giovedì 8 dicembre 2011

Secessione. Le vere cause della Guerra fra gli Stati.



tratto da: Il Domenicale, 28.6.2003 (anno II), n. 26, p. 6.

Che non fu affatto civile. Migliaia di morti voluti da Abraham Lincoln che si potevano evitare


Parlare di “guerra civile”, per indicare la più sanguinosa delle “guerre nordamericane”, è di per sé improprio. Dire “guerra civile” è accettare che i vincitori scrivano la storia, riducendo uno scontro tra universi culturali inconciliabili a un tafferuglio a misura di un Fiorenzo Bava Beccaris qualsiasi.

I miti circa la “guerra di aggressione nordista”, che si consumò tra il 1861 e il 1865, sono parecchi. Il primo è, ovviamente, che essa sia stata in qualche modo causata dalla “peculiare istituzione” della schiavitù. Eppure lo stesso Abraham Lincoln (il primo presidente Repubblicano alla Casa Bianca) ammise, in una lettera a Horace Greele, direttore del “New York Tribune”: «Il mio obiettivo in questa lotta è di salvare l’Unione, non di salvare o distruggere la schiavitù». Del resto, come ricordano i fratelli James Ronald e Walter Donald Kennedy, l’80% dei “sudisti” non possedeva schiavi: difficile che fossero spinti a prendere le armi soltanto per preservare una (esecrabile) “proprietà” altrui. Com’è difficile che lo fosse il generale Ulysses S. Grant, dal momento che quella di sua moglie era una famiglia di ‘slave-holder’.

Un autentico abolizionista come William Lloyd Garrison sosteneva da tempo un’alternativa ben diversa rispetto alla guerra, volendo che fosse il Nord a secedere per trasformarsi in una sorta di paradiso per ogni nero sfuggito alla sferza del padrone.

La guerra non si fece dunque per liberare gli schiavi; si fece – e questo fu sempre chiaro a Lincoln – per preservare l’Unione. Persino l’allora colonnello confederato Robert E. Lee ammetteva di non «poter pensare a una calamità più grande per questo Paese che la dissoluzione dell’Unione». Ma un Paese tenuto assieme dalle spade e dalle baionette, aggiungeva, non presentava ai suoi occhi alcuna attrattiva.

Radicalmente diverse le ragioni di Lincoln, che nel discorso d’insediamento alla presidenza tenuto il 4 marzo 1861 mise bene in chiaro che «l’idea centrale della secessione è l’essenza dell’anarchia».

Fu la secessione, non la schiavitù, a motivare la guerra. Ma pensare che essa sia stata scatenata dal desiderio di libertà del Sud sarebbe, ancora una volta, errato. Come ha evidenziato di recente Doug Bandow, Senior Fellow al Cato Institute di Washington, il famoso attacco “sudista” a Fort Sumter nel South Carolina, il 12 e 13 aprile 1861, non costituisce il primo episodio della “guerra civile”: fu semmai il pretesto, prontamente colto dal presidente, per darle inizio. Frank van der Linden, nel suo “Lincoln: The Road to War” (Fulcrum, Golden [Colorado] 1998), ricostruisce i passaggi che portarono Lincoln a guardare con favore la caduta di Fort Sumter, come un mezzo formidabile per cominciare uno scontro che egli attendeva con ansia.

Fu il Nord, non il Sud, a decidere che l’Unione valeva 600mila morti. L’alternativa, certo, sarebbe stata a portata di Lincoln: lasciare che la Confederazione seguisse la propria strada, accettando che quegli stessi princìpi che avevano giustificato la ribellione a re Giorgio III (quella che nel 1776 portò le ex Colonie britanniche in America Settentrionale all’indipendenza) scandissero i primi passi di una nuova unità politica. Ciò che vale per gli Stati del Sud, vale oggi per i più diversi movimenti secessionisti sparsi per il mondo: trattati sempre (e senza mai distinguere) alla stregua di terroristi, spesso presi a cannonate in nome dell’Unità. L’idea di Stato-nazione continua a grondare sangue.

