sabato 24 novembre 2012

La Civiltà Cattolica anno XLVI, serie XVI, vol. I (fasc. 1071, 22 genn. 1895), Roma 1895 pag. 257-270. R.P. Raffaele Ballerini d.C.d.G. LA CHIESA ED IL SECOLO

I.

Come il secolo diciottesimo, nel suo cadere, si trasse dietro il filosofismo che l'aveva dominato; così il diciannovesimo si vede declinare insieme col liberalismo, che vi e trascorso di trionfo in trionfo. Il caso addolora al presente i liberali, che si sentono vincer la mano dai socialisti, in quel modo che, cent'anni fa, rattristò i filosofastri, i quali si sentirono scavalcati dai giacobini. Allora i più ingenui seguaci del filosofismo, sgomentati dalle conseguenze che ne pullullavano, si rivolsero alla Chiesa, per amicarsela e goderne l'appoggio: ed ora altresì i cultori più semplici del liberalismo ne invocano il soccorso, e la invitano a porger loro un aiuto.
Cadente il secolo decimottavo, gli uni gridarono alla Chiesa: —Unitevi con noi, a salvare la religione colla ragione! Al tramonto di questo secolo nostro, gridano gli altri: Conciliatevi con noi, per salvare, colla società, la libertà! Laragione del filosofismo, in quel tempo, dopo aver messo al mondo la libertà dell'ottantanove, era trascinata sotto la mannaia; siccome nel nostro, la libertà, uscita dalla ragione del filosofismo, basisce tra le bombe ed i pugnali. S'intende adunque che questa sorta di gente, nei pericoli odierni, implori la salvezza dalla Chiesa, che ha tanto maltrattata, conforme, nei pericoli suoi, quell'altra gente, dopo scherni e disprezzi, alla volta sua la implorava.
Pur troppo però i liberali nostri implorano dalla Chiesa una maniera di salute, che, se ella potesse ascoltarli, non solamente non gioverebbe loro, ma perderebbe lei stessa.
Vediamolo per parte, non del più feroci settarii, scredenti, giudei o giudaizzanti; bensì di quelli più miti, che professano anzi fede cristiana cattolica, ed amano rivestire il loro liberalismo di zelo religioso. Costoro fra noi sono scemati di numero: ma non sì, che non se ne contino parecchi un po' da per tutto, i quali, a voce, a penna ed a stampa, dimandano alla Chiesa questa specie di salute.

II.

Abbiamo sott'occhio le carte di alcuni di essi, che si danno aria di legione, e ci esprimono in breve quanto, circa questa materia, si e espresso da' loro pari contro la scuola così detta intransigente. Uno di questi, senza tante involture di parole, c'intima l'obbligo di preparare e di ottenere la conciliazione tra la Chiesa ed il secolo, e di predicarla quale nuova Crociata, essendo questa conciliazione, non che possibile, ma conseguibile in un avvenire non lontano.
Volendo supporre siffatti scrittori uomini di tanto buono intelletto, quanto li crediamo di buona intenzione, non si meraviglino se, prima di tutto, loro chiediamo di qual secolo essi ragionino. Il distingue frequenter degli scolastici e una gran regola, per evitare le confusioni.
Noi la seguiremo subito, rispondendo, che se essi discorrono del secolo preso in un senso, la conciliazione e un assurdo: se poi discorrono del secolo preso in un altro senso, dal lato della Chiesa, di conciliazione non v'è bisogno: essa è fatta, da che esiste; e il predicarne la nuova Crociata darebbe a ridere.
Gli avversarii per certo, da cattolici ben instrutti, devono sapere che, nel linguaggio evangelico, secoloe mondo son due sinonimi, e che dalla bocca divina di Gesù Cristo, tanto sono riprovati i figliuolihuius saeculi, quanto i figliuoli huius mundi, e come dalla stessa bocca sua fu definito, che questo mondo o secolo sussisteva tutto nel maligno, il quale ne è il principe, ossia nel demonio. Di qui la dottrina degli Apostoli, esortanti i fedeli di non conformarsi giammai a questo secolo, che è iniquo, servo delle concupiscenze, nemico di Dio, operatore di male; il cercare la cui amicizia e concordia, rimanendo fedele, sarebbe un cercare concordia fra luce e tenebre, amicizia fra Cristo e Belial. Perocchè, secondo la celebre sentenza d'un onesto pagano, corrumpere et corrumpi saeculum vocatur; questo secolo o mondo e tutto corruzione. Chiaro è pertanto, che non si può ragionare di conciliazione tra la Chiesa ed il secolo, preso nel senso evangelico ed apostolico.
Se poi alla parola secolovuole appropriarsi un senso, che escluda la malvagità ed includa verità e bontà naturale, il domandare alla Chiesa che con questo si concilii, non e solamente un presumere il falso, ma un offenderla addirittura. Che è mai di fatto la Chiesa, se non il regno di Dio creatore e redentore e della sua giustizia fra gli uomini? Or nulla di vero e di buono da questo regno può essere contrastato. Ogni verità ed ogni bontà di ordine naturale procede dal Dio creatore, che nulla odia di quello che ha fatto; e dal Dio redentore, che e venuto a ristaurare tutte le cose, può essere in qualche modo elevato ad ordine soprannaturale. La grazia e la fede, effetti della redenzione, suppongono la natura e la ragione, effetti della creazione. Ammesso dunque che il vocabolo di secolo ciò comprenda, è un far torto alla Chiesa l'invitarla a conciliarsi con quello, che essa ha per fine d'indirizzare alla gloria di Dio e di santificare.

