sabato 31 gennaio 2015

Le falsità italiane sulla Battaglia di Lissa




Il vizio di affermar  falsità dei tricoloruti è vecchio e conosciuto e ricorse anche all'epoca della Battaglia di Lissa, la quale dissero di aver vinto. Non sappiamo esattamente quando ammisero di aver subito una sonora sconfitta, forse poco prima di entrare nella Triplice Alleanza.
Come ben sappiamo , il 20 luglio 1866 nelle acque di Lissa la flotta unitarista italiana al comando del vercellese Carlo Pellion di Persano venne sconfitta da quella austro-veneta al comando di Wilhelm von Teghettoff .
I menzogneri giornali dell'Italia sabauda non parlarono di sconfitta, bensì di vittoria: ecco una rassegna stampa di quei giorni.
Il Sole (Milano)
22 luglio 1866
Titolo: La battaglia di Lissa
“Fu una vittoria o una sconfitta? I dispaccio è abbastanza sibillino per lasciarcene quasi dubitare. Due fatti però culminanti trapelano dalla male abbozzata relazione ufficiale, e sono, che delle acque del combattimento rimasero padroni i nostri, e che la flotta austriaca affrontata, dopo la battaglia nel canale di Lesina, rifiutò il combattimento continunando la sua ritirata”.
23 luglio
“I particolari, che cominciano a trapelare, sul memorabile urto, delle squadre, parlano altamente in nostro favore”. In una corrispondenza da Ancona dove sono reintrate tre unità cariche di feriti: “Da quanto mi vien riferito dagli ufficiali dell'equipaggio la flotta austriaca sofferse molto; avrebbe perduti non meno di 8 bastimenti fra grandi e piccoli, fra questi si crede vi sia il vascello Kaiser”. (il Kaiser, pur gravemente danneggiato, non affonda, gli italiani perdone due navi (Re d'Italia e Palestro, gli austriaci nessuna)
Solo mercoledì 25 luglio Il Sole scrive: “La battaglia di Lissa ha cessato di essere una vittoria”
La Perseveranza (Milano)
22 luglio
“La padronanza del mare è nostra e le grandi operazioni della flotta vengono assai agevolate per la sconfitta dell'armata nemica”
23 luglio
Titolo: La vittoria di Lissa
“È stata una vittoria o una sconfitta? […] Basta una lettura attenta del dispaccio per convincersi che la nostra flotta ha ottenuto una splendida vittoria. …] Non crediamo di arrischiar troppo affermando che difficilmente le navi austriache potranno riavvicinarsi alle coste istriane. È dunque una battaglia riuscita a tutto nostro favore”.
24 luglio
“Le acque di Lissa sono nostre e la squadra austriaca […] fu costretta dalle gravi avarie patite a rifiutar una seconda battaglia. [...] Ormai è indubitato che il numero dei legni perduti dal nemico fu di gran lunga superiore al nostro”.
25 luglio
“La spavalderia austriaca passa ogni limite e giunge fino a cambiar la sconfitta in vittoria”.
Il 27 luglio si parla di “pretesa vittoria”, il 28 il giornale scrive: “un sentimento ineffabile di orgoglio e fierezza per la novella e luminosa prova del valore italiano. […] Anatema all'ammiraglio la cui inettitudine rese sterili, almeno apparentemente, i miracoli di intrepidezza e di abnegazione dei nostri marinai.”
Gazzetta di Milano
22 luglio
“Finalmente abbiamo un fatto navale e possiamo dire una vittoria navale. […] Ciò che risulta evidente è che la squadra italiana mise in fuga la squadra austriaca".
23 luglio
“l'Austria prese a' suoi servizi molti ex ufficiali dei confederati d'America i quali, dopo aver combattuto pel mantenimento della schiavitù nel loro paese, non stimarono inconseguente di recar l'aiuto del loro braccio alla causa dell'Austria. [...] i marinai italiani spezzarono ogni resistenza a cacciarono in fuga austriaci e americani”
25 luglio
pubblica una corrispondenza da bordo del Re di Portogallo, “La giornata se non fu vinta, non fu perduta. Le perdite nostre furono il Re d'Italia e la Palestro, i nemici perdettero un vascello e una corvetta, se non di più”.
Venerdì 27 luglio, una settimana dopo
“la flotta di Tegetthoff che invece non nemmeno è in istato di riprendere il mare […] pretende ora l'esclusivo dominio dell'Adriatico. Si vuol ingannar l'Europa e la diplomazia”.
 La Gazzetta uffiziale di Venezia (Venezia era ancora retta dal buon governo asburgico) riportava invece quanto segue.

Fonte: 
http://www.linkiesta.it/

Di Redazione A.L.T.A. 

venerdì 30 gennaio 2015

Mitografia risorgimentale in Giorgio Napolitano (prima parte)


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Nota redazionale: Davide Canavesi in questo articolo ripercorre, approfondendoli, alcuni temi già affrontati in una conferenza di formazione militante tenuta all’Università Cattolica del Sacro Cuore il 22 aprile 2009. Date le recenti dimissioni di Giorgio Napolitano ci sembra necessario ricordare alcuni degli aspetti più nefasti, mendaci e deteriori del suo “magistero” politico. 
