un fascino malsano, quello che il padre della menzogna mise all'origine
delle cose, nella sua prima tentazione: Dii eritis! voi sarete dèi, sarete i padroni di voi stessi, non
dipenderete più da alcuno. E siccome l'indipendenza non esiste in nessun luogo, questo grido
diventa dovunque un invito alla rivolta, rivolta degli inferiori contro l'autorità, dei poveri contro la
proprietà, degli sposi contro il matrimonio, degli uomini contro il decalogo, della natura umana
contro Dio.
Si comprende come la setta che vuol tutto distruggere abbia preso questa parola come il più potente
istrumento di demolizione che potesse avere. Con questa fa chiedere dalle moltitudini, consacrare
dalle leggi, stabilire nelle istituzioni i più efficaci dissolventi dell'ordine sociale. È la libertà di
coscienza o l'indipendenza di ciascuno rispetto a Dio; è la libertà dei culti, la separazione della
Chiesa dallo Stato, la neutralità della laicizzazione, tutte cose le quali spezzano i legami che
uniscono l'uomo e la società a nostro Signore Gesù Cristo ed alla sua Chiesa; è la sovranità del
popolo, cioè l'indipendenza del popolo dalle autorità civili e sociali; è il divorzio e certe
disposizioni del Codice civile che introducono la "stessa anarchia nella famiglia. Infine, per
ispingere a tutte queste ribellioni, per far ottenere tutte queste indipendenze, la libertà della stampa
che lavora tutti i giorni a corrompere nell'intelligenza la nozione della vera libertà e ad insinuare nei
cuori l'amore ed il desiderio di libertà perverse.
Se i cattolici uniscono le loro voci a quelle di tutti i ribelli per reclamare anch'essi la libertà
semplicemente, e non questa o quella libertà determinata, e, prima d'ogni altra, la libertà per le
anime di non essere impedite nel cammino verso Dio, mostreranno di reclamare quello che
vogliono i rivoluzionari e li aiuteranno ad ottenere ora una prima licenza, ora una seconda più
malvagia, e così via via. Questi incoraggiati dai loro primi successi, non cesseranno di esigere e
quelli di cedere e di concedere trascinati dalle loro prime concessioni, ed anche per non sembrare di
rinnegare l'idolo che hanno invocato essi medesimi. Non è questa la storia di tutti i giorni?
L'esperienza ci insegna ancora che la setta non si tien paga di queste conquiste. Dopo di aver
ottenuto d'inserire nelle leggi queste libertà malvagie, funeste agli individui che ne rimangono
avvelenati ed alla società che infestano colla loro corruzione, non le basta che abbiano la facoltà di
farne uso quelli che lo vogliono, ma arriva ad imporle a quegli stessi che non vogliono saperne e
che anzi lottano contro di esse.
Nell'ordine civile al grido di "Libertà" essa rovescia le autorità legittime e tutelari, e regala ai popoli
una sovranità derisoria, che vela a mala pena il dispotismo delle Logge.
Nell'ordine religioso, per proteggere la libertà di coscienza, che consiste nel non aver né fede né
legge, assoggetta il fanciullo alla scuola neutra, e per tal modo lo tiene nell'ignoranza de' suoi eterni
destini. Essa impone la laicizzazione degli ospedali, la laicizzazione dell'esercito, quella di tutti i
servizi pubblici nell'intento di allontanare dal maggior numero la facilità di raggiungere l'ultimo
fine, o almeno quella di praticare i doveri della vita cristiana; rompe per quanto sta in essa i voti di
religione ed impedisce anche di formarli sotto il bel pretesto che incatenano la libertà. Sotto
l'apparenza di rispettare la libertà dei culti, si oppone ad ogni manifestazione religiosa, abbatte le
croci, ben presto demolirà le chiese, come già fece un secolo fa. In una parola essa restringe da tutti
i lati la vera libertà, la sola assolutamente necessaria, quella cioè di poter andare a Dio e di
raggiungere il Sommo Bene.
Affascinati dalle parole, si trovano dei cristiani che si prestano a tutte queste tirannie. In nome del
Progresso, della Civiltà, del Diritto nuovo la setta fa reclamare da' suoi giornali, dalle associazioni
che essa ispira, da quelle in cui tiene dei confidenti l'abolizione di questa o di quella istituzione, o lo
stabilimento di un'altra. Chi oserebbe opporsi al progresso ed alla civiltà? Per timore di comparire
retrogradi, cattolici, al Parlamento, nei Consigli dipartimentali o comunali, votano provvedimenti
contrari alla loro propria maniera d'essere e di pensare, provvedimenti che tiranneggeranno essi
medesimi mentre tiranneggiano i loro fratelli.
In una delle sue estasi, l'apostolo S. Giovanni vide tutti i popoli seguire stupefatti la Bestia a cui il
Dragone diede la sua potenza ed il suo trono. Essa aprì una bocca da cui uscivano parole che
parevano dire grandi cose: Datum est ei os loqueus magna. In realtà, erano bestemmie contro Dio,
contro il suo tabernacolo e contro coloro che abitano il cielo della Chiesa: Blasphemias ad Deum et
tabernaculum eius et eos qui in Coelo habitant.(21)
Queste magniloquenti parole noi le sentiamo, e sappiamo quale strana seduzione esercitino sulle
moltitudini. Sono veramente nel significato che loro è dato dalla Bestia, bestemmie che portano la
morte nelle anime, che scalzano i fondamenti della società civile e religiosa e che vogliono
distruggere il regno di Dio sopra le sue creature.
Il colmo dell'astuzia spiegata dalla Bestia e dal Dragone, - cioè dalla Massoneria e da Satana, - il
loro trionfo è di far credere e di far dire che queste parole le hanno prese nel Vangelo, e che, per
mezzo di esse, vogliono condurre nella società il regno di nostro Signore Gesù Cristo.
"Quello che vi ha di più funesto per il popolo dopo la Rivoluzione - disse Saint-Bonnet - è il
linguaggio che essa ha creato. Quello che vi è di più formidabile, secondo i rivoluzionari, sono gli
uomini che adoperano questo linguaggio, le cui parole sono altrettante sementi per la Rivoluzione".
"La Francia è troppo ammalata - prosegue il filosofo cristiano; - non continuiamo a propinarle tutti i
giorni del veleno. Da un secolo in qua gli oratori la saziano d'idee complesse ed ambigue allo scopo
di dominarla. Profittando del senso vero che queste idee contengono, essi le diffondono sopra una
moltitudine che non le prende se non nel senso nocivo e falso. Chi scioglierà le pieghe della
menzogna onde il popolo è inviluppato?
