Joseph De Maistre .
Quello di Joseph De Maistre (Chambéry 1753 - Torino 1821) è un altro nome scandaloso, pressoché impronunciabile nel salotto buono della cultura contemporanea, tutta doverosamente progressista e democratica, tutta doverosamente irreligiosa e secolarista.
Al massimo, lo si paragona a Félicité de Lamennais, e solo come termine negativo: Lamennais è visto come l’esponente del cattolicesimo liberale e progressista, dunque del cattolicesimo “giusto”; De Maistre è, viceversa, l’esponente del cattolicesimo reazionario, ossia di quello “sbagliato”; né ci si chiede quanto peso, nel giudizio di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato nella storia, abbia la circostanza che il primo risulta, alla prova del tempo (ma su quale periodo: il breve, il medio, il lungo?) vincitore, mentre il secondo risulta sconfitto.
Quasi quasi, ci si vorrebbe dimenticare che è stato uno scrittore italiano, anche se savoiardo di madrelingua francese, relegandolo nel “mare magnum” degli ultras transalpini; quasi quasi, ci si vorrebbe dimenticare che è stato uno scrittore eccellente, uno che, nel secolo delle belle lettere, sapeva tenere la penna in mano con sovrana maestria; quasi quasi, infine, ci si vorrebbe dimenticare, e soprattutto far dimenticare, che è stato non solo un letterato, ma anche un filosofo straordinariamente acuto e dotato di ammirevole chiarezza: due doti che raramente vanno d’accordo e che, specialmente da Hegel in avanti, sono addirittura guardate con sospetto, perché si è formato il pregiudizio che un pensatore, se davvero è profondo e originale, deve essere per forza anche alquanto oscuro: se si fa capire da tutti, allora si sospetta immediatamente che sia banale.
Inoltre, il fatto che De Maistre sia stato un cattolico rigorosamente conseguente viene in genere o sottaciuto, o rivolto contro di lui, come esempio della chiusura del cattolicesimo verso il mondo moderno, della sua incapacità di cogliere i nuovi fermenti vitali della civiltà europea e mondiale; insomma, come esempio negativo di ripiegamento sul passato.
Se, al contrario, si ammette che De Maistre, nel suo cattolicesimo, è di una perfetta linearità e che, anche se le sue idee politiche non sono le uniche che si possono trarre dalla tradizione cristiana, dovrebbero comunque essere valutare con mente libera almeno dai pregiudizi più vistosi e grossolani di quella parte ideologica ch’egli appunto combatteva, ossia quella massonica e illuminista, ecco che la sua figura di pensatore e il suo percorso intellettuale e spirituale appaiono in tutta la loro cristallina coerenza e compattezza; dopo di che bisognerebbe avere l’onestà di dire che la sua filosofia non piace per ragioni politiche e non per una sua intrinseca debolezza o per un suo intrinseco difetto.
L’opera più conosciuta di De Maistre è «Du Pape» («Del Papa»), pubblicata, in due volumi, nel 1819, nella quale propone di subordinare il potere temporale a quello religioso, ma nella cornice di un’Europa delle nazioni e allo scopo dichiarato di impedire alle monarchie assolute, restaurate dopo la bufera napoleonica, di trasformarsi in tirannidi.
Per lui, solo l’autorità del Papa può ragionevolmente porsi al di sopra dell’autorità dello Stato, dal momento che rifiuta come illogica e innaturale l’idea della sovranità popolare ed è per questo motivo che propone di restaurare il modello politico contenuto nella bolla del 1302 “Unam Sanctam” di Bonifacio VIII (allora in lotta con il re di Francia, Filippo IV il Bello, nel primo grave conflitto giurisdizionale nella storia d’Europa).
A causa di tale impostazione, De Maistre si è creato, definitivamente e inappellabilmente, la fama di pensatore reazionario; ma, a parte il fatto che il concetto di “reazionario” dovrebbe essere sottratto al giudizio ideologico (di segno negativo) proprio della cultura neo-illuminista e, dunque, “progressista” (altro concetto sovraccaricato d’un arbitrario giudizio di valore, positivo questa volta) e riportato nell’ambito imparziale della consapevolezza critica, resta il fatto che è un’operazione riduttiva quella di slegare la proposta teocratica di De Maistre dalle sue intime motivazioni politiche: sottrarre, cioè, i sudditi all’arbitrio di un potere dispotico.