Giorgio Napolitano, intervenendo al convegno Verso il 150° dell’Italia unita presso l’Accademia dei Lincei, aveva espresso con ampiezza di parole (ma non certo di vedute) la mens con la quale le autorità e le istituzioni culturali preposte avrebbero dovuto promuovere, a suo modo di vedere, le iniziative legate alla celebrazione del 150° anniversario dell’instaurazione del dominio sabaudo sulla penisola. Lamentandosi dei “giudizi sommari e pregiudizi volgari sul quel che fu nell’800 il formarsi dell’Italia come Stato unitario” e dei  “bilanci approssimativi e tendenziosi, di stampo liquidatorio, del lungo cammino percorso dopo il cruciale 17 marzo 1861”, considerati in toto “vecchi e nuovi luoghi comuni”, Napolitano aveva auspicato che l’intellighenzia italiota sapesse parlare del Risorgimento in modo da “rivalutarne e farne rivivere anche aspetti e momenti esaltanti e gloriosi, mortificati o irrisi spesso per l’ossessivo timore di cedere alla retorica degli ideali e dei sentimenti[1]. Davanti alla palese volontà dell’allora presidente della repubblica di ridar fiato allo scipito peana nazionalistico si potrebbero ricordare le sagge parole di Samuel Johnson, secondo cui “il patriottismo è l’ultimo rifugio dei mascalzoni”, ma tralasciamo ogni sterile polemica e fingiamo, per giunta, di non notare il condizionamento politico e ideologico che Napolitano voleva esercitare sulla produzione culturale e soffermiamoci su altro. D’altronde, consci del fatto che qualsiasi tentativo di far risorgere un culto risorgimentale e italiota sia più che altro legato alla sorte della nazionale di calcio ai prossimi mondiali, ci limitiamo a evidenziare come il presidente della Repubblica sembri ignorare totalmente con somma malizia come, fin da subito, la celebrazione degli eventi del 1860-61 e degli antecedenti (1830, 1848, ecc.) si sia avvalsa di una retorica tanto ampollosa e magniloquente quanto preoccupata di nascondere alcuni motori del processo di unificazione e di alterarne molti aspetti. Qualora peraltro la storiografia sul Risorgimento, a cui preferiamo riferirci utilizzando la categoria di Rivoluzione italiana[2], si fosse mostrata del tutto oggettiva e disinteressata mi sembra evidente che, rispetto a questa, di molto maggior peso per l’educazione del popolo si sia dimostrata una produzione letteraria ad uso scolastico che certo non ha lesinato in retorica, come quella di Mercantini, De Amicis e Abba. In particolar modo l’autore diCuore ha diffuso nel sentire comune, con immagini semplici e sentimentali, la percezione di un risorgimento come risultato di moti e auspici popolari, mascherando però  nella profusione di buoni intenzioni un rivoltante utilitarismo di stampo borghese[3].
Vorremmo invece soffermarci sul fatto che lo stesso processo risorgimentale si sia nutrito e alimentato culturalmente attraverso una sistematica perversione di avvenimenti e personaggi storici operata da romanzieri, poeti, compositori e storiografi che credevano, o fingevano di credere, di scorgere in quelli dei preludi al processo rivoluzionario da loro sostenuto e fomentato. Chiaramente ciò non è un giudizio senza appello: i letterati e gli storiografi fautori della Rivoluzione italiana erano figli del romanticismo, cioè di un’epoca e di una corrente culturale che, reagendo all’antitradizionale illuminismo, sviluppò un’attenzione schizofrenica per la storia. Testimonianza ne è uno dei generi letterari più praticati del secolo, il romanzo storico, che diede vita ad una selva di libri di qualità discutibile accanto a capolavori come quello di Manzoni, il quale, a onor del vero, vide esaurita la sua creatività letteraria proprio constatando, attraverso il saggio Del romanzo e in genere de’ componimenti misti di storia e invenzione, il fallimento del genere a cui aveva dedicato molti anni della sua carriera.
Una vera summa della mitografia storica risorgimentale è il Canto degli italiani (1847) di Goffredo Mameli, la cui retorica farebbe forse piacere a Napolitano ma certo non è un esempio di oggettività e attendibilità storica, dato che lo stesso Mameli non aveva proprio una concezione ingenua della produzione artistica (“L’arte non è un diletto ma un apostolato”[4]). Mameli peraltro in tutta la sua produzione letteraria supplì con una retorica debordante a una povertà contenutistica che anche Carducci più volte gli rimproverò, definendo la sua poesia “rigatteria romantica” e dotata di “un’eco languida e mozza di quella poesia di second’ordine[5]. In particolare la quarta strofa dell’inno (incipit: Dall’Alpi alla Sicilia..) evoca una serie di avvenimenti storici che già da anni servivano da comodo seppur illusorio appiglio alla propaganda unitaria e sui quali vorrei fornire alcune prove della scarsa attendibilità storica. Gli eventi storici evocati sono la battaglia di Legnano, la difesa della Repubblica Fiorentina da parte delle milizie di Francesco Ferrucci, l’insurrezione genovese contro gli austro-piemontesi durante la Guerra di Successione austriaca e i Vespri siciliani. In questo articolo ci concentreremo unicamente sui primi due eventi.

Ovunque è Legnano
La celebre battaglia di Legnano (28 maggio 1176) è una delle tematiche più frequentemente tirate in questione dalla propaganda risorgimentale, ciò principalmente per due motivi: l’esaltazione della società comunale, concepita come epoca di libertà tra l’abisso del feudalesimo e la decadenza dell’epoca moderna, secondo lo schema elaborato dal protestante Sismonde de Sismondi[6], e la lotta contro l’imperatore “tedesco”, metaforicamente paragonato all’austriaco. Evidentemente nessuna questione nazionale contribuì a determinare la conflittualità tra l’imperatori e i comuni guidati da Milano, così come affermò con grande perspicacia Indro Montanelli: “Fu una rivolta contro l’imperatore non in quanto straniero ma in quanto esattore di balzelli[7]. Alcun afflato idealistico né nazionalistico riempì i cuori dei lombardi i quali si batterono unicamente per motivi economici, cioè la possibilità di godere dei frutti delle cosiddette regalìe (o iura regalia), di diritto spettanti al sovrano ma per consuetudine passate ai comuni, rivendicate da Federico supportato dai maestri della “rinascita giuridica” dell’Università di Bologna. Proprio per questo rispetto all’interpretazione risorgimentale quella leghista, nel suo aspetto meramente economico, ha molte più ragioni da spendere. Nessuna velleità indipendentista o di liberazione dal potere imperiale comunque: i comuni richiedevano unicamente di poter godere dei frutti delle regalìe così come facevano da più di un secolo e non volevano affatto mettere in dubbio l’autorità del Barbarossa tanto da concludere ogni patto della Societas Lombardiae con la formula “salva fidelitate Domino Imperatore”[8]. Numerosi furono gli scrittori e gli artisti (Pellico, Cantù, D’Azeglio, Hayez, Berchet, Mamiani, Verdi, Carducci) che s’impadronirono della vicenda la quale divenne un vero e proprio cavallo di battaglia soprattutto per la corrente neoguelfa. Difatti alcuni particolari contribuivano a rendere l’evento più favorevole all’interpretazione neoguelfa della “storia patria” dato che i comuni, guerreggiando accomunati sotto l’insegna della croce di San Giorgio, ebbero anche l’aiuto di Alessandro III (1159-81), in lotta anch’egli con l’imperatore, che nella trasfigurazione risorgimentale diveniva una figura molto simile al Pio IX del biennio liberale[9]. Interessante per valutare la componente ideologica di queste interpretazioni è analizzare brevemente la storia dell’opera poetica più conosciuta riguardante Legnano e gli eventi correlati: Il Parlamento di Carducci. Come è ben noto essa avrebbe dovuto essere la prima parte di un più vasto componimento, intitolato La battaglia di Legnano, che avrebbe trattato anche della battaglia in sé e della fuga del Barbarossa. Composta la prima parte tra il 1876 e il 1879, Carducci abbandonò definitivamente la stesura nel 1882, non a caso anno della stipulazione della Triplice Alleanza con la quale veniva meno l’ostilità risorgimentale antiaustriaca, sancendo l’alleanza dell’Italia con la Germania e l’Austria in chiave antifrancese. Anche Carducci, da sempre impegnato nella difesa delle posizioni governative, abbandonò il livore antiaustriaco arrivando a celebrare in una successiva poesia, Sui campi di Marengo, la figura stessa del fulvo imperatore. Il mito di Legnano, dimenticato dal Carducci e dall’establishment massonico-liberale, divenne pertanto ancor più vessillo del cattolicesimo liberale, tanto che il quotidiano dei cattolici liberali milanesi prese il nome di “La Lega lombarda”. Evidentemente essi si rifiutarono di ascoltare la ritrattazione di uno dei fondatori della corrente neoguelfa, Massimo d’Azeglio, che, ad anni di distanza dalle celebri tele dedicate alla vicenda, scrisse queste parole di epitaffio al mito di Legnano: “Noi moderni con le nostre idee, abbiamo fatto tanti eroi d’indipendenza dei congiurati di Pontida i quali, meglio studiati, si trovano essere stati dei vassalli in questione col loro Signore e che avrebbero dato del matto a chi avesse voluto mettere innanzi che il Barbarossa non era il loro sovrano[10].