"Non gettiamo più in mezzo alle turbe termini di cui non si spiega loro il senso teologico e vero.
Essi non cessano di ingenerare le idee che mettono le masse in bollimento e le allontanano dai
doveri della vita. Così con due o tre parole: Patria, onore e gloria, Bonaparte trascinò per vent'anni
la Francia a distruggere le patrie, a disonorarsi colle sue ingiuste aggressioni, infine a coprirsi, non
di gloria, ma di sangue. I liberali han ricevuto tutto da quest'uomo. In mancanza delle risorse che
egli avea, s'impossessano di espressioni capaci di sollevare i popoli: e queste sono per essi tanti
mezzi per acquistare la popolarità, e quindi tanti strumenti di dominazione.
"Se noi vogliamo servire il nostro paese, dobbiamo tenere un altro linguaggio. Se vogliamo venire
in aiuto della Francia, invece di sfruttare le sue disgrazie, e di togliere qualche lembo alle sue
spoglie, lasciamo queste espressioni a doppio senso, che dilatano le sue ferite. Rigettare fieramente
il linguaggio sleale; ecco oggimai a qual segno si riconoscerà l'uomo di cuore.
"O Francia! tu saprai che questo ti viene da uomini di cuore, quando si cesserà di adularti e di
adoperare degli equivoci".(22)
III. - Dire il vero in ogni cosa.
Quei democratici cristiani che vogliono fare scuola, che si sforzano di costituire un partito nella
Chiesa, non si tengono paghi di far proprie, le parole equivoche create dalla massoneria, e d'usar
quella fraseologia che perturba gli spiriti ed accende le passioni, ma troppo spesso si sono visti
allontanarsi dal vero.
È un allontanarsi dal vero il far dire agli atti pontificii quello che non dicono.
Noi crediamo che le parole: "miseria immeritata" tante volte ripetute dai democratici cristiani,
oltrepassino il pensiero che il Sommo Pontefice ha voluto esprimere, come risulta dal testo latino:
Utcumque sit, plane videmus, quod consentiunt universi, infimae sortis hominibus celeriter esse
atque opportune consulendum, cum pars maxima in misera calamitosaque fortuna indigne
versentur, - così tradotto: "Checché ne sia, noi siamo persuasi, e tutti ne convengono, essere
necessario di venir senza indugio con efficaci provvedimenti in aiuto agli uomini dell'infima classe,
i quali per la maggior parte trovansi ridotti in condizioni d'infelicità e di miseria immeritata.
Egli è difficile, nella versione di un documento così lungo e che tratta materie così delicate, ottenere
che il valore della parola francese sia sempre adeguato al valore della parola latina corrispondente.
Il traduttore può lasciarsi sorprendere e far dire ad una espressione, più di quello che naturalmente
significa. È quello, ci sembra, che qui avviene nel tradurre la parola indigne per immeritata.
Quante volte nelle riunioni di operai e nelle pubblicazioni che loro sono indirizzate, non si è preteso
di essere autorizzati dal Sommo Pontefice a dir loro, e persuaderli che sono nella miseria e che
questa miseria è l'effetto dell'ingiustizia dei padroni ?
In primo luogo, non è certo che nella frase che noi abbiamo citata, il Papa voglia parlare degli
operai. - Egli disse: Infirmae sortis hominibus, la classe infima. La classe che tiene l'infimo posto
non è la classe operaia. Vi sono al disotto di essa i fannulloni e i vagabondi, gli uomini che vivono
non lavorando, ma mendicando. Quando il Papa vuol parlare degli operai, lo dice chiaramente.
Nella frase che è più sotto, egli li chiama col loro nome: opifices; nella frase che sta di sopra, li
designa colle parole: qui operam conferant. Di più, se si trattasse qui di operai, non sarebbe esatto il
dire: "Noi lo vediamo chiaramente, e tutti ne convengono, che la grandissima maggioranza versa in
una miseria ed infelicità piena di patimenti". Non si può dire degli operai, almeno nelle nostre
contrade, che la miseria è sì generale e sì evidente che tutti ne convengano. Ognuno può vedere,
entro la propria cerchia, operai che vivono comodamente, mantengono la propria famiglia, trovano
mezzi di poter risparmiare, e finiscono coll'uscire dalla loro condizione.
Vi sono, è vero, ed in gran numero, nella presente nostra società, dei miseri la cui vita è una lunga
sofferenza, ma non sono generalmente operai che lavorano, sibbene quelli che son caduti nel
pauperismo. Che l'industria, come venne esercitata da molti padroni, come si esercita ancora,
quantunque da un minor numero, sia stata la gran causa di questa piaga del pauperismo,(23) che la
società cristiana non aveva fin qui conosciuto, è cosa evidente. Ed è per questo che il nostro Santo
Padre in una Enciclica sulla condizione degli operai ha potuto e dovuto parlarne e dire: bisogna
recare pronti ed efficaci rimedi a questa piaga.
Ma ciò non autorizza a dire al primo che capita, che gli operai in massa sono nella miseria, che la
loro miseria è immeritata. Affermar questo, vi è gran pericolo.
Dite ad una categoria di uomini, ch'essi sono nella miseria, non faranno fatica a persuadersene,
sopratutto se voi vi farete forti dell'autorità della parola apostolica. Essi volgeranno lo sguardo su
quelli che sono al di sopra di loro, e conteranno per miseria la mancanza del superfluo che altri
possono godere.
Dite che questo stato di miseria è immeritato, che è il risultato dell'ingiustizia, e che
quest'ingiustizia è l'opera di altri uomini, di coloro che dovrebbero avere per essi sentimenti più
umani, sentimenti paterni, e voi accenderete lo spirito d'odio e di vendetta nei cuori, voi renderete
anticipatamente legittima la guerra sociale. "Non ci vuol tanto per sollevare una rivoluzione -
osserva de Saint-Bonnet - basta una chiara parola. Gli uomini sono infelici; dite loro che in mezzo
ad essi vi ha degli uomini che ne sono la causa".
Non ignoro che si commettano delle ingiustizie nel mondo padronale. La natura umana non sarebbe
più quella che è, se non ve ne fossero. Che molti padroni abbiano abusato in questo secolo
dell'abolizione delle garanzie che gli operai trovavano nelle antiche corporazioni distrutte dalla
Rivoluzione, e dalla mancanza di coscienza che la irreligione loro permetteva, non è meno certo.