Weaver e il Sud. Dixieland per sempre

Non si può comprendere l’adesione di Richard M. Weaver al sogno più intensamente nordamericano, se non si guarda al suo amore per il Sud. Le gesta di chi, tra il 1861 e il 1865, impugnò le armi contro la violazione, da parte di Washington, dei diritti dei singoli Stati dell’Unione sono per lui un autentico paradigma della più generale lotta della libertà contro l’oppressione. Così egli coniugò ragione e tradizione. È pur vero, infatti, che quando l’uomo perde la bussola delle consuetudini impazzisce (come mostra la traiettoria della folle meteora socialista), ma è altrettanto innegabile che non sempre ciò ch’è “antico” è ipso facto “giusto”.

La “rivoluzione” nordamericana del 1776 determinò la nascita di un’Unione su basi esclusivamente volontarie. Meno di un secolo dopo, si sprigionarono tensioni politiche ed economiche tali da rendere pressoché impossibile la convivenza sotto il medesimo tetto istituzionale. Fu per questo che il Sud – a partire dall’eroico governatore William Gist del South Carolina – fece appello al diritto di secessione, che si riteneva implicito nel patto costituzionale. Il presidente Abraham Lincoln (il primo Repubblicano alla Casa Bianca) replicò che l’unità era un valore in sé e che quindi andava tutelata a ogni costo. E lo suggellò con il rombo dei cannoni.

Weaver “vive” con grande senso di tragicità le vicende belliche e, poi, la difficile e vigliacca fase della Ricostruzione, il periodo compreso fra il 1865 e il 1877. Si capisce, allora, la sua ammirazione per il generale sudista Robert E. Lee, addirittura “filosofo”. Questi affermò, sulle alture di Fredericksburg (dove le armate ‘dixie’ prevalsero sugli avversari), che «è un bene che questo sia così terribile, altrimenti cresceremmo amandolo». Sono parole quasi stonate in bocca a un condottiero militare, per giunta baciato dalla vittoria. Eppure, nota Weaver, «qui abbiamo una acuta confessione della storica ambivalenza della razza umana verso l’istituzione della guerra, il suo disgusto morale contro quell’immensa forza distruttiva, accompagnato da una certa fascinazione per “il più grande dei giochi”».

Weaver fece propria la causa del Sud perché il Sud – di cui Lee rappresentava l’incarnazione più viva e profonda – era al tempo stesso libertà e tradizione. Nello sventolare della bandiera confederata, Weaver percepiva un denso retaggio fatto di libertà personale, fede cristiana, amore per l’indipendenza e per l’autogoverno. Come egli stesso riconobbe, citando le parole del vicepresidente sudista Alexander Stephens, «Se il centralismo deve finire per prevalere; se tutto il nostro sistema di libere istituzioni per come è stato costruito dai nostri comuni antenati dev’essere sovvertito, e se un impero dev’essere costruito al suo posto; se questa dev’essere l’ultima scena della grande tragedia che è in corso: allora, è certo, noi del Sud verremo assolti, non soltanto nelle nostre coscienze, ma nel giudizio dell’umanità, dalla responsabilità di una tale terribile catastrofe, e da tutta la colpa di un tale, gigantesco crimine contro l’umanità».
Un mondo perfetto

Un mondo perfetto. Il Sud non lo fu davvero, perché i mondi perfetti non esistono. Ma fu un mondo vivibile.

Subì la prima grande repressione sui civili, che da allora è divenuta una triste costante di tutte le guerre. Subì l’orribile rappresaglia, ma non la comprese. Era estranea al suo codice cavalleresco, quello che era stato capace di generare un ‘modus vivendi’ con i “diversi”.

Come il sergente Ayúnini (1835-1899) detto "Swimmer", delle Qualla Lands, in North Carolina, Compagnia A, Legione Thomas, composta di cherokee. Non parlava una parola d’inglese, ma fu uno dei molti indiani che combattè per i CSA. Così come molti neri, che preferirono i “padroni” ai “liberatori”. Di foto simili è colmo “The South Was Right!” (Pelican, Gretna [Louisiana] 1994) di James Ronald e Walter Donald Kennedy. Oggi non lo ricorda più nessuno. Tranne il Sud.

Stand Watie , capo dei Cherokee sanguemisto, militò nell'esercito Confederato.