Ogni uom di Ferruccio ha il core e la mano
Anche se l’inno venisse cantato con frequenza nella sua interezza, e non ci si limitasse alla strofa enfatica d’apertura, probabilmente ben pochi sarebbero capaci di comprendere chi fosse questo Ferruccio di cui si canta il coraggio (il core) e l’abilità militare (la mano). Su questo si è infatti abbattuta nel XX secolo la scure del “revisionismo” risorgimentale operato da Gramsci, il quale considerava Francesco Ferrucci e la Repubblica Fiorentina da lui difesa portatrice di posizioni reazionarie mentre i loro vituperati avversari filo-imperiali fautori del vero progresso[11]. Tralasciando questa discussione, tipica di un approccio post-hegeliano alla storia, la vicenda di Ferruccio e della difesa dell’effimera Repubblica Fiorentina (1527-30), assediata dalle truppe imperiali di Fabrizio Maramaldo diede vita a una serie di riprese romanzesche risorgimentali, la più nota delle quali da parte del neo-ghibellino Francesco Domenico Guerrazzi ne L’assedio di Firenze (1830). Il neoghibellinismo[12] trovò nella vicenda in questione tre cose che potevano fungere da appiglio alla propria visione politica: innanzitutto il repubblicanesimo, in secondo luogo la funzione repressiva operata dall’impero e, infine, il fatto che l’imperatore fosse stato sollecitato a intervenire dal Papa, segnalando così l’alleanza delle forze reazionarie di Chiesa e Impero. Naturalmente il repubblicanesimo aristocratico della Repubblica Fiorentina aveva poco a che vedere con il repubblicanesimo mazziniano sul quale il Guerrazzi avrebbe voluta veder stabilita l’unità d’Italia, mentre l’alleanza papato-impero è da situare nel particolare contesto dell’epoca. Infatti se è vero che la Repubblica Fiorentina fu repressa per ristabilire la signoria su Firenze di Alessandro de’ Medici, parente del Papa Clemente VII (anch’egli Medici), è anche vero che lo stesso abbattimento della sovranità medicea tre anni prima, nel 1527, era stato apertamente aiutato dalla calata nella penisola dei lanzichenecchi al soldo dell’Imperatore, culminata col Sacco di Roma, atto punitivo di Carlo V nei confronti del Papa mediceo unitosi alla Francia nella Lega antiasburgica di Cognac. Nel 1529 però con la pace di Barcellona vennero ristabiliti cordiali rapporti tra Clemente VII e Carlo V, che si premurò di accondiscendere alla richiesta papale di restituire Firenze alla sua casata ponendo fine alla Repubblica Fiorentina. La battaglia decisiva tra i repubblicani fiorentini, guidate dall’invitto Ferrucci, e le truppe imperiali di Fabrizio Maramaldo avvenne a Gavinana il 3 agosto 1530 e in quell’occasione i fiorentini furono sconfitti, forse a causa del tradimento di Malatesta Baglioni, compagno d’armi di Ferrucci. Dopo la battaglia secondo alcuni Maramaldo uccise il Ferrucci con una pugnalata oppure, secondo altri, si limitò a ferirlo prima che altri soldati eseguissero la condanna a morte. A questo punto i repubblicani fiorentini esiliati incominciarono ad elaborare la leggenda del Ferrucci: fu in particolar modo Benedetto Varchi, nella sua Storia fiorentina, commissionatagli ma poi rigettata dai Medici, a inventare la famosa vicenda secondo la quale Maramaldo avrebbe pugnalato lui stesso il Ferrucci già ferito a morte il quale avrebbe risposto alla pugnalata con le parole: “Vile, tu uccidi un uomo morto”. La circostanza non è riferita da nessun altro storico, neppure dall’altro esule repubblicano Donato Giannotti che si limita ad indicare che Maramaldo vilmente lo sfregiò in volto con una pugnalata. Difficile è affermare se la versione repubblicana corrisponda al vero, certo è che l’esecuzione del Ferrucci fino al XIX secolo non pesò in alcun modo sulla sua figura e la sua reputazione di condottiero e la vicenda in questione fu considerata episodio normale in uno scontro come quello[13]. E’ opportuno comunque segnalare l’opinione di storici più vicini alla fazione imperiale i quali tendono a demitizzare la figura di Ferrucci ed ad assolvere, quanto meno parzialmente, quella di Maramaldo, che da questa vicenda guadagnò il vile significato attribuito al suo nome. Secondo il lucchese Donato Ori il Ferrucci, ben lungi dall’aver affrontato coraggiosamente la sconfitta e la morte, avrebbe offerto dei soldi al Maramaldo per comprare la propria liberazione, causando così la reazione stizzita del vincitore. Comunque sia è certo che il rapporto tra Maramaldo e Ferrucci non era quello tra due normali generali. Evidentemente tra di loro doveva esserci un astio particolare causato da precedenti scontri, accresciuto dal fatto che, come racconta Paolo Giovio[14] seguito a ruota da Guicciardini[15], Maramaldo si sarebbe vendicato del Ferrucci il quale, qualche mese prima, aveva fatto impiccare un suo emissario a Volterra tanto da guadagnarsi una cospicua taglia sulla testa da parte del Maramaldo, il quale si sarebbe limitato a eseguire la condanna a morte, con la colpa di averlo fatto su un ferito. Forse lamano di Ferruccio non fu tanto meno crudele e poco cavalleresca di quella del Maramaldo!