III.

Ripigliano gli avversarii: Per secolo, va intesa la società moderna, dalla vostra scuola così oppugnata.
Spieghiamoci prima bene. Da chi hassi a fare la conciliazione? Dalla Chiesa, o dalla nostra scuola? Pare che dalla Chiesa; giacche eccitano la nostra scuola a predicarla, come già si predicarono le nostre Crociate. Quindi alla nostra scuola assegnano l'uffizio di precedere, ed alla Chiesa quello di seguire. Ma questa sarebbe temerità somma. La lezione si fa dal maestro ai discepoli, non dai discepoli al maestro. Nella Chiesa poi la missione di predicare si dà dalla Chiesa stessa, non si usurpa per sè da nessuno.
Del resto la nostra scuola qui sta per riempitivo, scopo della nostra Crociata dovendo essere (sono le proprie parole degli autori)«la conciliazione della Chiesa col secolo»; il qual secolo passa poi ad essere la «società moderna».
Premessa quest'avvertenza, per non intricarci nelle ambagi, torniamo a distinguere. Se per società moderna vogliono indicare il consorzio degli uomini, sopra i quali il regno di Dio e della sua giustizia si stende, e forma il corpo della Chiesa, notiamo che esso, per sè, non è antico, nè moderno, ma di ogni tempo. Perocchè vien detto ed è regnum omnium saeculorum, indefettibile nella durata ed immutabile nella sostanza, avente sempre l'unico e medesimo Dio, l'unico e medesimo Cristo, l'unica e medesima fede. Ne con questa sì fatta società, che è la sua famiglia, alla Chiesa occorre punto di conciliarsi: l'accordo vi è perfetto. Se invece vogliono indicare quella società, che si dice moderna, perchè modernamente, cioè dalla Riforma protestantica in giù, si e distaccata dalla Chiesa, e se ne disferenzia, o le si oppone nei principii e nella pratica della vita pubblica e privata; in tal caso essi rientrano nel mondo, o secolo sussistente nel maligno, col quale l'accordo sarebbe tra Cristo e Belial: ed e follìa immaginarlo.
Stando all'uso comune, sotto il qualificativo di moderna, dato alla società, vengono tutte le ribellioni, tutte le apostasie e tutte le enormezze, che dall'indipendenza della ragione rispetto alla Chiesa, bandita nel secolo sedicesimo, fanno capo all'indipendenza da Dio, dal decalogo e da ogni vincolo religioso e morale, che non sia il capriccio o la cupidigia di ciascheduno, intronizzata nel secolo nostro. Moderna in somma dicesi ed è quella società, che dal libero esame di Lutero è proceduta, per filo di logica, attraverso il filosofismo ed il liberalismo, fino al libero maneggio delle bombe alla Ravachol e degli stili alla Caserio; e variamente si denomina socialismo od anarchia.
Gli scrittori si vantano cattolici, e come tali debbono accettare per riprovata la ottantesima proposizione del Sillabo, fatto pubblicare dal Papa Pio IX, la quale, tradotta letteralmente, suona così: «Il romano Pontefice può e deve conciliarsi ed accomodarsi col progresso, col liberalismo e colla moderna civiltà [1]».In questi tre gerghi e racchiuso tutto quanto suol comprendersi nella locuzione più generica di società moderna. Ai cattolici scrittori, se veramente sono cattolici, sembra che ciò debba bastare.

