giovedì 15 dicembre 2011

Quel grande sogno sul Danubio.



tratto da: Il Sabato, 19.11.1988, n. 47, p. 34-35.

La fine dell'Impero Austro-ungarico
Autunno 1918. Finisce la Prima guerra mondiale. Ma con lei termina anche un'epoca. Vaclav Belohradsky è tornato per noi sulle orme di quel magico regno che si estendeva nel triangolo teso tra Praga, Budapest e Vienna



1. La dissoluzione dell'Impero austro-ungarico è il fatto più denso di conseguenze della Prima guerra mondiale. È cominciato allora il calvario dei popoli del Danubio triturati nei loro nuovi Stati nazionali, sorti dalle rovine dell'Impero, dalla risvegliata aggressività dei loro vicini prepotenti. Quanta miseria, quanto vagabondare senza patria, quanti profughi strappati alla loro lingua e ai loro costumi, quanta crudeltà scaturirono dalla distruzione di quella «koiné» che univa insieme i popoli del vecchio impero! Il caldarrostaio Josef Branco dal romanzo «Cripta dei Cappuccini» di Josef Roth non può più vendere le sue castagne senza un visto. «Questo è solo un caldarrostaio ma vedete? E' addirittura un mestiere simbolico... per la vecchia monarchia. Questo signore ha venduto le sue castagne ovunque, in metà dell'Europa... Dappertutto, ovunque si mangiassero le sue caldarroste era Austria, governava Francesco Giuseppe. Oggi niente più caldarroste senza visto. Che razza di mondo!». E' successo qualcosa di irreparabile in Europa: dappertutto ora la terra è irta di confini a filo spinato in cui gli occhi più avveduti intuiscono già la mortifera geometria dei futuri campi di concentramento.

Eppure l'Impero era da tempo svuotato all'interno e tenuto insieme solamente dal perfetto funzionamento dell'amministrazione statale. L'Imperatore non era che il primo dei funzionari a cui ogni funzionario dell'Impero assomigliava. Circolava del resto una leggenda secondo cui l'Imperatore era morto già da un pezzo, ma nessuno se ne accorgeva perché il suo posto era stato preso da uno dei suoi funzionari.

Il maggiore storico boemo Palacky rifiuta di partecipare al Congresso pangermanico di Francoforte (1848) con una lettera in cui definisce in un modo rimasto celebre la ragion di Stato austriaca: «Sapete che nel sud-est europeo, lungo il confine con l'Impero russo vive una moltitudine di nazioni diverse per origine, lingua, storia e costumi... tra cui nessuna è forte abbastanza da poter resistere con successo alla potenza del suo vicino minaccioso da sola; potranno riuscirvi solo a condizione che un'unione stretta e solida le leghi insieme. La vera arteria vitale di questa necessaria unione delle nazioni è il Danubio, se vorrà conservare la sua validità ed efficienza essa non dovrà mai far deviare il suo perno da questo fiume. Certamente, se lo Stato austriaco non esistesse già da secoli, dovremmo adoperarci perché sorgesse nell'interesse dell'Europa e dell'umanità intera... Lo Stato austriaco rinnega e disconosce oggi, colpito da una tragica cecità, il suo vero fondamento giuridico e morale».

La partecipazione austriaca alla Prima guerra mondiale è il culmine di questa cecità in quanto ha schierato i popoli del Danubio dalla parte di uno dei loro nemici naturali cioè dalla parte della Germania. L'anima vera dell'Austria era la sua periferia danubiana dispersa e multiforme. Fino all'ultimo invece l'espressione «la monarchia danubiana» veniva percepita come un insulto dagli austriaci di lingua tedesca che vedevano nel germanesimo il centro naturale dell'Impero. Troppo pochi erano quelli che hanno avuto l'immaginazione sufficiente per concepire l'Impero d'Austria come una «signora delle periferie» che non aspirava ad avere un centro forte e distintivo.