[1] Verso il 150° dell’Italia Unita: tra riflessione storica e nuove ragioni di impegno condiviso, pronunciato a Roma presso l’Accademia dei Lincei, 12 febbraio 2010, reperibile all’indirizzo:www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=1784.
[2] Questa categoria intende mostrare come il Risorgimento sia stato l’importazione dei valori della Rivoluzione francese nella penisola. Abbandonata nel XX secolo, era invece molto comune nel XIX ed utilizzata anche da Manzoni, in chiave positiva, nel saggio La Rivoluzione Francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859.
[3] F.Cardini, Un’Italia senza cuore?, in «Avvenire», 23/02/2010.
[4] A.G.Barrilli (a cura di), Scritti editi ed inediti di Goffredo Mameli, Società ligure di Storia Patria 1902, p. 338.
[5] G.Carducci, Goffredo Mameli, in Poeti e figure del Risorgimento, Bologna 1939, p. 369.
[6] Proposto nell’ Histoire des républiques italiennes du moyen âge in sedici volume scritto tra il 1807 e il 1818. E’ evidente l’implicita anticattolicità nell’idea della decadenza post-comunale.
[7] I.Montanelli, L’Italia dei comuni. Il Medio Evo dal 1000 al 1250, in Storia d’Italia, Milano, RCS quotidiani 2003, vol. I, p. 521.
[8] F.Cardini, La vera storia della Lega Lombarda, Milano, Mondadori 2003, p. 74.
[9] Soprattutto nell’opera dell’abate L.Tosti osb, Storia della Lega Lombarda, Tipografia di Montecassino, Ivi 1848.
[10] F.Cardini, La vera storia…, p. 133
[11] A.Gramsci, Passato e presente, Roma, Editori Riuniti 1996, p. 60.
[12] Anche  il neoguelfo D’Azeglio comunque parlò della vicenda nel suo Niccolo de’ Lapi ovvero i Palleschi e i Piagnoni (1841), nei quali difende la Repubblica fiorentina, prendendo in particolar modo il punto di vista della fazione “piagnona”, ossia degli ultimi seguaci di fra Gerolamo Savonarola, apertamente repubblicani e avversi al Papato.
[13] M.Arfaioli, Maramaldo Fabrizio, in Dizionario Biografico degli italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana 2007, vol. 69, p. 399.
[14] P.Giovio, Historiarum sui temporis, in Pauli Iovii Opera, Roma, Istituto poligrafico dello Stato 1964,  t.IV, p. 187.
[15] F.Guicciardini, Storia d’Italia, in Id., Opere, Milano-Napoli, Ricciardi 1961, p. 1047.

La virtù di fede

di don Pierpaolo Petrucci 

Moretto da Brescia (Alessandro Bonvicino) - Allegory of Faith
La prima cosa che la Chiesa ci fa chiedere, il giorno del nostro battesimo, è la fede per avere la vita eterna e questo ci mostra tutta l’importanza di tale virtù che deve illuminare la nostra vita fino ad aprici le porte del Paradiso, ove scomparirà per lasciar spazio alla visione beatifica. La crisi attuale nella Chiesa è una crisi dottrinale che riguarda la trasmissione e la professione della fede. Per questo è più che mai importante approfondire questa virtù così fondamentale per la nostra vita e indispensabile per la salvezza.
La fede è particolarmente attaccata oggi. e si direbbe che in vasti parti del mondo stia scomparendo. Il 13 luglio 1917 la Madonna a Fatima, iniziava la terza parte del  segreto rivelato ai tre pastorelli con queste parole: “Nel Portogallo si conserverà sempre il dogma della fede”, lasciando intendere così che essa si perderebbe altrove. Effettivamente viviamo un’epoca in cui l’uomo moderno, soprattutto in Europa, si sta allontanando sempre di più dalla concezione del mondo ispirato dalla fede.
Le verità che hanno generato la civilizzazione cristiana, sono attaccate e stravolte in seguito ai cambiamenti della società negli ultimi decenni e soprattutto a causa delle mutazioni dottrinali, nella Chiesa dopo l’ultimo concilio.
Proprio in nome della fede e per conservarla, Mons. Lefebvre e poi la Fraternità San Pio X sono entrati in conflitto con le autorità ecclesiastiche in una apparente disobbedienza.
Ma cosa è precisamente la fede? Qual è la sua certezza? Quale influenza deve avere nella nostra vita?
In ordine di tempo è la prima virtù che ci avvicina a Dio, facendocelo conoscere come è in se stesso. San Paolo la definisce come “la sostanza delle cose che speriamo”[1]. Per essa infatti crediamo quelle verità che siamo chiamati a contemplare eternamente un giorno in Paradiso. Essa è già, in questo senso, l’inizio della vita eterna.
Nell’attesa di contemplare Dio faccia a faccia, durante il nostro pellegrinaggio terreno, la fede ce ne dà una certa conoscenza, anche se oscura e lontana, e ci indica i mezzi per giungere a lui.
Conoscere il vero Dio, ciò che ha fatto per noi e ciò che siamo per lui è la garanzia e la condizione stessa della vita eterna poiché, come ci dice Gesù: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo”.[2]
Per darci questa conoscenza che sorpassa le nostre capacità naturali, Dio si è rivelato a noi. Dopo averci adottato come figli tramite la grazia santificante che trasforma radicalmente la nostra anima, innestandola nella vita divina, egli si è fatto conoscere come è in se stesso, nel suo intimo mistero, poiché per i figli non vi sono segreti. La conoscenza che ci dà la fede è fondata sull’autorità di Dio, verità infallibile, e quindi ci comunica certezze superiori ad ogni conoscenza naturale ed è condizione essenziale per giungere un giorno alla contemplazione di ciò che abbiamo creduto. Infatti per meritar il fine soprannaturale a cui siamo chiamati e che consiste nella visione beatifica, occorre porre in questa vita atti proporzionati al suo conseguimento. In questo senso S. Paolo afferma che “Chi si avvicina a Dio deve credere…”[3], e ancora “Senza la fede non si può piacere a Dio” poiché “la fede è la sostanza delle cose che speriamo di cui non abbiamo l’evidenza”[4].