IV.

— Tutto bene, replica un altro: ma voi formate una scuola intransigente, e vi arrogate di essere «veri rappresentanti della dottrina e degl'interessi della Chiesa, quando proponete, come unicamente legittima e possibile, la vostra soluzione del problema.» Noi, caro signore, non ci arroghiamo nessuna rappresentanza, nè a questa ambiamo. L'ambizione nostra si restringe ad essere discepoli fedeli del Papa e della Chiesa e, sotto la lor direzione, sostenere la santa dottrina che insegnano ed i nobili interessi che promuovono: non ad altro. La proposizione, che vi abbiamo messa innanzi, di chi è essa? È del Papa, non è nostra. E noi, mantenendola ferma, facciamo il nostro dovere. Se essa vi dà «come unicamente legittima e possibile una soluzione del problema» che non vi garba, tal sia di voi: non ve la prendete con noi per questo. Vi pare intransigente? Ditelo chiaro, non a noi, dietro le nostre spalle; ma a fronte scoperta, davanti al Papa. A lui, voi, cattolico, a lui, che riconoscete per Maestro e Capo della Chiesa, fate, se vi dà l'animo, i vostri rimproveri; non a noi.
Siamo accusati d'intransigenza. Ma quanto ai principii, ogni uomo d'onore e di buon sentimento se n'ha da gloriare. Capo degl'intransigenti è Dio stesso, il quale davvero non transige, circa l'osservanza del suo decalogo e la credenza ai suoi dommi. In materia di fede e di morale, l'intransigenza, pel cattolico, è obbligo stretto della sua professione. La mezza fede e la mezza onestà, non sono ammesse, nè da Dio, ne dalla Chiesa. Praticamente, nelle cose adiafore, contingenti, accessorie, si può transigere, ossia cedere, ove non sia implicato il diritto di Dio, o il danno del prossimo. Ma nelle cose assolute, il transigere e un tradire o Dio, o la coscienza propria, o le ragioni altrui: quindi le transazioni, in ciò, sono tradimenti.
I censori della nostra scuola indaghino un poco il perchè la Sinagoga mise in croce l'Uomo-Dio; e vedranno che fu per essere lui stato il più intransigente ed il più tenace maestro d'intransigenza, che apparisse al mondo: per aver sentenziato, che chi non è con lui, è contro di lui; per aver affermato, che non si può servire a un'ora stessa due opposti padroni; per avere intimata l'eterna dannazione a chi non crede in lui. E come il divino Maestro, così i suoi seguaci più illustri, gli eroi, i martiri, tutti, sul suo esempio, patirono supplizii, soggiacquero a persecuzioni, diedero il sangue e la vita, per imitarne la sublime intransigenza.
E gli avversarii ci recano a colpa l'andar noi dietro loro, lo star saldi alla loro scuola?

V.