In caso di manifesta tirannide, infatti, esiste uno ed un solo potere che abbia, per il filosofo savoiardo, l’autorità morale e politica di autorizzare i sudditi a rescindere il dovere di fedeltà e obbedienza dovute al sovrano, e non può essere che quello papale: l’unico che, per ragioni intrinseche ed estrinseche, sia in grado di porsi, spassionatamente e con lungimiranza, al di sopra della mischia e di farsi interprete di superiori esigenze di umanità e di giustizia.
Basterebbero questi rapidi cenni per aprire almeno un varco alla monolitica, e semplicistica, lettura di De Maistre in chiave ottusamente reazionaria: e proprio l’attualità di questi nostri tempi (la crisi libica, ad esempio) ci ricorda quanto sarebbe auspicabile l’esistenza di un potere universalmente riconosciuto, che venisse delegato a fare da arbitro, a livello nazionale e internazionale, nei conflitti insorgenti fra Stato e cittadino e fra Stato e Stato.
Dicevamo che De Maistre non crede nella sovranità popolare; dobbiamo motivarlo. Per lui, l’umanità è irrimediabilmente decaduta a causa del peccato originale e, quindi, gli uomini non potranno mai governarsi da soli secondo principi di autentica giustizia, come è nell’idea contrattualistica dello Stato moderno. Certo, il suo è un pessimismo antropologico, ma perfettamente in linea con la prospettiva cristiana; e la medesima premessa si trova al fondo della concezione manzoniana della storia.
Proprio come Manzoni, peraltro, De Maistre è quasi ossessionato dal problema del male presente nella storia; e, più precisamente, dal grande mistero per cui vediamo così spesso trionfare i malvagi, mentre i giusti patiscono. De Maistre, comunque, non si vergogna di inchinarsi davanti al mistero: anticipando uno spunto di Gabriel Marcel, sostiene che non tutti i misteri possono venire ridotti a problemi, passibili di soluzione razionale: sostenere questo, per lui, vuol dire negare la ragione, non esaltarla.
Oltre a ciò, egli elabora una risposta parziale , fondata sul fatto che i mali che l’uomo riceve nel corso della vita non sono necessariamente legati alle sue qualità morali: vi sono mali propri dell’uomo in quanto tale, e non dovrebbe far meraviglia che essi colpiscano tanto i malvagi che i buoni, dal momento che non vanno interpretati sempre come una “risposta” alla condotta morale, ma, semplicemente, come effetti naturali della condizione umana.
Ma, tornando al pessimismo antropologico: per De Maistre, l’uomo, da solo, non è in grado di creare ordinamenti giusti; però può avvicinarvisi, con l’aiuto di Dio. In questo egli è agostiniano, ma non certo luterano o calvinista; al contrario, egli vede nella Riforma protestante il primo, gravissimo strappo operato dalla mentalità moderna, ch’egli chiama “teofobica”, nel rapporto fra gli uomini e Dio.
Con l’aiuto di Dio, l’uomo può molto, moltissimo; più precisamente, con la fiducia in Dio e con la relazione attiva che si realizza nella preghiera. Egli paragona l’uomo moderno, che non sa più pregare, a colui che voglia abbattere una quercia con la sola forza del braccio; e si spinge fino a sostenere che tutta la filosofia del “secolo dei Lumi” altro non è stata che un deliberato, sistematico, radicale sforzo per strappare all’uomo quest’arma potentissima che era da sempre nelle sue mani, la preghiera, per consegnarlo al nulla di un mondo senza Dio, dominato dal caso e da forze cieche e incomprensibili, culminate nell’orgia sanguinosa della Rivoluzione francese.
Non solo: avendo conosciuto dall’interno il mondo della Massoneria, allo scopo di intrecciare relazioni che sperava di utilizzare per un progetto di unificazione delle diverse chiese cristiane (i lunghi anni trascorsi come ambasciatore piemontese a Pietroburgo lo avevano persuaso che la cosa fosse realizzabile), egli vede nella Massoneria il braccio operativo dei filosofi illuministi, il cui scopo è la deliberata scristianizzazione dell’Europa, dietro le apparenze più moderate del deismo, del laicismo e della secolarizzazione e dietro il pretesto di voler difendere la libertà di pensiero.