Questi primi elementi ci consentono già di analizzare la virtù di fede.
Essa ci permette una conoscenza di verità che superano la nostra capacità intellettiva perché soprannaturale nel suo oggetto che è Dio in se stesso, nel suo mistero ineffabile.
Ma pur facendoci conoscere nel mistero e quindi in una certa oscurità, la fede produce in noi una certezza assoluta poiché fondata sull’autorità di Dio che rivela e che non può né ingannarsi né ingannarci.
Nell’ordine puramente naturale vi sono dei misteri per la nostra intelligenza, come per esempio l’origine della vita, la causa di certe malattie, la dimensione dell’universo. Non dobbiamo essere sorpresi che in Dio vi siano misteri che superano la nostra ragione, senza però contraddirla.
La nostra intelligenza può giungere alla conoscenza certa, anche quando una proposizione non è evidente né in se, né nei suoi principi, ma ci è fatta conoscere da una persona competente e degna di fede. Perché l’assenso dell’intelligenza sia prudente, occorre verificare quindi prima di tutto la scienza e la veracità della persona che parla, poi il fatto della sua affermazione cioè che sia proprio questa persona degna di fede ha parlato. Questa doppia considerazione produce in noi ciò che si chiama un giudizio di credibilità.[5]
L’atto dell’intelletto che aderisce in queste circostanze è chiamato fede. Essa può essere umana, o divina.
La fede umana è l’assenso che la nostra intelligenza da, per esempio, ad un professore di geografia che ci parla dell’Australia. E’ una persona competente, credibile, quindi anche se non abbiamo mai visto l’Australia ne crediamo l’esistenza.
La differenza con la fede divina è che le verità che crediamo sulla testimonianza di Dio sorpassano la nostra ragione e non possiamo comprenderle, anche se non la contraddicono.
Poiché poi si tratta di una virtù soprannaturale le nostre facoltà devono essere elevate dalla grazia che ci rende capaci di atti che superano le possibilità della nostra natura.
Per quel che riguarda la fede divina l’adesione è determinata dal fatto che Dio ci ha parlato e quindi dobbiamo crederlo, poiché egli è la verità suprema che non può né ingannarsi né ingannarci, anche se la nostra ragione non può comprendere perfettamente i misteri che ci fa conoscere.
In altre parole l’oggetto della fede ed il motivo, per cui crediamo è Dio in quanto ci rivela delle verità che superano la ragione naturale dell’uomo.
Dalla rivelazione divina nasce nell’uomo l’obbligo morale di aderivi. Il rigettare le verità rivelate, una volta conosciute, è un peccato gravissimo poiché comporta il rifiuto di Dio come nostro fine ultimo e quindi ci allontana da lui in questa vita e ci preclude la l’accesso alla beatitudine in quella futura.
Gesù ammonisce categoricamente nel Vangelo: “Chi non crederà sarà condannato”[6].
La genesi dell’atto di fede
All’obbligo di credere corrisponde quello di poter riconoscere con certezza l’origine divina della rivelazione. Perché il nostro atto di fede sia prudente, dobbiamo essere certi che sia veramente Dio che parla.
Molte religioni si presentano come rivelate, una sola può essere autentica poiché Dio che è la verità stessa non può proporre alla nostra credenza dottrine contraddittorie.
Il creatore non poteva lasciarci nell’ambiguità su di un punto così importante per il nostro destino eterno.
Richiedendo da un parte l’adesione totale alla sua rivelazione, doveva, dall’altra, darci tutti i segni necessari per poterla riconoscere senza alcun ombra di dubbio.
Per questo egli l’accompagna con segni sensibili soprannaturali che ne mostrano l’origine divina e ne sono come un sigillo di veracità: i miracoli.
Il miracolo è un fatto sensibile, soprannaturale, la sospensione delle leggi della natura, che soltanto Dio, autore della natura, può realizzare.
Gesù durante tutta la sua vita pubblica ha affermato di essere il Messia, il Figlio di Dio e lo ha provato, realizzando le profezie dell’Antico Testamento, fatte centinaia di anni prima, compiendo numerosi miracoli sugli elementi, sulle malattie e persino sulla morte, profetizzando eventi futuri che si realizzeranno puntualmente come la distruzione di Gerusalemme e del tempio.
Tutti questi miracoli manifestano in maniera irrecusabile la divinità di Gesù Cristo e della sua dottrina. Il ruolo dell’apologetica consiste nel rendere ragione della nostra fede e mostrare, tramite i segni di credibilità che le verità soprannaturali sono credibili e devono essere credute, anche se non ne abbiamo l’evidenza. Esse sono infatti garantite dall’autorità di Dio che ne sigilla l’autenticità tramite i miracoli che ne accompagnano la rivelazione.
Fede ragione e libertà
La nostra ragione può provare in maniera scientifica che Dio esiste, nel senso filosofico della scienza, che si definisce come una conoscenza certa tramite le cause.
Dalla contemplazione dell’universo del mondo, dall’ordine che esiste nella natura, si deduce con certezza che vi è all’origine di essa una essere intelligente, poiché ogni effetto ha una causa proporzionata e non vi è ordine senza intelligenza che governa. Quest’essere, dirà S. Tommaso, è colui che tutti chiamiamo comunemente Dio.
La stessa ragione ci permette di concludere che il Creatore, in quanto intelligente, può rivelarsi all’uomo, ed è conveniente che lo faccia, accompagnando appunto la rivelazione con segni sensibili soprannaturali perché l’uomo possa riconoscerla come tale.
Interviene poi l’aiuto interno della grazia, che eleva l’intelligenza, fortifica la volontà dell’uomo, per aiutarlo a dare l’assenso soprannaturale della fede. Ma anche sotto l’influenza della grazia rimaniamo liberi. Ecco perché la fede è un dono…. che si può però purtroppo anche rifiutare.
Per dare un esempio concreto, basti ricordare come Gesù resuscitò Lazzaro, che giaceva nel sepolcro da quattro giorni ed era già in decomposizione, molti fra i giudei e la folla testimone del miracolo si convertirono, ma altri non vollero convertirsi e decisero di uccidere Gesù ed anche Lazzaro, per evitare che tutti credessero nel Signore.[7] Mistero della libertà umana, che può opporsi a questo dono gratuito di Dio, che è la fede, malgrado la forza dei segni soprannaturali.