— La intransigenza di cui menate vanto è mal fondata, insistono. La vostra scuola non vede nella società presente altro che male: male nei principii che l'hanno formata, male nei fatti che compie, male nelle ultime conseguenze, alle quali inevitabilmente precipita.
Voi esagerate le cose, o signori, vi rispondiamo. Non già noi, ma la Chiesa, che ci studiamo di seguire, nella società presente guarda e vede quello che vi è; il bene ed il male. Diciamo il bene, perocchè il puro male non si dà; chè sarebbe il nulla. Come il falso presuppone il vero, così il male presuppone il bene: e Satana stesso, che è il maligno per antonomasia, ha il suo bene, cioè il fondo amplissimo dell'essere suo fisico [fisico significa qui naturale, dal gr. φύσις: «il fondo amplissimo della sua natura angelica», N.d.R.].
La Chiesa pertanto non nega che la così detta società moderna abbia il suo bene: bene inseparabile dalla natura; bene provenuto dallo svolgimento delle facoltà umane; bene anche ereditato in reliquie dal cristianesimo d'ond'è uscita. Nè questo bene ella condanna, nè con questo bene ricuserà mai di mostrarsi conciliante e conciliata. Ed in mille guise lo prova. Colla sua liturgia, indirizza al Signore il bene dei telegrafi, delle ferrovie, delle macchine, delle navi, dei ponti, dei porti di mare, degli edifizii di ogni sorta. Dei trovati più recenti e di tutte le nuove istituzioni dirigibili a Dio, ella piglia quanto può, e ne usa a salvamento delle anime; com'è della stampa, delle associazioni, dei sindacati, delle opere di credito o di mutuo soccorso, per gli agricoltori e per gli operai. In sostanza, non è un bene qualsiasi nella società moderna, che la Chiesa non santifichi e non favoreggi. Ond'è falso, falsissimo, che «non si vegga nella società presente altro che male.»
Ma vi è il male, e male sommo, che di questa società ammorba le vene, le viscere ed il midollo delle ossa. Or come pretendere che ella transiga con questo male, lo accetti per bene, e se lo immedesimi in un amplesso di conciliazione? Il lume della ragione e della fede dà a divedere, che con ciò ella snaturerebbe sè stessa, cessando di essere quella colonna e quel firmamento di verità, che Dio l'ha nel mondo costituita a salute degli uomini.
Gli scrittori seguitano a lagnarsi perchè «si vede il male nei principii che questa società hanno formata». Ma come vederci il bene, postochè essi derivano dal pessimo dei principii, qual e l'apostasia del cristiano da Cristo e dell'uomo da Dio?
D'onde comincia la sua modernità?Prendete qual più vi piace degli storici, e scorretene, non dico il testo, ma l'indice, e troverete che tutti quanti, nel darvi la divisione delle tre grandi epoche della storia, assegnano la Riforma luterana qual termine alla media, e principio all'êra moderna. Ma la Riforma, considerata nell'essenza sua e come fatto morale, a che in germe si riduce? All'emancipazionedella ragione che protesta: protesta contro la Chiesa in religione, contro l'antichità in filosofia, contro l'autorità nello Stato, contro le tradizioni nella famiglia, contro ogni vincolo sociale nell'umanità. Il protestante logico, che oggi s'identifica col liberale coerente a sè stesso, è quello che sa dire e sostenere, fino all'ultima conseguenza, il terribile aforismo: — Il mio pensiero e la mia lingua sono indipendenti: labia nostra a nobis sunt: quis noster Dominus est? [2]Ed ecco come dal protestantesimo la società ammodernata è giunta all'ateismo.
Ci sentiamo ripetere continuamente, che la società moderna ha rotto coll'antica ogni attinenza: che fra il medio evo e l'età moderna intercorre un abisso: che gli uomini del progresso da quelli del regresso si disferenziano, non già per l'età, ma pei principii; i quali sono appunto i derivati dal protestantesimo. Or questo è quello che ha invaso la società, quello che serve di assioma fondamentale all'odierna politica, quello che guida l'operare dei Governi, i quali vantano in tutta la sua pienezza il carattere di ammodernati. Vi si unisca il soffio anticristiano del giudaismo, anima e vita della massoneria, per la quale esso domina ed agguanta le ricchezze della cristianità, e si avrà la somma dei principii formanti quella che si qualifica per società moderna.
Ed i nostri censori si meravigliano e deplorano, che la Chiesa, da loro designata sotto il palliativo di nostra scuola, ne vegga il male ed abborra dall'appropriarselo con una conciliazione?

VI.

