Cristina Siccardi recensisce il volume di Emiliano Procucci Il Re martire. Vita, passione e memorie di Luigi XVI di Francia (Il Cerchio) e quello di Jean de Viguerie Le sacrifice du soir. Vie et mort de Madame Élisabeth soeur de Louis XVI (Les Éditions du Cerf).
Il mondo moderno, che obbedisce perlopiù alle leggi ideologiche pianificate dalla Rivoluzione Francese, ha eliminato il Regno Sociale di Nostro Signore e con esso anche il ruolo che lungo i secoli ha avuto la monarchia. La Rivoluzione Francese decapitò la corona e con essa Luigi XVI (1754-1793). Ha scritto Monsignor Luigi Negri, Vescovo di San Marino e Montefeltro, nel documento riportato nel volume di Emiliano Procucci Il Re martire. Vita, passione e memorie di Luigi XVI di Francia (Il Cerchio), prefato da Luigi Duca d’Angiò: «Il mondo moderno con la Rivoluzione Francese ha dimostrato in modo gigantesco, negli sforzi e anche negli orrori, che era possibile creare una società e uno Stato secondo quella ragione illuministica, che è sostanzialmente una ragione scientifico-tecnologica. In particolare lo Stato costituisce l’obiettivo ultimo dello sforzo per razionalizzare la vita dell’uomo nella società. Lo Stato diviene dunque la realtà che raccoglie tutti i valori razionali, culturali ed etici: diviene dunque il vero fatto che dà valore totale alla persona e alla società». Non più la Trinità dà ragione di essere alla persona, bensì un’entità terrena e burocratica.
Ma chi era Luigi XVI? Un sovrano cattolico che perì non solo perché monarca e rappresentante di un mondo che i giacobini volevano eliminare, ma che essi odiavano soprattutto perché testimone della Fede cattolica e garante della cattolicità nel Regno di Francia. Lo Stato totalitario, secondo l’ideologia rivoluzionaria, creò un uomo senza Dio, autonomo ed autosufficiente, idolatra della dea ragione e della politica.
Attraverso un nutrito apparato di documentazione storica e di testimonianze dirette, Procucci dipinge il vero profilo di Luigi XVI, il quale venne educato, fin dall’infanzia, secondo quel principio che afferma: «La Religione [cattolica] deve essere la sola politica dei Re. Là dove c’è la Religione, non c’è bisogno di un’altra politica. Io non regnerò per gusto ma per dovere ed esigerò che la religione Cattolica, Apostolica e Romana continui ad essere la religione dello Stato…». L’Assemblea costituente non poteva tollerare un simile pensiero. Spiega l’autore: «Il legame tra la Chiesa e la Monarchia francese era molto forte e i nemici di queste due istituzioni erano perfettamente consapevoli del fatto che, per abbattere il cattolicesimo in Francia, occorresse eliminare prima il Re che ne era il difensore naturale».
Luigi XVI fu sempre un buon cristiano, ma la sua Fede crebbe allorquando si rese conto che la Rivoluzione aveva una natura diabolica che si esplicò con la promulgazione della Costituzione civile del Clero e proprio da qui il sovrano prese la decisione di contrastare l’insurrezione che aveva il preciso obiettivo di rovesciare l’ordine tradizionale cristiano in favore di un ordinamento materialista e nemico di Dio.
In questo testo emergono le virtù cristiane del sovrano francese, virtù che emergono con netta evidenza nei diversi documenti riportati e di fronte ai quali non si può rimanere indifferenti. Risulta chiaramente che Luigi XVI venne messo a morte in odium fidei, infatti, il 21 gennaio 1793 venne ghigliottinato perché reo di voler ristabilire in Francia il culto cattolico. Affrontò il martirio con coraggio, salendo il patibolo con fierezza. Gli scalini che portavano alla ghigliottina erano ripidi; giunto all’ultimo gradino attraversò con passo fermo tutto il patibolo, imponendo il silenzio con il solo sguardo a quindici/venti rullatori di tamburo che stavano di fronte al sovrano e con voce altisonante affermò: «Muoio innocente di tutti i crimini che mi sono imputati. Perdono i responsabili della mia morte e prego Dio che il sangue che state per versare non ricada mai sulla Francia».
