Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.
Guglielmo Pepe.
Il dì 8 agosto, nella Chiesa de' Fiorentini di Napoli, si fecero i funerali al generale Guglielmo Pepe, famoso ribelle del 1820 e 1849; que' funerali delinearono il vero stato di Napoli. Conciosiacchè i rivoluzionarii aveano stabilito recarsi in Chiesa in processione, uscendo di S. Chiara colla bandiera repubblicana di Venezia, in memoria del defunto, il quale avea difesa quella repubblica nel 1849, e con altra bandiera portante il cavallo sfrenato in segno della redenta Napoli. Il Ministro liberale avrebbe tutto permesso, ma temendo sempre che i soldati facessero qualche diavolìo alla vista di quella processione, e di quelle bandiere, proibì queste e permise i funerali.
La Chiesa de' Fiorentini fu parata con emblemi repubblicani, e tante persone nemiche del Pepe, quelle che l'aveano abbandonato in Venezia, quelle che aveano logorato le anticamere de' ministri di Ferdinando II, intervennero a que' funerali, atteggiandosi a rivoluzionarii ed amici del defunto. Io vidi in mezzo agli altri notabili il de Sauget col figlio Gugliemo, il quale smentiva così le proteste di innocenza, che avea stampate circa il suo ritirarsi dall'impresa di Sicilia nel 1848.
Assisteva pure a quel funerale demagogico il Conte di Siracusa, Leopoldo di Borbone, zio del Re Francesco II. La stampa liberale napoletana lodò sua Altezza reale, che onorava un rivoluzionario disertore. Quella stampa però gli rese un brutto servizio, che io non so se fosse andato a sangue del real Conte, cioè lo paragonò a Filippo d'Orleans égalité,
regicida, il quale votò nella Convenzione nazionale di Francia nel 1792 per la morte del suo benefattore e parente, Luigi XVI, Re di Francia, e che poi lo stesso Filippo d'Orleans, égalité,
fu impiccato dagli stessi rivoluzionari suoi amici.
Il generale Guglielmo Pepe non avea altro merito verso i rivoluzionari, se non quello di avere rivoluzionato l'esercito nel 1820: e pure quella gloria rivoluzionaria non dovrebbe darsi al Pepe, dappoichè costui non fu l'iniziatore di quella rivolta, ma ne profittò e ne seguì la corrente. L'altra gloria rivoluzionaria del Pepe si era di avere abbandonato il corpo di esercito napoletano da lui comandato sul Po, destinato a cacciare i tedeschi dal Lombardo-Veneto. Se non che, Re Ferdinando II fu costretto a richiamare a Napoli quel corpo di esercito, perché i liberali dopo che ottennero la Costituzione si servirono di questa per fare il 15 maggio; ed aveano pure in fretta detronizzato quel sovrano, quando ancora non aveano alcun mandato del popolo. Pepe invece di seguire l'esercito che comandava, disertò, e andandosene a Venezia prese a difendere quella repubblica che poi fu distrutta da' tedeschi nel 1849.
Il Pepe era stato un pessimo militare. Lo storico Pietro Colletta, nella storia del Reame di Napoli al libro ottavo Capo III, descrivendo la battaglia di Rieti, e lo sbandamento dell'esercito napoletano ad Antrodoco, ove era generale in Capo il Pepe, dice di questo generale in capo delle cose poco lusinghiere. Racconta che il Pepe volendola fare da presuntuoso gradasso, attaccò i tedeschi quando non era né il tempo né il luogo; che appena essi si avanzarono, egli, il Pepe, fuggì vilmente lasciando disperso l'esercito nella valle di Antrodoco, e fuggì senza fermarsi né ad Aquila, né a Popoli, né a Solmona; chè nol ritenne il bisogno di riposo o di cibo, ed incalzato sempre della paura giunse il primo a Napoli.
Non son'io che dico tutte queste vergogne del Pepe, è il liberalissimo Pietro Colletta; di quel Pepe, di cui i liberali del 1860 onoravano i funerali come di un prode Generale e benemerito della patria. È troppo vero, la rivoluzione esalta e mette in gran fama non solo i traditori de' Sovrani, ma eziandio la gente più meschina e più vile, purchè le appartenga o la secondi.
I rivoluzionarii dovrebbero mostrarsi meno inverecondi quando ci vogliono costringere ad onorare le gesta o la memoria de' loro eroi:
leggessero prima le storia scritte dai medesimi settarii, e non ritenessero il rispettabile pubblico come una mandria di bestie.