Noi dubitiamo ch'essi veramente intendano quello che voglion dire, quando accennano a questi principii. Lascino perciò che noi ne schieriamo loro davanti non più che sette, tolti di peso dal Sillabodei tanti, che il Papa Pio IX ha proscritti. Se sono cattolici, come ci piace crederli, anzi se sono dotati di senso comune, come sono di certo, dovranno confessare che nè pur essi possono accettarli, perchè intrinsecamente assurdi e ripugnanti ad ogni criterio di natura, di ragione e di fede. E tuttavia non sono inventati, ma propriamente costitutivi, nel diritto e nel fatto, della società moderna. Eccoli per ordine e senza commenti.
I. Le leggi morali non abbisognano di sanzione divina, nè fa d'uopo, che le leggi umane si conformino col diritto di natura, o da Dio ricevano la virtù di obbligare.
II. La scienza della filosofia e della morale e le leggi civili possono e debbono affrancarsi dall'autorità civile ed ecclesiastica.
III. Il diritto consiste nel fatto materiale, e tutti i doveri degli uomini son vano nome, e tutti i fatti umani hanno forza di diritto.
IV. L'autorità non e altro, se non la somma del numero e delle forze materiali.
V. L'ingiustizia fortunata del fatto non apporta verun detrimento alla santità del diritto.
VI. E lecito il rifiutare obbedienza ai legittimi Principi, anzi il ribellarsi a loro.
VII. La violazione di qualunque più santo giuramento e qualsiasi azione scellerata e perversa, contraria alla legge eterna, non solo non è da rimproverare, ma è al tutto lecita e lodevolissima, quando per amore della patria si compia [3].
Aspro di molto dev'essere il suono, che questo eptacordo etico-giuridico della modernitàrende alle orecchie dei cattolici e cordati nostri censori. Qual meraviglia dunque che la Chiesa lo giudichi infernale e ricusi con orrore di ascoltarlo, non che di fargli plauso grazioso?
Abbiamo avvisato che i suddetti principii dalla società moderna, non solamente sono accolti in diritto, ma nel fatto sono applicati. Ed a convincersene, basta un'occhiata alla storia delle rivoluzioni dei cent'anni decorsi, in virtù delle quali essa si e venuta plasmando e stabilendo. Questa occhiata, avvegnachè rapida, alle ribalderie, alle ribellioni, alle guerre, ai latrocinii, agli eccidii, ai tradimenti, ai sacrilegii, alle proscrizioni, alle leggi empie ed infami di ogni specie, tra cui è sorta, giustifica coloro i quali «veggono male» nei fatti che la società medesima ha compiti e compie. Ma è egli possibile veder bene, se si cominci, verbigrazia, dalla decapitazione di Luigi XVI in Francia, e si termini negli scandali parlamentari e nelle ruberie bancarie dell'Italia ammodernata?
Gli scrittori ci biasimano ancora di «veder male nelle ultime conseguenze, alle quali la società inevitabilmente precipita». Saremmo curiosi di sapere, per vigore di qual raziocinio potremmo veder bene nelle mostruosità del socialismo e nella barbarie dell'anarchia, conseguenze finali dei principii che alla società moderna hanno dato vita. L'unico bene che ne potrebbe rilucere, sarebbe che queste conseguenze fossero come il baratro, dentro cui rimanessero sepolte per sempre le apostasie e le scelleraggini della modernità.

VI.