Che questi egoisti, per cupidigia abbiano messo in egual pericolo la sanità, la fede, la morale di
quelli che chiamavano nelle loro officine, è vero ancora; ma questo disordine, questo delitto non è
mai stato comune a tutti; e da vent'anni e più, quanti padroni, almeno qui da noi, compiono il loro
dovere. Vi sono di quelli che per creare delle Casse di pensione pei loro operai hanno preso degli
impegni sì onerosi, che non li possono mantenere, ora che gli affari sono in ribasso, senza correre
alla rovina.
E, cosa incredibile, si parla di "miseria immeritata" indirizzandosi agli operai di padroni cristiani, -
poiché sono quelli che gli abati democratici riuniscono intorno a loro; sono questi padroni, - i quali
sicuramente fanno pei loro operai più degli altri, - che sono incriminati, è contro di essi che la
democrazia cristiana lancia le sue invettive; mai o raramente contro gli altri.
Ed un altro pericolo di questa parola che non sempre si è evitato, è quello di uscire dalla ortodossia.
Si stabilisce per principio, come la Vie catholique lo faceva nel suo Programma, il 21 novembre
1900, che: "ogni uomo ha legittimamente diritto al benessere", e se ne trae questa conseguenza: che
ogni mancanza di benessere è una ingiustizia, che è la miseria, ed una "miseria immeritata". Non si
può dire di verun male temporale, qualunque esso sia, e - qualunque ne sia la causa seconda, uomini
od elementi, che sia in chi lo soffre una pena immeritata, una ingiustizia, la violazione del diritto
legittimo al benessere.
Se noi abbiamo diritto al benessere, è su Dio che ricade l'accusa d'ingiustizia, poiché egli permette
la malattia, e tante altre cause di miseria. Ogni uomo è peccatore, e nessuna miseria quaggiù è
adeguata al castigo dovuto al peccato. È ciò che non manca di dire Leone XIII in questa stessa
Enciclica: "Le calamità non avranno quaggiù né fine, né tregua, perché i funesti frutti del peccato
sono amari, aspri, acerbi, ed accompagnano necessariamente l'uomo fino all'ultimo anelito".
Ecco ciò che i cristiani non dovrebbero mai perdere di mira, sopratutto quando parlano al popolo
delle sue sofferenze. Il patire non è cosa propria solamente degli operai, ma è la sorte inevitabile di
ogni uomo nato nella colpa. Senza dubbio, questa sorte non è eguale per tutti, ma sarebbe una
crudele illusione di farlo apparire alle persone del popolo come un peso che gravita unicamente
sulle loro spalle, e di opporre i ricchi "felici" ai poveri "infelici". La sventura visita del pari questi e
quelli; riesce anzi più penosa ai primi che ai secondi, perché la loro sensibilità è più sviluppata; e gli
uni come gli altri possono trovare il coraggio per sopportarla, la consolazione che ne addolcisce
l'amarezza alla stessa fonte: nelle piaghe del divin Salvatore.
Lo stesso dicasi della miseria: essa non è più limitata del patimento. Anch'essa ha un dominio senza
confini e può sorprendere le sue vittime in tutte le classi della società. Quante volte non si videro
delle famiglie precipitate tutto ad un tratto dall'apice dell'opulenza nell'abisso dell'indigenza? Coi
decaduti, i piccoli commercianti, i piccoli impiegati, i piccoli agricoltori devono lottare contro la
miseria al pari di quelli che fan monopolio del nome "d'operai".
I nostri democratici cristiani si dieno la pena di considerare questi fatti e di meditare queste verità se
vogliono limitare la loro missione a quella di riformatori ed evitare di cadere nella demagogia. "Il
riformatore - disse Prévost-Paradole - segnala un male particolare e propone nel medesimo tempo
un mezzo pratico e speciale di guarirlo; egli accetta la discussione su questo punto, ve la concentra
anzi, e si arrende alla ragione, se gli vien dimostrato che il disordine sociale da cui è contristata la
sua vista non può essere intieramente corretto, come avviene troppo spesso in questo mondo, se non
a prezzo di un maggior disordine. Il demagogo, al contrario, si limita alle declamazioni vaghe e
perpetue sulle sofferenze del popolo, sui godimenti dei ricchi e sull'inerzia o mala volontà dello
Stato, senza mai indicare in qual modo si potrebbe fare che non ci fossero più poveri, e senza
indicare allo Stato alcun mezzo per estendere a tutti i cittadini il godimento eguale dei beni della
terra".
Occuparsi a cercare, nelle pieghe più segrete della società, tutte le imperfezioni e tutte le miserie
ch'essa rinchiude, prendere nota di tutti i turbamenti piccoli e grandi che l'agitano e conchiudere che
l'ordine sociale dimanda d'essere ricostruito sopra nuove basi, gli è far opera non di cristiani ma di
demagoghi.
Se, almeno, per dimostrare quanto la miseria è grande e quanto essa è immeritata, si rimanesse
sempre nella verità dei fatti!
Il 19 dicembre 1896, l'ab. Naudet scriveva nella sua Iustice sociale:
"Quante volte si è pubblicata questa statistica, straziante, la cui cifra officiale porta a 96.000 il
numero di coloro che ogni anno in media muoiono di fame! Or, quando si dice "muoiono di fame",
ciò non significa "soffrono di tempo in tempo e stringono la cintura di un punto, perché non hanno
da mangiare"; ma significa che 96.000 (24) individui sono uccisi dalla fame acuta, che un giorno li
abbatté accanto ad una siepe, sull'orlo di un marciapiede, sulla scarpa d'una gran via; a meno che,
tormentati dalla fame lenta, ed ormai non potendone più, un bel giorno non si sbarazzino della vita e
della loro povera spoglia umana appiccandola ad una chiodo, attraversandola con una palla,
trapassandola con un pugnale, od asfissiandola con uno scaldino".
Questa tiritera ha servito di tema ad una moltitudine di conferenzieri. Non accusiamo coloro che
l'hanno ripetuta. Come non avrebbero essi prestato fede ad una asserzione presentata con tanta
sicurezza e tanta precisione scientifica: Novantaseimila. È una cifra officiale. È una media stabilita
della statistica.