Gli zii del Re, il Conte di Siracusa e quello d'Aquila, faceano a gara a chi avesse potuto meglio opprimere e disonorare il proprio casato. Eglino forse immemori della grande rivoluzione francese del 1789 e de' suoi terribili effetti, imitavano la politica del famoso Filippo d'Orleans égalité,
e della aristocrazia francese, che si unirono a' danni dell'infelice Luigi XVI. Conciosiachè questo Filippo d'Orleans, e l'aristocrazia, prima costrinsero il Re a convocare gli Stati generali, poi fecero lega con la borghesia, e per mezzo di questa, il primo volea impossessarsi del Regno di Francia con qualsiasi titolo, l'aristocrazia per ottenere maggiori privilegi feudali, ed insieme si metteano d'accordo, ottenuto l'intento di sbarazzarsi della nuova alleata ed opprimerla. La borghesia però istruita e pratica delle sêtte giovò a que' signori per acquistare quell'importanza che allora non avea; e quando si vide forte abbastanza, fece quella radicale e terribile rivoluzione, rovesciò aristocrazia e trono, mandò al patibolo il Re, il duca d'Orleans égalité,
assassinò aristocrazia e clero, imperocchè quest'ultimo, se non tutto in parte si era pure alleato a' danni del Re.
Il Conte di Siracusa e quello d'Aquila voleano essere reggenti o vicerè del Regno per mezzo della rivoluzione. Questa, al solito, finché trovò il suo tornaconto li blan dì e lodò: quando poi non ebbe più bisogno di loro, perché forte abbastanza per far da sè, diede un calcio, fece una pertinace persecuzione a quell'Altezze reali, e non li mandò al patibolo perché i tempi non lo permetteano.
Il Conte di Siracusa congiurava apertamente contro il proprio nipote: il suo palazzo alla Riviera di Chiaia era divenuto un club
di giacobini e di cordiglieri, ove intervenivano i Robespierre, i Marat, i Danton in sedicesimo: ivi si congiurava da un Borbone contro i Borboni con la garenzia delle stesse armi borboniche.
Il 4 agosto l'ammiraglio Persano è condotto da Villamarina nel gran palazzo del Conte di Siracusa; costui ricevè Persano con deferenza ed amorevolezza. si dichiara ammiratore delle politica di Cavour, come quella che dovea salvare l'Italia dall'anarchia e dall'intervento straniero. Ei parla con ossequio del Re Vittorio Emmanuele, solo dei principi italiani che si sia mantenuto nazionale, per condurre l'Italia all'unificazione sotto il suo scettro. Conchiuse esser dolente del Re suo nipote, ed amaramente esclama: la colpa è sua. Persano a questo discorso rimane attonito. Il Conte di Siracusa si recò parecchie volte a bordo della nave piemontese la Maria Adelaide
per visitare Persano, e sopra quella nave ammirava e lodava tutto quello che era piemontese, e dicea male di tutto quello che era napoletano, e principalmente contro suo nipote il Re Francesco II. Questo real conte scrisse al Re una lettera, che appresso trascriverò in queste memorie. Con quelle lettera, Egli indegno nepote di Carlo III, si rivela ipocrita e settario: ma il suo disinganno fu terribile.
Tuttavia il Conte di Siracusa non arrecò al sovrano e al Regno tutto quel male che fece l'altro fratello, Luigi, Conte d'Aquila; essendo costui capo della flotta napoletana, la disonorò disertando, e facendola disertare al nemico, fatte poche eccezioni di alcuni uffiziali, e di tutti i marinai. Questo real conte d'Aquila da più anni si atteggiava a Filippo égalité.
Nel 1859, quando D. Liborio Romano era cercato dalla polizia il real conte, lo ascose nella sua villa di Posilipo. Fu egli che assieme agli altri sospinse il giovine sovrano a dare quella inopportuna Costituzione proclamata il 25 giugno 1860. Fu egli, che credendo D. Liborio ligio a' suoi voleri ed ordini, il sollevò al Ministero dell'interno, e gli creò quella potenza che poi facea tremare la stessa Corte. Ma D. Liborio, afferrato il potere, sentendosi forte abbastanza, cominciò a rivoltarsi contro il suo protettore ed insidiarlo, come quegli che volea liberarsi da un inciampo alle sue evoluzioni rivoluzionarie.