Possiamo così definire la fede, in maniera più precisa, come la virtù per la quale l’intelligenza sotto la spinta della volontà e della grazia, aderisce alle verità soprannaturali che Dio ha rivelato.
San Tommaso ci spiega che la sua sede è l’intelletto[8] ma poiché non vi è l’evidenza delle verità credute, la volontà ha una grande parte nell’atto di fede ed è proprio essa che ordina l’assenso all’intelligenza, sotto la spinta della grazia.
L’oggetto della fede è essenzialmente soprannaturale: Dio nei sui mistero in quanto superano la ragione umana, come per esempio il mistero della SS. Trinità e quello dell’Incarnazione.
La trasmissione della fede
Poiché il deposito rivelato, contenuto nella la S. Scrittura, e la Tradizione, si è chiuso con la morte di S. Giovanni, il ruolo della Chiesa è quello di trasmettere intatto l’insieme delle verità di fede, senza la possibilità di aggiungervi niente di nuovo, ma approfondendo sempre di più e rendendo esplicito, ciò che è già rivelato.
La rivelazione infatti è esplicita quando è espressa a chiare lettere, come il mistero della Santissima Trinità, manifestato al Battesimo di Gesù, ma può essere anche implicita, quando cioè è inclusa in un’altra verità rivelata. Per esempio è rivelato esplicitamente che Gesù ha assunto una vera natura umana ed implicitamente, che ha un corpo ed un’anima come noi, poiché il corpo e l’anima fanno parte integrante della natura umana. Si parla poi di rivelato virtuale quando da due premesse, una di fede e l’altra di ragione, si giunge ad una conclusione chiamatateologica, perché fondata sulla fede con l’apporto, appunto, della ragione.
E’ il caso dell’esistenza del Limbo[9]. La fede ci dice che senza il battesimo non si può giungere alla salvezza e la ragione che vi sono bambini che muoiono senza battesimo, ma senza peccati personali. La conclusione teologica è l’esistenza di un luogo nella vita futura, distinto dal Paradiso e dall’Inferno.
La conclusione teologica può essere definita dalla Chiesa, ma anche quanto non lo è obbliga comunque ad un assenso poiché negarla significherebbe mettere in discussione anche la premessa di fede. Si commetterebbe così  un peccato grave contro la fede, anche se non si tratta ancora di un’eresia.[10]
Cos’è necessario credere
La fede è esplicita, quando si credono tutte le verità che Dio ha rivelato, conosciute da una buona formazione catechistica. Essa può essere anche implicita quando, pur non conoscendo tutte le verità rivelate da Dio, si è disposti a crederle.
Per giungere alla salvezza eterna è necessario credere, almeno implicitamente, tutte ciò che Dio ha rivelato.
Secondo S. Tommaso, dopo la venuta di Cristo, occorre la fede esplicita nel Mistero della SS. Trinità e in quello dell’Incarnazione e la Chiesa insegna che per poter battezzare o assolvere anche un morente ancora cosciente, occorre istruirlo almeno su questi due principali della fede.[11] In ogni caso la fede necessaria alla salvezza deve essere una virtù soprannaturale, proporzionata alla visione beatifica che dobbiamo meritare e che supera tutte le esigenze della nostra natura. Non è quindi sufficiente un’adesione a Dio, conosciuto tramite la ragione e ancora meno si può affermare che un “supposto ateo può avere un rapporto implicito con Dio che lo conduce alla salvezza” come certi teologi sostengono dopo il Concilio Vaticano II.[12] Questa dottrina è già stata condannata dalla Chiesa.[13]
La salvezza degli infedeli
Si pone così il problema della salvezza di coloro che non hanno mai conosciuto, senza propria colpa, Gesù Cristo e la sua Chiesa. Dio nella sua Provvidenza accorda ad ognuno le grazie sufficienti per giungere alla salvezza.
Resta fermo comunque il principio che occorre la fede soprannaturale per poter meritare il Paradiso. A colui che fa ciò che può, Dio non nega la sua grazia. Il pagano che vive lontano dal mondo civilizzato e dalla Chiesa ma cerca di seguire la luce della ragione per evitare il male e fare il bene, avrà dal Signore sicuramente, a un dato momento, la grazia per giungere alla fede. Dio potrà servirsi di una ispirazione interiore, di un missionario, come ha fatto con il centurione Cornelio, inviandogli S. Pietro; oppure potrà utilizzare il ministero degli Angeli. Egli non abbandona nessuno e se qualcuno si perde è per propria colpa.[14] Tutte queste grazie sono concesse per mezzo della Chiesa Cattolica, di cui è necessario essere membri per giungere alla salvezza, tramite il sacramento del Battesimo oppure per il desiderio esplicito o almeno implicito di riceverlo, poiché “fuori dalla Chiesa non vi è salvezza”[15]. Si oppongono quindi alla dottrina cattolica le nuove affermazioni del Concilio Vaticano II, secondo cui vi sarebbero valori di salvezza in altre religioni.[16]
 La professione della fede
Secondo San Tommaso, il primo atto umano, di cui l’uomo è responsabile, è o un atto di amore di Dio, o un peccato mortale, da ciò se ne deduce il precetto divino di porre un atto interno di fede, appena si ha l’uso della ragione. Si comprende così l’importanza di amministrare il battesimo al più presto e dell’educazione cristiana, per orientare subito il bambino verso Dio, suo fine ultimo.
In varie occasione durante la vita, quando si riceve un sacramento, nelle prove, nelle tentazioni, soprattutto al momento della morte, è necessario ricorrere a Dio con atti di fede ardenti. Se si è tentati non è il momento di cercare argomenti, ma è necessario resistere con fermezza poi, quando la pace ritorna, allora è il momento di approfondire i motivi di credibilità del dogma. Soprattutto oggi, a causa degli attacchi che la fede subisce pubblicamente, è fondamentale incrementare la propria formazione cristiana e cercare le ragioni della nostra fede, nello studio dell’apologetica. La terribile crisi dottrinale attuale, ci obbliga ad essere particolarmente vigilanti e conoscere ciò che la Chiesa ha insegnato nel suo magistero perenne, in modo da non essere vittima di quello che Mons. Lefebvre chiamava “il colpo maestro di Satana”: disubbidire a Dio e allontanarsi dalla fede di sempre, in nome dell’obbedienza all’autorità religiosa. Non dimentichiamo che l’autorità è in funzione della fede e non il contrario. S. Paolo ammonisce nell’epistola ai Galati: “Anche se noi stessi o un angelo del Cielo venisse ad annunziarvi un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunziato, sia egli anatema”.[17]
La professione esterna della fede poi è necessaria tutte le volte che il nostro silenzio potrebbe essere interpretato come una negazione di essa. Non dobbiamo nasconderla per rispetto umano poiché la franca affermazione della fede è una grande testimonianza di amore verso Nostro Signore.