Cazajeux fece osservare nella Réforme sociale che "nessuna statistica officiale o privata dà per tutta
la Francia la classificazione dei decessi. Fra le città di Francia, Parigi sola ha dal 1865 una statistica
particolareggiata delle cause dei decessi. Ora, la media dei morti d'inedia, è del 16 per 2.450.090
abitanti. Se si volesse applicare per 38 milioni di abitanti la stessa proporzione si avrebbero 247
decessi annuali per inedia, cifra assai lontana dai 96.000 e dai 130.000 morti, per mancanza di un
tozzo di pane inventata dai Naudet e Dehon.
Bisogna essere geniale, com'egli è, per sostenere - poiché nella sua risposta a Cazajeux, l'ab. Naudet
pretese essere esatta la sua cifra di 96.000 senza curarsi di darne la minima prova -, per sostenere,
dico, che su 8 persone che muoiono in Francia, si può sempre contarne una che muore letteralmente
di fame. Infatti 96.000 è quasi la ottava parte dei nostri 800.000 decessi annuali.
La Démocratie chrétienne nel suo numero dell'8 maggio 1897 avendo compassione dell'ab. Naudet
e del brutto caso in cui erasi messo, incominciò, senza badare, dal cancellare uno zero dalla cifra
data dal suo amico, e dal non attribuirgli che 9600 in luogo di 96.000 che Naudet avea
perfettamente pubblicato e mantenuto nella sua discussione con Cazajeux. Dacché avea
incominciato, perché non fece sparire due zeri invece d'uno? Si sarebbe un poco più avvicinato alla
verità: avrebbe avuto allora 960 come cifra dei morti di fame, cifra ancora più che tripla.
Ci vuol ben altro che queste esagerazioni per recare un rimedio efficace alle miserie in cui la
Rivoluzione ha ridotto una gran parte del popolo. In primo luogo è mestieri vedere il male dov'è.
"Amici del popolo, guardate: In Francia sopra migliaia di punti un uomo giovane e debole sfugge
alla sorveglianza della propria famiglia, del suo parroco, de' suoi vicini e de' suoi compatrioti; nel
momento che tutte le sue passioni si accendono, egli sparisce lungi da ogni sguardo e da ogni
consiglio, in un centro d'errori, di cupidigie e di seduzioni! ... Queste leve reclutano l'esercito messo
al servizio dell'industrialismo ed ingrossano le file di quello onde dispone l'Internazionale. Per l'uno
e per l'altra voi avete gli stessi soldati.
Ed è codesta gente che da quarant'anni(25) ci domina! Sono costoro che fanno impallidire gli
uomini di Stato, che vogliono cambiare la società umana, che, per soddisfare la sete d'invidia,
incendiano, demoliscono la Francia, per gittarne le ceneri allo straniero,(26) e che pretendono
scannarvi domani!
"Non ci resterebbe più che a versar lacrime, se non esistesse alcun mezzo per arrestare un tale
incendio e per evitare una rovina definitiva. L'umanità, la ragione, la salvezza di tante anime,
nonché quella della patria, ci gridano di strappare la Francia ed i suoi popoli dagli orrori di una tale
desolazione".
Dacché si fece udire questo grido d'allarme, quanto il male si è aggravato! De Saint-Bonnet per
recarvi rimedio, chiedeva il concorso degli uomini di Stato. Che hanno essi fatto se non renderlo più
disperato? Le taverne furono moltiplicate all'infinito nelle campagne, come nelle città; l'attrattiva
pei grandi centri venne favorita in tutti i modi; il lusso si è accresciuto, il piacere ha moltiplicato le
sue seduzioni, e le ha rese più attraenti: il fuoco dell'invidia è stato acceso costantemente nei cuori
dalla stampa e dai circoli; ed infine e sopratutto, le giovani generazioni sono state allevate
nell'ignoranza, se non nell'odio di Dio.
Che fare? Il problema è divenuto oggi più urgente che nel primo giorno. Mille voci si son fatte
udire, e si sta ancora chiedendosi da qual parte fa d'uopo incominciare.
La risposta che fece gran rumore è stata data il 10 novembre 1889 nella cattedrale di Baltimora in
un discorso sopra "l'avvenire del cattolicismo negli Stati Uniti". Fu allora che Mons. Ireland ha
proferite queste parole:
"Fintantoché la condizione materiale degli operai non sarà migliorata, è futile parlar loro di vita
soprannaturale e di doveri".(27) Lo stesso Prelato ripeté questa frase, od almeno equivalente, in
diverse circostanze e principalmente in una conferenza tenuta ai preti delle diocesi di Belley riuniti
pel ritiro ecclesiastico. Egli giustificava in questi termini la regola di condotta che consigliava:
Occupatevi degli interessi temporali del popolo. Questi interessi saranno lo scabellum sul quale
potrete salire per innalzare di là le anime fino al cielo. Al giorno d'oggi il soprannaturale, primo
aspectu, non piace al mondo, è il naturale che piace; servitevi del naturale, affinché dopo aver preso
possesso di questo mondo in suo nome, possiate in seguito prenderne possesso a nome del
soprannaturale".(28)
Questo consiglio è stato riprodotto da molte pubblicazioni religiose.
La Sociologie catholique,(29) che non è certamente la più progressista delle riviste pubblicate dal
partito della democrazia cristiana, celebrando l'anniversario del Congresso ecclesiastico di Reims,
diceva, e in ciò riassumeva il pensiero di tutto il partito:
"Perché il volgo prenda gusto alle cose del cielo, fa duopo parlargli da prima il linguaggio ch'egli
comprende, che ascolta, quello de' suoi affari, de' suoi interessi, e, nella grande lotta per la vita da
cui niuno va esente, è mestieri trovargli ed insegnargli il mezzo di riuscire vittorioso. Dopo la
distribuzione fatta a tutti, quaggiù, della giustizia sociale coi mezzi umani, sarà possibile di far
levare gli sguardi, di raggiungere il fine cristiano e morale e di proclamare che il Gran Maestro
della Giustizia è Gesù Cristo, e che il Vangelo è il vero codice dei diritti come dei doveri di tutti.
Dopo aver procurata la pace del corpo, sarà più facile di far accettare la pace dell'anima. Tutti lo
comprendono a Reims ... Vi sono là settecento preti venuti da tutti i punti della Francia. Essi
s'interrogano a vicenda intorno all'azione, alla scienza e all'organizzazione del clero di fronte al loro
tempo".
Questo linguaggio ha qualche cosa di specioso, deve essere necessariamente fallace. Perché? Perché
è in opposizione colla parola di nostro Signore: Cercate da prima il regno di Dio e la sua giustizia e
tutto il resto vi sarà dato per giunta.