— Ma voi, aggiunge l'un d'essi, insegnate che la Chiesa, con questa società, non deve avere rapporti e che il porgerle una mano di salute è un rendersi complice del male, tradire la causa della verità e di Dio.
Nè da noi, ne da altri cattolici di senno mai si sono insegnate queste scempiaggini. Voi, signore, andate sempre innanzi col vostro ricamo sul filondente dell'equivoco. Altro è «avere rapporti» di misericordia; ed altro averli di concordia. La misericordia «porge una mano di salute» ai traviati: la concordia «rende complice» del traviamento.
Quanto alla misericordia, la Chiesa ne ha usata e ne usa alla società moderna, fino agli estremi limiti del possibile, co' suoi inviti, colla sua pazienza, co' suoi ammaestramenti, colle sue profferte di aiuti al ravvedimento, con tutte le industrie che uno zelo divino può suggerire. E n'è splendido argomento il Papa Leone XIII, instancabile nel promuoverne il ritorno nella buona strada, secondato in ciò dall'Episcopato, dal clero e dal fiore del laicato più operoso.
Ma quanto alla concordia, non parlando delle necessarie relazioni d'ufficio fra Chiesa e Stato, varie nei varii paesi, chiaro è che lo stringerla intorno ai principii ed ai fatti che costituiscono l'essenza della modernità, sarebbe un tornare all'assurdo della conciliazione di Cristo con Belial, di cui abbiamo ragionato più sopra; la quale per fermo «renderebbe la Chiesa complice del male e traditrice della causa della verità e di Dio»: il che non può accadere. Dissipato così l'equivoco, gli avversarii si avvedranno da sè medesimi, che anche l'accusa a noi fatta ed alla nostra scuola si scioglie in fumo. Quindi incongruo del tutto e fantastico è il monologo, da loro ideato nella propria mente e posto in bocca a noi: « — Lasciate che questa società compia tutta la sua evoluzione di pervertimento; l'eccesso del male porterà al ravvedimento; noi stiamo isolati; conserviamo, pure, incontaminate le nostre mani da ogni anche indiretta partecipazione dei fatti altrui; prepariamo il nucleo della società futura, società di redenzione, di riparazione, di salute.»
La finzione non è bella. Giammai non abbiamo tenuto questo discorso così crudo, nè conforme ad esso operato. Sappiamo al contrario che quella, la quale i nostri avversarii chiamano «scuola potente» dei cattolici, è potente perchè si lascia ammaestrare dal Papa, nulla ha risparmiato e risparmia per accostarsi alla gente della società moderna, per illuminarla, per iscuoterla, per ricondurla, quanto era ed è in poter loro, sulla strada buona. Ma che? Questa gente ha respinti i cattolici, come respinge la Chiesa, dalla quale tiene a punto d'onore il vivere separata: li ha trattati da nemici e flagello della sua civiltà, del suo progresso, della sua patria. Se i cattolici predicavano, s'è guardata di andare ad ascoltarli; se stampavano libri e giornali, non si è degnata di leggerli; se a lei si avvicinavano, n'è fuggita; se giungevano a convincerla, ha risposto con beffe e scrollate di spalle. Qual meraviglia che, a tanta pertinacia nell'errore e nell'iniquità, i cattolici così spregiati abbiano talora ridette le parole di Geremia, che Origene ascrive agli Angeli di Dio: Curavimus Babilonem, non est sanata, derelinquamus eam [4]? Alla fine dei conti, nessuno può essere salvato a suo dispetto. Se la società moderna vuole ad ogni costo traboccare nel precipizio, buon pro le faccia. Non è in poter dei cattolici l'impedirlo. Dal male suo Iddio caverà il bene altrui.
Senza dubbio, per prima cosa, si sono studiati di «conservar pure ed incontaminate le mani»: cioè di non accomunarsi colle idee e coi fatti di questa gente, essendo lor dovere, secondo l'Apostolo, di custodirsi immacolati dal lezzo di questo secolo [5]. Ma può darsene loro biasimo dal nostro censore? Oh che! presceglierebbe egli vederli a braccetto coi ladri della Chiesa, coi mercanti delle coscienze e coi truffatori delle banche, ed ammirarli prostrati in adorazione degl'idoli e del vitello d'oro della modernità? Via, lo scrittore, che vuol parere di buona intenzione, dovrebbe ringraziare il cielo che, fra tanta depravazione della fede e dell'onestà naturale, si conservi ancora «il nucleo della società futura» col cuor puro, la mente sana e le mani nette dalle nequizie liberalesche. Certo è che, se dal lato umano ancora vi è speranza che risorga una società di redenzione, di riparazione, di salute, questa non ha radice altrove che «in quel nucleo», il quale ha la sorte di trarre l'umor vitale dalla sua perfetta unione col Papa e colla Chiesa.

VII.