Gesù dice nel Vangelo: “Se uno mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’ io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli. Se invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’ io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”.[18] Ogni volta che il nascondere, o tacere la nostra fede può sottrarre onore a Dio, farci passare da non cristiani, scandalizzare, si offende gravemente il nostro Creatore.
Al contrario, il primo apostolato, molto fruttuoso ed efficace, è quello di manifestare pubblicamente la fede,  e confermarla con una vita vissuta in maniera coerente.
Se l’autorità pubblica, o privata vuol farci porre degli atti contro la fede, come nel caso degli imperatori romani, che volevano far bruciare ai cristiani qualche grano d’incenso agli idoli, è obbligo morale rifiutare, anche se si tratta di perdere la vita, come lo hanno fatto i martiri. Non si può neppure fingere, come facevano coloro che sono stati chiamati “libellatici” ai tempi delle prime persecuzioni. Non sacrificavano, ma compravano il libello, decreto che testificava che avevano sacrificato agli idoli, commettendo così ugualmente un grave peccato di scandalo.
Oggi, di fronte agli errori penetrati nella Chiesa è fondamentale reagire con una pubblica professione di fede nei confronti dell’autorità, soprattutto se si ha il dovere di insegnare e si fa parte della gerarchia ecclesiastica. Questo dovere incombe anche se ciò dovesse comportare conseguenze per la propria carriere o eventualmente persecuzioni da parte dei superiori.
E’ la strada che prese coraggiosamente mons. Lefebvre, nei confronti delle novità distruttrice, professate nell’ultimo concilio, e riguardo la nuova liturgia a tendenza protestante.
Per questo, per la Fraternità San Pio X, sarebbe inaccettabile un riconoscimento giuridico che comporterebbe il tacere su questi errori che stanno distruggendo la fede nelle anime e paralizzano la forza missionaria della Chiesa.
Proprietà della fede soprannaturale
L’atto di fede è una libera adesione alle verità rivelate e la Chiesa ha sempre condannato le conversioni forzate. Questo però non significa che non vi sia l’obbligo morale di credere e neppure che lo stato non possa impedire la pubblica diffusione degli errori delle false religioni. Infatti, come insegnava il Papa Pio XII, “Ciò che non corrisponde alla verità e alla legge morale non ha il diritto oggettivo all’esistenza alla propaganda o all’azione”[19]
Se la Chiesa insegna che nessuno deve essere costretto ad abbracciare la fede con violenza, le false religioni non hanno in se nessun diritto a propagare i loro errori nella società civile, anche se, per evitare un male maggiore, possono essere tollerate.[20]
Questa dottrina cattolica fu totalmente abbandonata dalla Dichiarazione sulla Libertà religiosa del concilio Vaticano II che riconosce alle false religioni, un diritto fondato sulla natura, a non essere impedite di propagare i loro errori.[21]
La fede, quando è animata dalla carità, si dice formata, ed è questa che ci condurrà alla salvezza. Il peccato mortale priva della vita soprannaturale, della carità e della grazia di Dio, ma non distrugge la fede, a meno che non sia direttamente contro questa virtù. Essa allora rimane in noi, ma divieneinforme e non è sufficiente per la salvezza poiché, come dice  l’apostolo S. Giacomo, senza le opere è morta.[22]
I vizi opposti alla fede.
Si può peccare contro la fede per omissione quando l’atto interno ed esterno è richiesto, come abbiamo visto in precedenza, ma anche per ignoranza colpevole (detta anche crassa o supina) quando si è negligenti nell’ istruirsi o, ancora peggio, si rifugge l’istruzione religiosa per non voler sottostare agli obblighi morali che essa comporta ed essere così più liberi di gestire la propria vita senza costrizioni morali (ignoranza affettata). Questa attitudine, gravemente colpevole, porta alla cecità spirituale ed ha per conseguenza quasi inevitabile la dannazione eterna.
Vi sono poi i peccati di azione contro la fede. Quelli per eccesso, come la credulità che si manifesta in diversi modi. La corsa per esempio alle apparizioni private, senza discernimento; la sete del contatto diretto con il soprannaturale per la ricerca di carismi straordinari come avviene per esempio nei movimenti cosidetti carismatici: parlare in lingua, dono dei miracoli, etc. Lo Spirito Santo e le sue grazie ci sono concessi per la Chiesa tramite i sacramenti che ne sono la via ordinaria. I grandi mistici hanno messo in guardia contro una ricerca disordinata del soprannaturale che può aprire la porta a molte illusione ed anche al preternaturale diabolico, come spiega molto bene S. Giovanni della Croce.[23]
L’apostolo san Giovanni nella sua prima epistola ci insegna di non credere ad ogni spirito, ma prima di provare se vengono da Dio, “poiché molti pseudo profeti sono venuti nel mondo”.
Altro peccato contro la fede è la superstizione che consiste nel dare un culto divino a creature, oppure un falso culto al vero Dio. Non è mai lecito per un cattolico partecipare attivamente a riti di false religioni, perché questo farebbe pensare che si aderisce alle erronee dottrine che essi manifestano.[24]
La nuova liturgia realizzata a scopo ecumenico non solo non esprime più chiaramente la dottrina cattolica sulla Messa, ma propone positivamente nei suo riti una nuova concezione della Messa, del sacerdozio e dell’eucaristia, che si avvicina più al credo protestante. Per questo essa è pericolosa per la fede e quindi il dovere di proteggerla e professarla ci obbliga a non parteciparvi.
Altra grave mancanza contro la fede è l’infedeltà, cioè il non credere. Quando qualcuno, senza propria colpa, ignora le verità della fede, si trova nell’ ignoranza invincibile e quindi non colpevole. Ma quando si rigetta la fede conosciuta, come per esempio il pagano dopo averne ascoltato la predicazione o il giudeo che non riconosce la divinità di Gesù Cristo, malgrado le prove che Egli ha dato, allora l’infedeltà è gravemente colpevole
L’apostasia dalla fede e l’eresia
Il termine eresia viene dal greco e significa scelta, infatti l’eretico è colui che, negando pertinacemente anche una sola verità di fede, sceglie cosa credere, fondando così la sua adesione non più sull’autorità di Dio che rivela, ma sul proprio giudizio. La virtù soprannaturale di fede è distrutta dall’eresia che è punita dalla Chiesa anche con la scomunica. Nel caso di conversione, prima di potersi avvicinare ai sacramenti è necessaria un’abiura dagli errori e l’assoluzione al foro esterno dalla pena incorsa.