Il Conte d'Aquila si accorse, ma tardi, del mal fatto proteggendo D. Liborio, e dell'abisso che avea scavato sotto i suoi piedi. Per la qual cosa, cercò di riparare. Radunò armi ed armati, corse al Re e lo persuase a chiamare il Marchese Ulloa e il fratello Girolamo per formare un ministero liberale e dinastico, porre Napoli in vero stato di assedio, sciogliere la polizia de' camorristi capitanata da D. Liborio, di rifare la guardia nazionale, e cacciare da Napoli tutti quelli che aveano passaporto piemontese. Egli era cotesto un vero colpo di Stato.
Il Conte d'Aquila credeva vicino il suo trionfo, e commise il grande errore di confidare i suoi disegno al ministro de Martino che credea suo amico. Costui svelò tutto a D. Liborio, il quale giudicando che quel colpo di Stato sarebbe stata la sua rovina, e quella della rivoluzione unitaria italiana, corse frettoloso al Re, e gli scoperse tutte le trame di suo zio, il Conte d'Aquila, Gli disse di aver sequestrato armi ed arnesi di guerra de' quali il Conte dovea servirsi per rovesciare il trono e dichiararsi Reggente del Regno: e gli fece vedere centinaia di fotografie del medesimo Conte la fascia sul petto segnata dalla parola Reggente.
D. Liborio, non sicuro ancora della vittoria, chiamò a conciliabolo tutti i ministri ed espose il pericolo che li minacciava e propose di esiliare il Conte d'Aquila. I ministri considerando il pericolo che correvano assieme a tutta la rivoluzione, già da essi bene avviata, decretarono l'esilio del real Conte. Quel decreto fu presentato al Re per essere da lui approvato. Francesco II, memore di tutto quello che si era detto contro suo padre nel 1849, si contentò di perdere piuttosto l'occasione di salvarsi, anzi che rigettar quel decreto degno della Convenzione nazionale francese. Quindi diede la sua sanzione sovrana.
L'ordine di partire fu comunicato al Conte d'Aquila dal ministro Garofalo, creatura del Conte stesso; ed era in quel decreto la clausola di arrestarlo ove non ubbidisse.
D. Liborio, facendo uso di tutto quel potere che avea nelle sue mani, interdisse al Conte al vista del Re, temendo che gli potesse tuttavia nuocere. Il Re, forse non convinto della reità dello zio, gli scrisse il 13 agosto una lettera affettuosa di commiato, e questi rispose dal legno ove si trovava imbarcato protestando innocenza e sensi di devozione al Re, e alla patria italiana.
Vero peccatore, ostinato, ancora Patria italiana!
Il real Conte, o non lo capì, o non volea capirlo d'onde venisse la sua rovina e quella della sua famiglia. Il Giornale uffiziale,
all'uso dei governi rivoluzionarii che mai non dicono la verità, il 14 agosto pubblicò che il Conte d'Aquila si recasse a Londra per una missione.
Lo stesso giorno 14, con ordinanza del Comandante della Piazza, generale Ritucci si proclamò lo stato di assedio, ma per guarentigia della rivoluzione, e non per tutelare l'ordine pubblico, imperocchè era il Ministero che temeva continuamente di essere abbattuto dalla reazione.
Il Ministro Pianelli, o Pianell come oggi si fa chiamare per le ragioni che tutti sanno, divenuto ad un tratto da terrorista qual'era, tenero delle libere istituzioni, ingiungeva ai soldati di stringersi fraternamente alla Guardia nazionale, e proteggere il nuovo ordine di cose. Egli intanto non vedea e non badava di vedere la sfacciata propaganda che si facea in Napoli per corrompere i soldati e farli disertare al nemico. Giornali, opuscoli, libercoli, tutti predicavano la diserzione del soldato come una virtù patria. Il Tenente De Benedictis, un Marsilli, l'Ayala, scrivevano e pubblicavano libelli secondo il bisogno, e il Fisco non trovava nulla da condannare. Solamente i funzionarii pubblici di allora comprimevano anche i sospiri de' così detti reazionarii, i quali erano in realtà i veri amici del Re e dell'ordine pubblico.
La setta tenea pubblica bottega conosciuta da tutti, ove si dispensava denaro e promesse per acquistar soldati e sott'uffiziali dell'esercito: il solo D. Liborio, Ministro dell'interno, e Pianelli Ministro della guerra non aveano occhi per vedere quella pubblica indegnità.