Mitteleuropa non indica un luogo geografico ma un'idea politica. Contro la concezione nazionale dello Stato

2. Anche se l'influenza mondiale degli intellettuali legati per loro origine e formazione alla «koiné» mitteleuropea è generalmente riconosciuta (pensiamo a Freud, Kafka, Wittgenstein, il neopositivismo, Von Hayek, Broch, Musil, eccetera) le loro opere solo raramente vengono interrogate a partire dalla loro appartenenza ad un'entità politica sconfitta dalla storia, cioè l'Impero d'Austria. Esso non è ormai che un fantasma ma continua a determinare il senso di queste opere in tutto e per tutto. La fine dell'Austria è illuminata da una cultura originale situata nel triangolo Praga-Vienna-Budapest che ha posto gli interrogativi più inquietanti all'uomo moderno: mi riferisco alla «cultura mitteleuropea».

Soprattutto bisogna dire che il termine «Mitteleuropa» non indica un luogo geografico, ma un'idea politica. Il diciannovesimo secolo è l'epoca del nazionalismo dilagante che ha dissolto le ultime tracce di quell'universalismo sovrannazionale sul quale nel passato fondava la sua legittimità il Sacro romano impero. Nella parola «Mitteleuropa» risuona soprattutto la volontà d'opporsi alla concezione nazionalista dello Stato richiamandosi alla «tradizione imperiale» dell'Occidente in cui lo Stato è l'incarnazione di un'idea universale piuttosto che l'espressione di un'identità etnica o linguistica. Franz Werfel dice che tutti gli Stati nazionali sono nella loro intima essenza «entità demoniache». Solo nel segno di un'idea superiore si possono fondare gli imperi, mentre le nazioni possono costituire soltanto degli Stati egoisti e aggressivi. I veri «imperi» nascono, quando alle unità naturali si aggiunge «un elemento soprannaturale divino, che le trascina in alto al di sopra di se stesse: una rivelazione o un'idea superiore». Gli imperi sono retti dallo spirito di sacrificio dell'identità immediata e di rinuncia all'illimitata affermazione di sé in risposta all'appello che ci rivolge un'idea superiore. Secondo Werfel, l'Impero d'Austria era l'ultima fortezza dell'universalismo europeo assediato ormai dai demoni del nazionalismo che graffiavano rabbiosi le sue mura. La guerra ha aperto loro le porte.

L'europeo che abitava l'idea di quest'Impero è dalla fine della guerra un uomo senza patria. Il suo errare senza patria è in realtà un segno e una condizione premonitrice: l'uomo, formato dall'universalismo europeo è ormai senza patria in un'Europa irta di confini a filo spinato, costretto a farsi complice dell'egoismo degli Stati nazionali. La disponibilità della maggioranza degli intellettuali europei a fornire alla macchina bellica un alibi culturale dimostra, secondo Freud, che gli ideali universalistici possono essere abbandonati bruscamente, rinnegati e ripudiati. Essi non sono una necessità storica ma solo un momento fragile della nostra storia di europei.

L'impero asburgico incarnava un'idea universalistica di Stato. La sua crisi fu una tragica crisi

3. Per i sostenitori dell'idea di «Mitteleuropa», l'Impero non è né slavo, né tedesco, né ungherese. Per sopravvivere esso deve ricollegarsi alla tradizione imperiale rimodernata in cui i vantaggi economici derivanti dalla collaborazione sovrannazionale e la superiorità di una cultura che nasce dal dialogo tra le diverse nazioni prevarranno infine sul cieco egoismo dei nazionalismi contrapposti.

Gli scrittori mitteleuropei hanno intuito nell'agonia dell'Impero d'Austria un avvenimento decisivo della storia contemporanea in cui s'annunciava lo sradicamento del concetto di Stato dall'universalismo. Questo sradicamento porterà ad una crisi irreversibile di tutto il razionalismo occidentale.

L'universalismo sovrannazionale a cui lo Stato austriaco aspirava si è realizzato comunque in un modo peculiare: l'unico elemento capace di essere la forza unificatrice dell'Impero era la legalità elevata a una specie di religione secolarizzata. Il linguaggio «preciso e tranciante» del diritto divenne una barriera opposta a tutto ciò che minacciava d'intorbidire «l'etere concettuale puro» (Doderer) che avvolgeva l'agire degli uomini come una nuvola purificatrice garantendo ad esso un senso al di sopra del giudizio umano e delle sue ambiguità.