Si parla invece di  apostasia quando vi è il rigetto volontario e totale della fede cristiana a cui si aderiva.
Questi peccati gravissimi privano l’anima della virtù primordiale per avvicinarci a Dio.
I pericoli per la fede
La Chiesa,che è madre, ha sempre voluto proteggere i suoi figli, mettendoli in guardia dalla comunicazione con gli infedeli e gli eretici. Per questo ha stabilito per esempio degli impedimenti matrimoniali con i non cattolici, ben conscia dei pericoli che tali unioni comportano. Anche su questo punto ha soffiato il vento del concilio. La nuova disciplina canonica per concedere la dispensa nei matrimoni misti, non prevede più l’obbligo per la parte non cattolica di battezzare i figli e di educarli nella fede della Chiesa,[25] mentre nell’antico Codice di Diritto Canonico era considera una condizione sine qua non.[26]
Sempre per proteggere i fedeli, la Chiesa aveva stabilito un catalogo di libri condannati come dannosi, l’indice dei libri proibiti. Data la diffusione della stampa un tale catalogo è diventato impossibile. Rimane però l’obbligo, dettato dalla stessa legge naturale, di fuggire tutto ciò che negli scritti può essere dannoso per la nostra anima. Colui che di sua libera volontà, senza un proporzionato motivo, frequenta cattive letture, si mette volontariamente nel pericolo e quindi è segno che vuole il peccato e ne è responsabile.
Fra i pericoli maggiori di perversione per la fede per i giovani vi è la scuola. La dottrina della Chiesa è chiara: non è mai lecito frequentare una scuola acattolica nella quale non si possa rimuovere il pericolo di perversione della fede.[27] Le autorità religiose hanno sempre cercato di fondare scuole che potessero dare una buona formazione intellettuale, morale, e religiosa, in armonia con le famiglie. E’questo un compito dal quale, sacerdoti e genitori, non possiamo esimerci, soprattutto oggi, data la corruzione intellettuale e morale a cui sono spesso esposti i figli, fin dalla più tenera età.
Per terminare, dobbiamo ricordare i pericoli che soggiacciono nella nostra natura ferita dal peccato originale, primo fra tutti la superbia. La fede infatti esige l’umile sottomissione della nostra intelligenza a misteri che la sovrastano e benché sia fondata sull’autorità di Dio che ne garantisce la verità, rimane molto difficile per l’uomo superbo, mentre l’umiltà ci dispone al riconoscimento dei nostri limiti ed a una semplice sottomissione al nostro Creatore. “Ti ringrazio, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate agli umili”.[28]
Altro grave ostacolo è l’impurità. L’uomo animale infatti, come ci ricorda S. Paolo, non può capire le cose di Dio mentre Gesù, nel Vangelo, ci ricorda che solo i puri di cuore vedranno Dio. Una vita vissuta nell’osservanza della legge del Signore dispone alla fede ed è garanzia di perseveranza. S Giovanni Crisostomo ci ricorda che: “come l’alimento è necessario al corpo, così la vita retta alla fede, come la nostra natura corporea non può durare senza cibo, così neppure la fede senza le buone opere”.[29]
Conclusione
Il sacramento della Cresima fa di noi, soldati di Gesù Cristo e ci garantisce la grazia di professare pubblicamente e senza vergogna la fede, anche di fronte alla persecuzione e alla morte. Questa professione è oggi tanto più necessaria, quanta la fede si sta spegnendo nel mondo, anche a causa della terribile crisi che sta attraversando la Chiesa. Ogni cristiano è chiamata ad essere apostolo, soldato di Gesù Cristo e quindi a lottare per instaurare il suo regno, prima di tutto nella propria anima, poi nella famiglia, nel luogo di lavoro, nella scuola, per riconquistare la società intera a colui che la ha redenta col proprio sangue. Questo è l’ideale che dovrebbe animare ogni cristiano, condizione indispensabile per generare quella che S. Agostino chiamava “La città di Dio”, una vera civiltà modellata secondo i principi della fede, per preparare gli uomini alla contemplazione eterna di quei misteri che hanno creduto.


[1] Ebr. 11,1
[2] Gv 17,3
[3] Ebr. 11,6
[4] Ebr 11,1
[5] Prummer, Manuale Theologiae Moralis, T I n° 480
[6] Mc 16,16
[7] S. Gv. cap. 11
[8] Somma teologica II II q.4 a.2
[9] Sommaire de Théologia dogmatique, Les editions du bien publique, 1969 Trois-Rivières, Canada p. 124, 204
[10] Vedere in proposito il magistrale studio di Marin Zola O.P. l’évolution homogène du Dogme catholique, Fribourg, 1924
[11] S. Officium d. 25 gennaio 1703, Innocenzo XI DS 2164
[12] Cfr. Giovanni Cavalcoli, http://buonenotizienews.blogspot.it/2012/07/la-conoscenza-implicita-di-dio-giovanni.html
[13] Concilio di Trento, sess. 6 can. 3 de justif.
[14] S. Tommaso De Veritate q 14, a. 11 ad 1
[15] Innocenzo III, 18-12-1208: “Noi crediamo di cuore e professiamo con la bocca una sola chiesa, non quella degli eretici, ma la santa Chiesa romana cattolica e apostolica, fuori dalla quale noi crediamo che nessuno si salvi”. Dz 792
[16] Cfr Unitatis redintegratio n° 3; Nostra aetate n° 2
[17] Gal. 1,8
[18] Mt 10,32 e ss.
[19] Pio XII Ci riesce, 6 dicembre 1953
[20] Vedere per esempio l’enciclica Libertas praestantissimum di Leone XIII, 20 giugno 1888
[21] Dignitatis humanae n° 2
[22] Giac. 2,26
[23] Salita del Monte Carmelo, L. II cap. 10
[24] Cfr Concilio Vaticano II e communicatio in sacris, La Tradizione Cattolica n° 83 (2011 n°3)
[25] Can. 1125
[26] Can 1060
[27]Instructio  S.C de Propaganda Fidei, 24 nov. 1875
[28] Lc 10,21
[29] S. Giovanni Crisostomo, Homil. De ver. Apost.

Fonte: http://radiospada.org/