Vi erano delle adunanze degli uffiziali dell'esercito, i quali faceano di tutto per demoralizzare i soldati e non farli battere contro il nemico. Questi uffiziali osarono presentare al Ministero della guerra una petizione firmata onde si persuadesse il Re di lasciare il regno senza muover guerra a Garibaldi. Il Pianelli che dovea subito arrestare e mettere sotto consiglio di guerra que' felloni e vili uffiziali, si contentò di respingere quella petizione, e la respinse forse perché il tempo non gli sembrava ancora propizio di agire in conformità de' petenti. Or io sarei tanto indiscreto di chiedere al sig. generale Pianelli, oggi a capo di uno de' cinque comandi generali dell'Italia; che cosa fareste ora se vostri subalterni militari vi presentassero, non dico una petizione simile a quella che vi presentò la melma degli uffiziali napoletani, ma qualunque preghiera opposta alla disciplina e alla lealtà militare? Sono sicurissimo che fareste subito arrestare i petenti mettendoli sotto consiglio di guerra, com'è vostro assoluto dovere, e di qualunque duce. E perché non usaste lo stesso rigore quando eravate Ministro della guerra di Re Francesco II nel 1860? Vi prego, sig. generale, di non rispondere colle solite frasi di patriottismo, e di circostanze e tempi diversi, vuote di senso per un vero militare. Dite francamente ch'eravate traditore e settario. Voi lo sapete meglio di me, che un soldato leale non deve far mai di politica qualunque siano i governi, i tempi e le circostanze. Un leale soldato, se volesse far di politica che non fosse quella del governo che serve, fosse questo ancora quello del crudele Nerone, si dovrebbe dimettere, ma in tempo di pace.
Per voi, sig. generale Pianelli - a cui non si può negare né istruzione né coraggio - non si può del pari ammettere alcuna giustificazione circa la vostra vita politica e militare del 1860, sarà questa registrata nella storia di quel tempo con tinte e qualifiche incontestabili.
Il Piemonte avea nel porto di Napoli delle navi con due battaglioni di bersaglieri a bordo, sotto pretesto di tutelare i sudditi sardi. Il 20 agosto sbarcarono da quelle navi una gran quantità di bersaglieri ed uffiziali, e si diedero a predicare le beatitudini che sarebbero per venire al Regno di Napoli, appena si proclamerebbe l'annessione al Piemonte.
Que' bersaglieri uniti a molti rivoluzionarii facean di più, cioè quando vedeano i soldati napoletano li sberteggiavano. Sul ponte della Sanità avendo incontrato sei tiragliatori della guardia, come aveano per costume, cominciarono a canzonarli: però i tiragliatori non soffrirono l'insulto, cavarono le daghe e diedero addosso a bersaglieri piemontesi ed a quelli che li accompagnavano. I bersaglieri furono difesi da' Camorristi; ma furono tutti ben picchiati e malconci; si salvarono con la fuga lasciando due de' loro feriti, ed un Camorrista mezzo morto. In quel tafferuglio accorsero le guardie nazionali, simulando di far da pacieri, ma diceano a' piemontesi: date, date a questa carne venduta.
Così chiamavano i proprii connazionali, i coscritti napoletani.
I feriti Sardi furono condotti all'ospedale. i due tiragliatori napoletani lievemente feriti, quelli che avean tolta una daga a' bersaglieri, furono arrestati e condotti alla Granguardia. A Cavour dispiacque questa zuffa, perché egli desiderava attirar questi alla causa del Piemonte. Villamarina significò al Persano per parte del Conte di Cavour «che sarebbe stato meglio non far scendere i bersaglieri a terra,». Nel medesimo tempo
spiccò il seguente telegramma al Cavour: «Bersaglieri scesi a terra, in piccolo numero, assieme alla divisione che andava in permesso, di cui fan parte.
Era utile, perché prendessero pratica della Città pel caso di sbarco.
V. E. viva tranquilla, non sarò mai io che la comprometterò.»
Intanto il Villamarina in qualità di Ministro Sardo accreditato presso Re Francesco II, chiese clamorosamente soddisfazione dell'infame
attentato contro i bersaglieri piemontesi, e il Ministero liberale diede a' due feriti sardi ventimila lire. Suppongo che questi due feriti abbiano benedette le mazzate napolitane.
Il Ministro della Guerra Pianelli mandò Moschitti alla Granguardia, creato allora giudice per processare i tiragliatori, e schiccherò un ordine del giorno lodando que' bersaglieri piemontesi quali eroi di Palestro e S. Martino.
(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).