I democratici cristiani hanno preveduto che questa parola divina sarebbe loro obbiettata, ed è perciò
che hanno cercato di stornare il senso di questo oracolo, poi di opporre alla sua legittima
interpretazione, il Vangelo stesso.
Si è potuto leggere dieci, venti volte, nelle loro pubblicazioni, che la giustizia di cui qui parla il
divin Salvatore, è l'equità (!), e specialmente la giustizia che i padroni devono ai loro operai (!!).
Forse penano anche adesso a credere che la Giustizia, nel linguaggio sacro, è la santità, la grazia
santificante in questa vita e la gloria nell'altra.
Il passo del Vangelo, onde si fanno forti, è quello della moltiplicazione dei pani.
"Si deve ricordare - disse l'ab. Naudet, - nella sua Justice sociale, che Gesù prima di dare alla turba,
radunata intorno a lui nel deserto, l'insegnamento della sua santa parola, l'avea nutrita colla
miracolosa moltiplicazione del pane". Questa asserzione è stata ripetuta in tutti i toni, anche nelle
assemblee in cui tutti gli uditori avrebbero potuto o dovuto essere in grado di confutarla, e molti lo
avrebbero fatto, senza dubbio, se la convenienza e il rispetto non li avessero trattenuti.(30)
Apriamo il Vangelo e vi troveremo proprio il contrario di quello che gli si fa dire.
"E nello sbarcare Gesù vide questa gran folla, e n'ebbe compassione, imperocchè erano come
pecore senza pastore, ed incominciò ad insegnar loro molte cose del regno di Dio. Et coepit illos
docere multa (Marco, VI, 34) de regno Dei (Luca IX, 11). E siccome facevasi tardi, se gli
accostarono i discepoli a dirgli: "Questo luogo è deserto, e l'ora è già avanzata: licenzia questa
gente, affinché vadano nei vicini villaggi e castelli a comperarsi da mangiare"" (Marco, VI, 35-36).
Ma Gesù preferì di nutrirli miracolosamente.
Nella seconda moltiplicazione dei pani, le cose non avvennero diversamente. "Di quei giorni
essendo di nuovo grande la folla né avendo quelli da mangiare, Gesù chiamati a sé i suoi discepoli
disse loro: "Mi fa compassione questo popolo, perché sono già tre giorni che si trattiene con me
(avido di ascoltarmi) e non ha nulla da mangiare"" (Marco, VIII, 1-2).
Non è abbastanza evidente che nostro Signore ha messo qui, come sempre, i suoi atti in conformità
perfetta colle sue parole? "Cercate dapprima il regno di Dio, il resto vi sarà dato per soprappiù".
Egli diede per soprappiù il pane miracoloso al popolo che avea prima cercato il regno di Dio.
Osserviamo ancora che se il Vangelo disse che "Gesù ebbe compassione di questo popolo", egli è
perché lo vedeva ridotto alla condizione di "un gregge senza pastore", e per ciò "gli insegnò molte
cose del regno di Dio", e fu solo dopo la sua predicazione che gli si fece osservare ch'esso avea
fame. La grande compassione di Gesù avea dunque innanzi tutto per oggetto i bisogni dell'anima ed
è a questa ch'egli provvede subito e da se medesimo.
Se proseguiamo a leggere il tratto del Vangelo invocato dai democratici cristiani per istabilire la
loro tesi, e che alla semplice lettura, si ritorce così spiacevolmente contro di loro, vedremo la
disfatta accentuarsi ancor più.
Essi dunque dicono che prima di parlare al popolo de' suoi doveri, della sua anima e della vita
eterna, fa d'uopo adoperarsi per procurargli il benessere temporale. Ed ecco il Vangelo mostrarci col
fatto che quando i benefizi temporali erano accordati da Gesù Cristo medesimo, non aveano punto
questa virtù di preparare alla fede il cuore del popolo che ne era testimonio e ne profittava.
"Tutto questo popolo - dice il Vangelo - dopo aver veduto il miracolo operato da Gesù, diceva:
"Costui è veramente il profeta che deve venire nel mondo". Ma Gesù sapendo che aveano
l'intenzione di prenderlo e farlo re, si ritirò sulla montagna". Saliti gli Apostoli su di una barca,
furono colti in piena notte da una procella. Gesù venne a loro camminando sul mare. L'indomani, la
folla montò su delle barche per raggiungerlo. "E Gesù disse loro: "In verità, io vi dico, voi venite in
cerca di me non pei prodigi che avete veduti, ma perché avete mangiato il pane e siete stati satollati.
Lavorate, non pel cibo che perisce, ma per quello che dura nella vita eterna e che il Figliuolo
dell'Uomo vi darà. Perché Dio Padre ha messo in lui il suo contrassegno"".
Così dunque prima della moltiplicazione dei pani, i Giudei seguono Gesù per ascoltarlo, per
raccogliere la sua parola: dopo lo cercano per farlo re; non per avere un re che continui ad istruirli,
del regno dei cieli, ma un re che li dispensi di trarre dalla terra il pane col sudor della loro fronte, un
re che abbia il potere di nutrirli miracolosamente. "Costui è veramente il profeta che deve venire nel
mondo", si dicevano essi, il profeta quale i Farisei l'aveano loro annunciato, quale essi
l'aspettavano: il Messia che dovea dare agli Ebrei, coll'impero universale, tutti i beni di questo
mondo. Che siano questi i loro pensieri e le loro disposizioni d'animo, ce lo fa conoscere
chiaramente nostro Signore, poiché egli, che prima della moltiplicazione del pane avea mostrata la
sua ammirazione per lo zelo di udire la parola divina, li rimprovera ora di non più pensare che al
cibo che perisce, di porre in oblio quello che dura per la vita eterna, molto più di non veder in lui
che il benefattore temporale, e di chiudere gli occhi sul segno che il Padre avea messo in lui per
farlo conoscere quale Redentore delle anime. Il beneficio temporale non ha dunque destato in essi
che il desiderio dei beni temporali; e questo desiderio offusca il loro spirito a tal punto che non
vedono come il dono dei miracoli è in Gesù il sigillo del Padre, il pegno che afferma e garantisce il
suo potere di dar la vita eterna.
La sazietà del loro corpo ha tanto poco preparato la loro anima a comprendere e gustare le cose
spirituali, che finiscono per mormorare contro Gesù e per abbandonarlo, perché volendo distrarli dai
loro pensieri terreni, e sollevare i loro cuori nelle regioni soprannaturali, il divin Salvatore disse
loro: "Io sono il Pane vivo disceso dal cielo".