La vita stessa cercava di installarsi sul terreno astratto della legalità, di farsi penetrare totalmente dalla necessità sublime e severa del suo linguaggio consequenziale e dagli imperativi perentori delle sue procedure fisse. Sulla vita degli uomini cadeva l'ombra protettiva della dignità monumentale dei luoghi dove la legge dimora - «dei nidi dell'aquila imperiale» (Doderer). Ecco un aspetto della vita austriaca che la distingueva nettamente da tutte le altre società occidentali - il predominio ossessivo dell'«homo juridicus». La razionalità impersonale della legalità con le sue regole inflessibili si sostituiva dappertutto alla legittimità. La legalità si è separata così da ogni riferimento ad un'istanza trascendente: la legalità dello Stato austriaco è diventata perfettamente «autoreferenziale».

La formula di Weber secondo cui «la legittimità del futuro sarà la legalità» è diventata qui una strategia politica attraverso la quale si sperava di salvare l'unità dell'Impero: si cercava di risolvere i problemi derivanti da un deficit generale di legittimità riducendoli a problemi di legalità. La volontà di rimediare al vacuum di legittimità mediante la costruzione di una legalità perfetta caratterizzava in profondità la politica dell'Impero austriaco.

Al centro della cultura mitteleuropea c'era un vacuum, un vuoto. Un germe di nichilismo...

4. Come interpretare la cultura mitteleuropea? Secondo Gadamer, interpretare un testo o un'azione presuppone il coraggio di porre anche a noi stessi la domanda a cui questo testo o quest'azione risponde. Questa domanda è dissimulata nell'opera: l'ha suscitata nascondendosi in essa. Un'ipotesi ermeneutica mira a strappare alla sua dissimulazione la domanda che domina l'opera che vogliamo comprendere.

La nostra interpretazione della cultura mitteleuropea parte da quest'ipotesi ermeneutica: l'Impero d'Austria nel secolo del nazionalismo è una civiltà attraversata da un deficit di legittimità permanente. L'esperienza di questo deficit era al centro dell'esistenza quotidiana: al centro della vita di tutti c'era un vacuum. Si è cercato di riempirlo attraverso l'edificazione d'una legalità perfettamente impersonale al di sopra di ogni conflitto. Il sistema della legalità stesso, il suo funzionamento perentorio dovrebbe supplire al deficit di legittimità.

La cultura mitteleruopea risponde poi alla domanda seguente: la sola legalità anche se perfettamente impersonale e servita dai funzionari più scrupolosi del mondo (Musil) può essere la sorgente di un vero universalismo e di una vera unità tra gli uomini? Non vi è qualcosa di nichilista nella fuga generale verso la legalità che si pretende al di là del giudizio umano legato all'ambiguità del linguaggio naturale?

La legalità diventa in questa prospettiva un simbolo della fuga generale dalla verità verso la necessità, che è un tratto essenziale della modernità. La conseguenza decisiva di questa fuga è che l'indifferenza verso l'altro, verso il suo mondo e la sua esperienza viene elevata a norma suprema dell'esistenza razionale. Vi sono molti segni premonitori che annunciano la venuta di un'epoca infernale dominata dall'uomo senza scrupoli, sempre pronto a prescindere freddamente da se stesso, dai punti di vista «solamente» personali, dalla propria coscienza, e infine da tutta l'umanità.

Diceva Musil che a Vienna si viveva «sempre con la sensazione che non c'erano ragioni per l'esistenza»

5. Maurice Blanchot coglie il tema centrale dei romanzi di Broch in questa questione: perché l'essere tende a dissolversi nella pura funzionalità, perché la realtà si ritira davanti al simbolo e il simbolo davanti al simbolo del simbolo? Dove può radicarsi la resistenza a questo sostituirsi dei simboli alla realtà, in quale suolo? La letteratura mitteleuropea interpreta il corpo, l'infanzia, la donna, le lingue slave dell'Impero e tutta la sua periferia misteriosa come luoghi irriducibilmente ambigui dove si raccolgono le energie capaci di opporre una resistenza irriducibile all'assorbimento della legittimità nella legalità, della realtà nella rappresentazione.