Scrisse il suo testamento nella Torre del Tempio di Parigi il giorno di Natale del 1792 e in esso ritroviamo le tre virtù teologali: Fede, Speranza e Carità:
«Nel nome della Santissima Trinità, del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. […]. Lascio la mia anima a Dio mio creatore; lo prego di accoglierla nella sua misericordia, di non giudicarla per i suoi meriti, ma per quelli di nostro Signore Gesù Cristo, che si è offerto in sacrificio a Dio Suo Padre, per noi uomini, benché non ne fossimo degni e io per primo.
Muoio nell’unione con la nostra Santa Madre, la Chiesa Cattolica, Apostolica e Romana, che riceve la propria autorità, per una successione ininterrotta, da San Pietro, al quale Gesù Cristo l’aveva affidata.
Ho ferma fede e riconosco ciò che è contenuto nel Credo, i Comandamenti di Dio e della Chiesa, i Sacramenti e i Misteri, come la Chiesa Cattolica insegna e li ha sempre insegnati…».
Jean de Viguerie ci propone, invece, l’altrettanto documentato volume Le sacrifice du soir. Vie et mort de Madame Élisabeth soeur de Louis XVI (Les Éditions du Cerf). Il libro, in lingua francese, ci presenta la bellissima figura di Elisabetta (1764-1794), sorella di Luigi XVI, donna di forte volontà e di grande spiritualità. Avrebbe desiderato abbracciare lo stato monacale, ma non le fu concesso, perciò, conoscendo l’inclinazione della sorella per la solitudine e il raccoglimento e per evitare che ella non se li procurasse nel silenzio del chiostro, Luigi XVI le donò una piccola villa a Montreuil, alle porte di Versailles. Ogni giorno recitava tutto l’ufficio divino, inoltre leggeva libri religiosi, esercitava pratiche devote, componeva preghiere, scriveva considerazioni spirituali.
La corte di Portogallo iniziò le pratiche per chiedere Elisabetta come sposa di un principe reale; così fece anche Casa Savoia, mentre l’Imperatore di Germania, Giuseppe II (fratello della regina Maria Antonietta, 1755-1793, moglie di Luigi XVI) si recò due volte a Versailles per vedere la bella e buona principessa. Tuttavia nessuna trattativa matrimoniale andò in porto: Elisabetta aveva già scelto. Non potendo consacrarsi a Dio, decise di stare sempre accanto al fratello Luigi e, dunque, al proprio Paese: «Ho giurato di non abbandonare mai mio fratello e manterrò il mio giuramento. […]. Preferisco rimanere qui ai piedi del trono di mio fratello, piuttosto che salire io stessa su di un altro trono».
Già molti anni prima della Rivoluzione, Elisabetta percepì che la Francia sarebbe caduta nella tragedia. Compiangeva la nazione, il popolo, la sua famiglia. Si rese conto che la monarchia sarebbe stata distrutta e che la persecuzione si sarebbe abbattuta sulla religione cattolica, turbando le cosciente e gettando nel caos l’intero Paese. Suo rifugio era Dio, al quale si rivolgeva incessantemente, implorando il soccorso.
Elisabetta fece un apostolato molto intenso e indicava nel Sacro Cuore di Gesù la fonte delle misericordie divine. In ogni lettera richiamava sempre l’attenzione al Sacro Cuore di Gesù (la cui devozione era stata diffusa grazie a Giovanni Eudes, 1601-1680, e da santa Margherita Maria Alacoque, 1647- 1690), che considerava unico rifugio, il solo rimedio per le sofferenze del popolo e la salvezza della nazione. Compose vari atti di consacrazione della Francia al Divin Cuore e fu anche molto devota al Sacro Cuore di Maria Santissima. Persuasa che l’irreligione e l’immoralità attirassero sul Paese i castighi di Dio, raccomandava di condurre una vita onesta, di pregare, di rinunciare al lusso e di soccorrere il prossimo.