La regola di condotta data a Baltimora, non è solamente in opposizione diretta colla parola e coi
fatti evangelici, ma altresì colla storia della Chiesa. Gli Apostoli hanno incominciato non col
migliorare la sorte materiale degli schiavi, ma col predicare il Vangelo in tutta la sua sublimità
soprannaturale. Per restarne convinti basta leggerne le loro Epistole. Ed è comportandosi in tal
modo che hanno fatto sparire la schiavitù. Sperare di venire ad un simile risultato, prendendo la via
opposta, è un inganno. "Le spaventose ingiustizie sociali" non possono sparire che sotto il soffio
dello spirito cristiano, il quale fa comprendere agli operai come ai padroni, ed ai padroni come agli
operai che cosa sia la vita presente, e che cosa sia la vita eterna. Finché l'intelligenza di queste due
cose non sarà entrata negli animi, gli uni continueranno a correre dietro alle ricchezze con quella
pertinacia che usano naturalmente coloro che limitano la loro vista all'orizzonte di questo mondo, e
gli altri continueranno ad essere perseguitati dalla tentazione di distruggere la società attuale per
istabilirsi sulle sue rovine. Ricondotti alla fede, i ricchi diventeranno giusti e caritatevoli per
meritare l'eterna beatitudine, ed i poveri cercheranno il sollievo della loro miseria non nei
saccheggi, ma nel lavoro e nella temperanza che procureranno loro il pane in questo mondo e Dio
nell'altro.
D'altra parte, dove si trova il grado di benessere a cui è d'uopo far giungere il popolo, perché si
chiami soddisfatto e già disposto a prestare ascolto agli insegnamenti della fede?
Questo termine è necessariamente indeterminato. Quello che pare il colmo della miseria alle nostre
popolazioni, sarebbe anche attualmente ritenuto, da tre quarti del genere umano come sufficiente ed
anche più che sufficiente. Che sarebbe se si considerasse la condizione dell'umanità in tutta la
successione dei tempi!
Si decreti pure il minimum di salario e si giunga a procurare il salario famigliare, si limitino le ore di
lavoro, si creino Casse di prestito, di risparmio, alimentate dai padroni o dallo Stato; si offrano a
tutti case comode a buon mercato, ed anche il pane gratuito: se non si rende il popolo più morale - e
non si può renderlo più morale senza renderlo più religioso - non si avrà fatto che aumentare nel suo
cuore il sentimento della sua miseria, o di ciò ch'egli chiamerà con questo nome, paragonando la
sua condizione a quella degli altri.
"Potreste voi - dimandava Bismarck - citarmi un politico, un sapiente, un artista, un avvocato, un
industriale che sia pienamente contento della sua rendita e della sua posizione? Conoscete voi un
milionario soddisfatto de' suoi milioni? Per quanto un uomo sia ricco e fortunato nelle sue imprese,
per quanto sia di nascita nobile, ed occupato in alte cariche, lo conoscete voi pervenuto al termine
de' suoi desiderii? Breve: conoscete voi un uomo contento? Come lo sarebbe l'operaio? Dategli una
lira sterlina al giorno, poco dopo la sua donna ne dimanderà due per vestire meglio i suoi figliuoli, o
per la sua propria acconciatura, e non la finirà mai finché non gli abbia comunicato il suo
malcontento. La sorte dei proletari si è migliorata in proporzioni enormi, ed essi sono meno felici di
prima; mano mano che si aumenta la loro agiatezza, aumentano i loro bisogni, e si aguzzano i loro
appetiti". Sanno essi almeno discernere i loro bisogni reali dai bisogni fittizi che si sono creati per
imitazione o diversamente? I bisogni reali si riducono a poca cosa; ma i bisogni fittizi non hanno
limiti, e più loro si concede, più dimandano.(31)
Da ciò non tiriamo la conseguenza non esservi nulla a fare in favore degli operai per migliorare la
loro sorte, ma non vi si arriverà in nessun modo, se si differisce a moralizzarli mediante la fede e la
speranza cristiana, non cercando pel momento che a soddisfarli nei loro bisogni materiali.
Il P. Gratry, nel suo libro Les Sources (to. II, p. 135) narra quanto segue:
"Un uomo ragguardevole molto conosciuto mi assicurò di essersi fatto cristiano per una esperienza
che fece e che ognuno può fare. "Io mi sono affezionato - egli disse - ad alcune famiglie povere che
ho seguito per molti anni in tutti i particolari della loro vita, e mi dimandai: Come si può dar loro il
benessere? Ho saputo che un progresso di benessere dipendeva da un progresso morale, e che un
progresso morale dipendeva da un progresso religioso. Questa al mio vedere è scienza
esperimentale, ed è tanto certa quanto i fatti e le leggi fisiche. Ho fatto di più. Ho consigliato lo
stesso lavoro a dei giovani indecisi nelle loro convinzioni. Ho detto loro d'intraprendere senza alcun
pregiudizio né partito preso, lo studio continuato e particolareggiato di alcune famiglie povere e di
cercar la causa ed il rimedio. La loro conclusione fu la medesima. Nessun progresso di proprietà
senza un progresso morale, nessun progresso morale senza progresso religioso
Più recentemente Giulio Lemaître diceva:
"Coloro che pretendono di riformare le leggi e le istituzioni secondo giustizia senza riformare i
costumi, fanno opera assolutamente pazza. Vogliono mettere la giustizia nelle leggi e non si curano
che la giustizia si trovi in loro stessi e negli altri; o, se anche si curano, non veggono che essa non
può sussistere se non mediante la lotta contro la natura, mediante lo sforzo e per lo meno mediante
principii di sacrificio ed un sincero buon volere, in mancanza di virtù perfetta.
"Ogni questione sociale è dunque, come spesso si è detto, una questione di morale, e che non può
essere risolta, in fin dei conti, se non colla virtù di tutti e di ciascuno".
Sì, la virtù di tutti e di ciascuno. Se i ricchi adorano il vitello d'oro, è inutile voler imporre
l'abnegazione, lo spirito di sacrificio e la rassegnazione ai poveri, i quali, certo, non ammetteranno
questa spartizione ineguale. Fa d'uopo che la nostra società materialista ritorni interamente ai
principii cristiani e vi conformi la sua vita. La salute sta qui, e qui solamente. All'infuori di questa
rinnovazione morale che si estende a tutti, si potrà trovar degli spedienti più o meno effimeri, ma la
vera soluzione della questione sociale, non mai.