Nell'Impero d'Austria comunque tutto sembrava funzionare automaticamente come spinto da una necessità provvidenziale e benigna per cui gli uomini vivevano «sempre con la sensazione che la propria esistenza non ha ragioni sufficienti» dice Musil. Questa sensazione è diventata ormai comune a noi uomini moderni: non vi è mai una ragione sufficiente per resistere all'autocinesi tecnico-amministrativa che domina la nostra vita.

La legalità funziona in nome della necessità: i segni della necessità sono l'uniforme, la scienza, lo Stato, il tribunale e i suoi riti; i portatori di questa necessità prescindono da tutto ciò che appartiene all'incertezza della vita, all'esperienza, all'impatto con la realtà. Questo prescindere continuo fa crescere un deserto nel centro della società.

L'estrema attualità della cultura mitteleuropea deriva dalla lucidità con cui la riduzione della legittimità alla legalità è stata riconosciuta come tema fatale dell'Occidente. Infatti, l'aspirazione all'universale si è realizzata nell'Impero d'Austria attraverso una progressiva sostituzione dei segni della necessità a quelli della verità: per avere un senso la vita deve essere dedizione al servizio di una necessità superiore al giudizio umano. Si spengono così negli uomini le domande ultime imposte dall'impatto con il reale. Tutto diventa ordine e servizio.

La sostituzione della necessità alla verità prepara lo spazio per l'irruzione nella società di un'assenza totale di scrupoli, di un silenzio mortale della coscienza che l'Arendt coglie nell'espressione «il male banale». Banale è il male che sorge dall'incapacità di pensare, di mettersi, cioè, dal punto di vista degli altri. Banale è il male che sorge dalla razionalità interpretata come totale disponibilità a prescindere dai punti di vista «solamente personali».

Tutto questo porta ad uno svuotamento del linguaggio: ogni volta che prendiamo la parola noi vogliamo che gli altri provino la nostra esperienza, che la rivivano. Il linguaggio ha una sua teleologia immanente che consiste nell'immaginare e provare in se stesso l'impatto delle nostre azioni sugli altri. Il grande viennese Karl Kraus ha condotto per tutta la vita una lotta disperata contro lo svuotamento del linguaggio operato dalla stampa e da tutti i linguaggi artificiali che invadono la società. Egli dice: "Non che la stampa abbia messo in moto le macchine della morte - ma ci ha svuotato i cuori, da non poterci più immaginare come sarebbe stato: ecco la sua responsabilità nella guerra".

La sostituzione della necessità alla verità si realizza attraverso lo svuotamento generale dei cuori, la disponibilità totale a prescindere dall'esperienza degli altri, dalla loro stessa presenza al mondo dato che i linguaggi artificiali ci rendono sordi all'impatto che le nostre azioni hanno su di loro.

Per l'Europa di oggi il problema è ancora lo stesso. Gli apparati non bastano a fare una «polis»

6. Tutta l'Europa si trova oggi nella situazione dell'Impero d'Austria. Essa è un insieme di apparati che funzionano più o meno bene, ma non è una «polis». La riduzione della legittimità alla legalità è diventata la strategia generale per evitare i conflitti attorno ai problemi reali, imposti, cioè, dall'esperienza degli uomini, dal desiderio. Lo svuotamento del linguaggio e la banalità come fondamento della vita comune: ecco l'Europa oggi.

Che cos'è una «polis»? Una «polis» è soprattutto l'avventura della vita pubblica dove dal conflitto tra gli uguali (tra le loro esperienze) sorge il senso della realtà, cioè della differenza tra ciò che è essenziale e appartiene alla vita di tutti e ciò che è solamente privato e morirà con ciascuno di noi. La vita pubblica vuol dire anche lo spazio dove la legalità con le sue procedure e i suoi riti viene ricollegata ad un'idea comune della vita e dunque subordinata ad una legittimità, cioè alle idee effettivamente condivise.

La «finis Austriae» mostra che la riduzione della legittimità alla legalità e dell'universalismo all'uniformità svuota la società e la condanna alla morte. Essa cessa di essere una «polis». Si tratta oggi di sottrarre l'Europa a questa condanna.