La famiglia reale di Francia venne catturata nella notte del 6 ottobre 1789, quando un’orda inferocita ed avvinazzata di 20 mila persone, armate di cannoni, fucili, sciabole, forche e bastoni da Parigi si diresse a Versailles, invadendo il castello. Mentre si verificavano scene orribili di violenza e crudeltà, con massacri, teste decapitate e portate sui picchetti come trofei, Luigi XVI e i suoi congiunti vennero trasportati a Parigi fra le urla, le minacce e le imprecazioni. Cosciente di dover esercitare la missione, per la quale si era votata, di «angelo tutelare» della famiglia reale di Francia, Elisabetta si comportò virilmente, senza alcun cedimento. Da quella notte la famiglia reale rimase prigioniera nel palazzo delle Tuileries. Mentre tutti i principi e le principesse cercarono di fuggire fuori dalla capitale e dalla Francia, Elisabetta rimase al proprio posto, vicino al fratello, alla cognata, al piccolo Delfino di Francia e alla nipotina Carlotta, assolvendo la propria missione di consolatrice.
Nella notte del 2 agosto la Regina Maria Antonietta fu condotta nella prigione della Conciergerie. Le due nobildonne furono separate. Dopo umiliazioni indicibili e sofferenze inaudite, Maria Antonietta venne decapitata il 16 ottobre. La sua ultima lettera fu proprio indirizzata ad Elisabetta: «È a voi, sorella mia, che scrivo per l’ultima volta; sono condannata non ad una morte infamante, perché tale è soltanto per i criminali, ma a raggiungere vostro fratello». E dopo averla pregata di essere la seconda madre dei suoi orfani, si accommiatò con queste parole: «Addio, mia buona e tenera sorella; speriamo che questa vi giunga! Pensate sempre a me; vi bacio con tutto il cuore, insieme con quei poveri e cari bambini!». La lettera non fu recapitata al destinatario.
Splendida la lettera di riconoscenza che la nipote Maria Teresa Carlotta (1778-1851), Madame Royale, scrisse sulla zia, colei che, in cuor suo, si era consacrata a Dio all’età di 15 anni e altrettanto importante, quanto celebre e toccante nella sua beltà e verità, è la preghiera che Elisabetta compose e che recitò quotidianamente, fino al giorno della sua cruenta dipartita: «Che mi accadrà oggi, o mio Dio? Lo ignoro; so soltanto che nulla mi accadrà che Voi non abbiate previsto, stabilito, voluto e ordinato sin dall’eternità. Questo mi basta, o mio Dio, per essere tranquilla. Adoro i vostri disegni eterni e impenetrabili, ai quali mi sottometto con tutto il cuore per amor vostro. Voglio tutto, accetto tutto. Vi faccio un sacrificio di tutto ed unisco questo sacrificio a quello del vostro diletto Figlio e mio Salvatore. Vi domando in nome del suo Caro Cuore e dei suoi meriti infiniti la pazienza nelle mie pene e la perfetta sottomissione a Voi dovuta per tutto quello che vorrete e permetterete. Così sia».
Era il 10 maggio 1794 quando vennero portati alla ghigliottina 24 condannati a morte, fra i quali c’era anche Elisabetta di Borbone-Francia, che fu costretta ad assistere a tutte le decapitazioni prima di subire anche lei il supplizio. Non soltanto non si coprì gli occhi di fronte allo scempio, ma rimase sorridente e orante fino alla fine. Ad alta voce chiamava, una ad una, le vittime, invitandole ad aver Fede in Dio e, se erano donne, le abbracciava oppure le salutava con un sorriso. Poi toccò a lei. E quando il biondo capo cadde, aggiungendo sangue a sangue, nessuno osò gridare «Viva la Repubblica!».