Ed è dall'alto, lo si noti bene, che la riforma deve incominciare. "Gli avvenimenti si maturano -
diceva Leone XIII, all'aristocrazia romana. - In mezzo al fermento crescente delle cupidigie
popolari, la franca e costante virtù delle classi elevate, è uno dei mezzi più necessari di difesa".
Il clero dunque deve sopratutto applicarsi a ristaurare nelle classi elevate l'impero della fede.
Quando la luce si diffonde dall'alto, mercé le virtù e la dottrina del clero, coepit facere et docere, e
quando essa si riflette nella condotta e negli esempi dell'aristocrazia, giunge efficacemente al
popolo, lo rischiara, lo anima, e lo trascina nella via del bene. Poi il bene morale mena seco il
benessere materiale. Tenere altra via, è battere l'aria o far peggio ancora.
Note:
(1) Fu a Lilla, in una loggia di Lilla, secondo la Chaîne d'union, numero del luglio 1880, che il F...
Courdavaux, ha pronunciata la frase tante volte ripetuta. Eccone il contesto:
"Vengo a trattare davanti a voi, miei F... F..., una questione che non oserei trattare in nessun altro
luogo. Tutti quanti qui siamo massoni, noi siamo scomunicati; noi siamo dunque disposti ad udir
tutto, davanti a voi io posso dir tutto. Il tema ch'io voglio trattare è il fondo di tutte le questioni
all'ordine del giorno.
"La distinzione tra il cattolicismo e il clericalismo è puramente officiale, sottile, pei bisogni della
tribuna; ma qui in loggia, diciamolo altamente, per la verità, il cattolicismo e il clericalismo non
sono che una cosa sola; e come conclusione aggiungiamo: non si può essere ad un tempo cattolico e
repubblicano: è impossibile".
Qualche tempo appresso, nel novembre 1880, Giorgio Périn, deputato, disse in un discorso
pubblico: "La Chiesa cattolica è la nemica più formidabile della Repubblica, e quando io dico
Chiesa cattolica e non partito clericale gli è che io credo esser tempo di finirla con questa ipocrisia
e di dichiarare che tutti i membri di questa Chiesa devono considerarsi come egualmente
pericolosi".
(2) Nella sua bell'opera Personnes morales il signor de Vareilles, decano dell'Università cattolica di
Diritto a Lilla, disse: "Il male che può fare una parola, sorpassa l'immaginazione. La parola
Manomorta è una di queste parole perniciose più distruggitrici di un flagello. Il danno che ha
cagionato alle più legittime libertà, alla libertà d'associazione, alla libertà della carità, alla libertà
delle fondazioni, il pregiudizio che ha recato per ciò al nostro paese ed all'umanità, sono
incalcolabili.
(3) Alle parole equivoche, alle parole spauracchi, ed alle parole furfanti, si potrebbero aggiungere le
parole adulatrici, ingannevoli. "Guardate dappresso - dice Guizot (Démocratie en France) - secondo
il senso che porta abitualmente la parola lavoro nel linguaggio della guerra antisociale. È del lavoro
materiale che ci si preoccupa, è quello che si presenta incessantemente come il lavoro per
eccellenza, quello davanti al quale spariscono tutti gli altri. Si parla così per far nascere nell'animo
degli operai applicati al lavoro materiale, il sentimento che è soltanto il loro lavoro che merita
questo nome e ne possiede i diritti. Così da una parte si abbassa il livello delle cose, e dall'altra si
gonfia l'orgoglio degli uomini. E quando si tratta degli uomini stessi, quando non si parla più di
lavoro, ma di lavoratori, si procede nella stessa guisa, sempre per via di abbassamento. Alla qualità
astratta di operaio, indipendentemente dal merito individuale, si attribuiscono tutti i diritti del
lavoro. E così il lavoro più comune, l'ultimo nella scala, è preso per base e per regola, subordinando
ad esso, cioè sacrificandogli tutti i gradi superiori ed abolendo dovunque la diversità e
l'ineguaglianza a profitto di ciò che è minore e più basso. Non è ciò invece un mutilare, avvilire,
compromettere il lavoro e torgli i suoi bei titoli e i suoi veri diritti per sostituirvi delle pretese
assurde e malgrado la loro insolenza?"
Vi sono infine le parole villane. L'abate Naudet disse: "Se la Chiesa è stata sì forte nel medio evo,
egli è perché si è molto confusa colla canaglia ..." (p. 311). Nel giornale dell'abate Garnier, l'abate
Dabry che ne era allora redattore in capo, scrisse pure il 28 dicembre 1897 parlando della vita
pubblica di nostro Signore. "Questa fu per tre anni la gran festa della canaglia ...". L'8 gennaio
seguente, egli firmava un articolo intitolato: "L'amico dei miserabili"* designando con queste parole
la persona sacra di nostro Signore Gesù Cristo.
L'anno seguente l'abate Camper, per testimonianza dell'abate Johel d'Armor, redattore del
Morbihannais, e di Carlo Ladret, autore della Rivoluzione e la Società cristiana, ha pur detto in una
conferenza: "Se il Cristo ha un'aureola, si è perché bazzicò con gentaglia" (c'est encanaillé avec les
gueux).
(4) Vedansi i processi verbali delle sedute delle Commissioni del Congresso cattolico del 1894, pp.
65-66.
* Gueúx. Qui è una delle parole equivoche, la si può intendere in senso buono e in senso cattivo.
(Nota del Traduttore).
(5) De Bonald, all'Istituto nazionale, seduta del 29 giugno 1805.
(6) La Rivista che ha per titolo la Démocratie Chrétienne parve avere da prima essa pure
riconosciuto quanto è pericoloso adoperare questa parola democrazia poiché ha detto: "Questa
parola democrazia corrisponde ad una nozione che tutto contribuisce a rendere ambigua e per la sua
naturale complessità, e pei ricordi storici che richiama e per le calorose polemiche che ha
provocato". (Démocratie Chrétienne, dicembre 1897, p. 4
(7) La Costituzione d'Inghilterra. Introduzione, t. I, p. XL.
(8) Organizzazione del lavoro, § 56-60.
(9) Riforma sociale in Francia, t. I, Introd. p. XVII.
(10) Le Play, dalla sua Corrispondenza, p. 191.
(11) OEuvres complètes, de J. de Maistre, t. VII, p. 510.
(12) Riforma sociale in Francia, t. IV, p. 29-30.
(13) Parole che possono servire ad operare la rigenerazione della società in senso massonico.