Se non che troppo sottile è il velo che ricopre la mira ultima della conciliazione tra Chiesa e secolo, tanto desiderata e patrocinata dagli avversarii. Eglino, in somma, la terrebbero assai bene avviata, nell'Italia almeno, quando i cattolici finissero di «stare isolati» e di conservare «pure le mani dai fatti» della dominante modernità. In una parola, esulterebbero se li vedessero, tutti raccolti intorno alle urne politiche, «porgere una mano di salute» al liberalismo cadente. Essi non lo dicono aperto, ma lo lasciano intendere fra le ambagi del loro fraseggiare. E perchè noi non soniamo a raccolta, nè sproniamo i cattolici verso queste urne, noi formiamo, «la scuola», nei loro scritti, così ingiustamente biasimata.
Sanno essi che la nostra scuola non esamina i comandi o i divieti del Papa: li segue. Per ragioni che, in un suo celebre discorso, il Santo Padre disse di ordine altissimo, egli ha vietato ai cattolici italiani il concorso alle urne politiche: dunque noi questo divieto osserviamo e tutti i cattolici italiani esortiamo ad osservare. Non si tratta per noi di cercare quali sieno queste ragioni, e di disputare se abbiano o no valore. Il Papa, duce e Maestro nostro, lo vieta; e ciò basta al cattolico, che obbedisce, non discute.
Ma ciò non toglie che parecchie di tali ragioni sieno manifeste, e sia pur manifesto il loro gran valore pratico. Un deputato del Parlamento italiano diceva tempo fa ad un pubblicista cattolico, il quale in tutto sta col Papa: — Voi clericali dovete ringraziare con cento mani Leone XIII, che vi ha tenuti fuori dell'ambiente pestifero di Montecitorio. Se vi foste entrati, quanti forse di voi ora non porterebbero in fronte il marchio dei deplorati;e quante macchie non brutterebbero la vostra bandiera, che soli voi nell'Italia potete mostrare immacolata! — Ecco una delle molte ragioni di gran valore, che giustificano il divieto del Papa.
Nè ci si dia sulla voce, perchè parliamo di divieto e non di consiglio. Fu già ripetuto più volte che il Non expedit era una trincea, dietro cui si appiattavano i cattolici obbedienti al Papa, per non incomodarsi, o cagione ad altri di essi di un pretto scrupolo, quasi che imponesse un dovere. Ma furono ciance. Il Non expedit, significato già dalla S. Penitenzieria di Roma, era ben più che un consiglio. Di fatto Leone XIII, sino dal luglio del 1886, volle reso pubblico un documento, nel quale si dichiarava che il Non expedit equivaleva al Non licet; e conseguentemente, non un consiglio era dato ai cattolici italiani, ma un precetto di astenersi dalle urne politiche; precetto che dura sempre, poichè fino ad ora non si è abrogato. E noi qui, per finale risposta ai nostri censori, volentieri lo ripubblichiamo nel testo suo latino ed ancora voltato in italiano, per la parte che dichiara l'espresso divieto, quale si legge negli Acta Sanctae Sedis, alle pagine 94 e 95 del volume XIX.

Ex S. Congr. S. R. U. Inquisitionis

Declaratio quoad responsum «Non expedit» datum a S. Penitentiaria, relate ad suffragium ferendum in politicis electionibus.
Illme et Rme Domine
Opinio invaluit apud dioeceses Italiae quamplurimas, politicas urnas adire licitum esse, ex quo S. Penitentiaria, quoad hoc percontata, tantummodo respondit «Non expedit.»
Ut omnis vero abiiceretur aequivocatio, SSmus Pater, audita sententia istorum EE. DD. Cardinalium, inquisitorum generalium, collegarum meorum, iussit declarari, quod «Non
expedire» prohibitionem importat. Ego autem, declarationem hanc dum A. Tuae communico, adiicere cogor, SSmum Patrem his in adiunctis firmammanutenere prohibitionem eiusmodi.
Romae, 30 julii 1886.
Addictissimus in domino
R. Card. Monaco.
Illmo e Rmo Signore
In parecchie diocesi d'Italia e invalsa l'opinione che sia lecito il concorso alle urne politiche, perchè la S. Penitenzieria, richiesta in proposito, ha risposto soltanto «Non expedit».
A togliere ogni equivoco, il Santo Padre, udito il parere di questi Emi Signori Cardinali inquisitori generali, miei colleghi, ha ordinato che si dichiari il Non expedit contenere un divieto. Ed io, nel comunicare alla S. V. questa dichiarazione, ho il dovere di aggiungere che il Santo Padre, nelle presenti circostanze, tiene fermo questo divieto.
Roma, 30 luglio 1886.
Affezionatissimo nel Signore
R. Card. Monaco.




Lo stesso Pontefice Pio IX spiega così la condanna della proposizione LXI del Sillabo (la n° 5 di quest'articolo):
«... essi vorrebbero anche che dichiarassimo formalmente di cedere in libera proprietà degli usurpatori le Province del Nostro Stato Pontificio. Con tale audacissima e inaudita richiesta vorrebbero che questa Apostolica Sede, la quale fu sempre e sarà il baluardo della verità e della giustizia, sancisca che la cosa ingiustamente e violentemente rubata può tranquillamente ed onestamente possedersi dall’iniquo aggressore; e così si stabilisca il falso principio che la fortunata ingiustizia del fatto non reca alcun danno alla santità del diritto.» Alloc. Iamdudum cernimus 18 marzo 1861.

NOTE:

[1] Romanus Pontifex potest ac debet cum progressu, cum liberalismo et cum recenti civilitate sese reconciliare et componere.
[2] Psal. XI, 4.
[3] Nel testo autentico delSillabo queste proposizioni si leggono al § VII, tra i numeri LVI e LXIV.
[4] Ier. LI, 9.
[5] Iac. I, 27.