(14) L'Univers, nel suo numero del 13 settembre 1902 riferiva che nel precedente pellegrinaggio dei
Francesi a Roma, Harmel nel brindisi che pronunciava a Santa Marta, esclamò: "Noi siamo servi
passionati della libertà, - sì, servi passionati della libertà, pronti a dare la nostra vita, ed a spargere il
nostro sangue per la causa sacra della libertà!".
La libertà per le anime di poter andare a Dio, loro ultimo fine, senza ostacoli, molto bene. Ma è così
che la intesero gli uditori del signor Harmel, è questa dunque la libertà che egli volea loro far
acclamare? Una parola di spiegazione non sarebbe stata inutile, al domani del giorno in cui il capo
dei democratici cristiani d'Italia veniva condannato pel suo discorso: Libertà e Cristianesimo.
(15) Victor Noir, giornalista radicale, per i suoi scritti contro l'impero provocato a duello da un
parente di Napoleone III, fu da questo ucciso. Il che produsse delle sommosse in seguito delle quali
Napoleone diede la Costituzione del 1868. (Nota del Traduttore).
(16) OEuvres complètes, t. VII, pp. 139-140.
(17) Il "governo dei parroci" ha servito per far passare la lista di Gambetta ed a costituire il governo
dei framassoni. La paura del "clericalismo" fa chiudere gli occhi sulle peggiori tirannie. Per paura di
essere accusati di favorire questo mostro, vi sono dei cattolici che si vergognano di essere clericali.
Al tempo della convalidazione di Gayraud, Lemire disse dalla tribuna: "Il mio collega ed io non
siamo clericali". Il 27 novembre 1899, lo stesso: "Mi permetto di far osservare che né l'abate
Gayraud, né l'abate Lemire non sono qui i deputati del cattolicismo. Non ho accettato nel passato e
non accetterò nell'avvenire che la Camera sia trasformata in un luogo di discussioni teologiche o
filosofiche" (Journal officiel del 28 novembre 1899).
(18) Chaîne d'union, 1874, p. 85.
(19) Saint-Edme, Constitution et organisation des Carbonari, p. 110.
(20) L'organisation du travail, p. 355.
(21) Apocalisse XII, 1-6.
(22) La lègitimité, pp. 281-284.
(23) Spiegheremo più tardi la differenza che vi è tra pauperismo e povertà.
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(24) L'abate Dehon ancor più rincarava questa cifra: "Secondo le statistiche officiali 136.000
individui in Francia sono nel 1892 morti di miseria e di stento" (Manuel social chrétien, p. 25, 3a
edizione).
Simili errori e simili leggerezze, in cosa tanto grave, ed in tempi in cui le passioni sono sì eccitabili,
sufficientemente caratterizzano coloro che se le permettono.
(25) Cioè dopo la Rivoluzione del 1830: de Saint-Bonnet scriveva questo nel 1870. Bisogna dire
adesso dopo sessantasei anni.
(26) Si era ai tempi della Comune.
(27) Osservazione del signor de Tocqueville: "Il gusto di benessere forma come il tratto saliente e
indelebile delle età democratiche. Nella democrazia americana, questo desiderio al benessere
esercita un'influenza anche sulla religione. È spesso difficile, ascoltando i predicatori americani (noi
crediamo che de Tocqueville abbia qui in vista particolarmente i predicatori protestanti), il sapere se
l'oggetto principale della religione sia di procurare la felicità eterna nell'altra vita o il benessere in
questa" (De la Démocratie en Amérique, 1a parte, cap. IV; 2a parte, cap. IX).
(28) L'abate Naudet avea già detto: "Sono rare le anime elette alle quali bastano le speranze di
un'altra vita per accettare in pace le difficoltà e le prove della presente. Le compensazioni
aggiornate alle rivelazioni del cielo non avranno che una influenza limitata, non raggiungeranno
mai che un numero d'anime infinitamente ristretto ... La pace agli uomini di buona volontà é stata
promessa sulla terra".
Il 3 marzo 1895, lo stesso abate pronunciò a Lilla nell'Ippodromo, dinanzi ad una moltitudine di
operai, queste parole: "Io sono della Chiesa d'oggi e di domani, non di quella di cent'anni fa ... Il
paradiso voglio darvelo subito, pur aspettando l'altro".
(29) Agosto 1897, VI anno, p. 485.
(30) Per esempio quando un vescovo diceva queste cose in ritiri pastorali.
(31) Eccone un esempio tipico. Duecento anni fa, non si poteva andare a Parigi che a piedi od in
calesse di posta. E quest'ultimo mezzo costosissimo, domandava un tempo considerevole, e non era
senza pericolo. Nessuno se ne lamentava. Sessant'anni fa non si aveva come mezzo di trasporto che
le diligenze reali o generali. Nessuno ancora si lamentava. Infine sono venute le strade ferrate. Si va
da Lilla a Parigi in tre ore, ed i viaggiatori che prendono il treno direttissimo e le prime classi,
trovano che si va lentamente e si è mal condotti.
Se si percorrono tutti i gradi della scala sociale, in tutti si può constatare lo stesso fenomeno:
l'accrescimento di benessere provoca il desiderio passionato, febbrile e furioso di un benessere
maggiore.
Uno sciopero si prolunga delle settimane a Longwy (luglio-agosto 1905). Or, ecco i salari ricevuti
dagli scioperanti ad Hussigny, a Saulnes ed a Moulance, secondo il bollettino di pagamento:
Ernesto Dupont per 20 giorni e 3/4 di lavoro, toccò 304 fr. 50 c., cioè 14 fr. 85 c. al giorno;
Giovanni Pisoni, 278 fr. 65 per 19 giorni, cioè 14 fr. 66 c. di guadagno giornaliero; Luigi Maratta,
23 giorni, che producono 320 fr. 70, guadagno quotidiano, 13 fr. 94; Camillo Bellando, 18 giorni,
rappresentati da 240 fr. 25 di guadagno, a 13 fr. 35 al giorno; Lamberto Honoré, 225 fr. per 23
giorni, cioè 9 fr. 82 per giorno.
Bisogna egli mettere a confronto con questi salari di operai, gli stipendi quotidiani di varii
funzionari? Il sotto-prefetto di Briev riceve 11 fr. 58, il giudice di pace Bernardin 7 fr. 5, l'istitutore
3 fr. 50. Il curato che percepiva 900 fr. all'anno, un po' meno di Ernesto Dupont in tre mesi, presto
non riceverà più niente.