La rivoluzione, per De Maistre, è il peccato sociale: la rivolta contro l’ordine voluto da Dio, poiché i sovrani sono tali per volontà divina. Questo è l’aspetto più propriamente “medievale” del pensiero di De Maistre e, diciamolo francamente, il più urtante per la mentalità moderna scaturita, appunto, dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese.
Eppure, a ben guardare, e collocandolo nella giusta prospettiva storica, bisognerà ammettere che non è né peregrino, né illogico, né in contrasto con la tradizione cattolica, per la quale il concetto di una società naturalmente gerarchica ha radici antiche quanto le Sacre Scritture.
È, in fondo, una concezione che parte da premesse simili a quelle del pensiero di Dante, anche se giunge ad esiti differenti: per entrambi i pensatori, l’uomo non è in grado di elevarsi, con le sue sole forze, al di sopra dei bassi istinti che gli derivano dalla Caduta; per entrambi, l’ordine gerarchico è al tempo stesso naturale e necessario, poiché pone un freno agli impulsi disordinati degli uomini e garantisce un ordine sociale che rende possibile la civile convivenza.
Poi le loro strade si dividono: e dove Dante, anche personalmente esacerbato contro Bonifacio VIII, auspica un potere imperiale che sia del tutto autonomo da quello papale, per presiedere alla giustizia e alla pace nell’ordine temporale, così come quello papale è preposto alla salvezza delle anime (teoria dei due Soli); De Maistre propone che ogni potere terreno si inchini a quello della Chiesa cattolica, anzi, specificamente, a quello del Papa, di cui prefigura, con mezzo secolo di anticipo sul Concilio Vaticano I, il dogma dell’infallibilità, considerandolo il solo che possieda sufficiente autorevolezza per porsi al di sopra di tutti gli altri e il solo direttamente stabilito da Dio (ultramontanismo), e non indirettamente, come nel caso dei sovrani temporali.
Anche se la sua opera filosofica più importante è il saggio «Esame della filosofia di Bacone», del 1815 (ma pubblicato, postumo, solamente nel 1836), quella più conosciuta e quella letterariamente più pregevole è certamente «Le serate di San Pietroburgo», del 1821 (anch’essa pubblicata dopo la sua morte e rimasta incompiuta), la cui “ouverture” non cede, in fatto di bellezza, alla celeberrima pagina iniziale del «Fedro» platonico; in essa tre personaggi: un cavaliere francese emigrato in seguito alla Rivoluzione, un senatore russo di religione ortodossa e un conte, che è controfigura dell’Autore, discutono, nella splendida cornice delle “notti bianche” pietroburghesi, di alcuni problemi centrali della vita umana e specialmente del mistero del male e del bene, il tutto in un’ottica cristiana fondata sulla fede nella Provvidenza.
La Provvidenza agisce nella storia, questa è la sua ferma convinzione: e anche il trionfo momentaneo (e apparente) del male, non è che preparazione di un bene futuro, più grande e duraturo; così, ad esempio, De Maistre legge il fenomeno della Rivoluzione francese, da lui giudicata provvidenziale per riportare l’Europa, con rinnovato fervore, a quel Dio cui da tempo aveva voltato le spalle, con proprio danno sia nell’ordine morale che in quello materiale.
Chi, leggendo le «Le serate di San Pietroburgo», si aspettasse di trovarvi le farneticazioni di una mente ottusa, incapace di misurarsi col presente e tutta intesa a sognare impossibili ritorni al Medioevo, resterà fieramente deluso: è difficile immaginare, infatti, in un’opera dichiaratamente reazionaria, come lo è questa, un tale garbo e una tale piacevolezza sul piano espressivo e, sul piano dei contenuti, una tale pacata ragionevolezza, come se De Maistre (in questo simile al filosofo George Berkeley) avesse perfettamente appreso la lezione dei liberi pensatori, allo scopo di rovesciarne le tesi e di confutarle proprio sul piano in cui essi le ritenevano inconfutabili: quello del buon senso, del dato empirico, dell’osservazione spassionata e “scientifica”.
Ne «Le serate di San Pietroburgo», De Maistre, tra l’altro, lancia una dura condanna dei valori predicati dall’Illuminismo, da lui considerati esiziali per la civiltà europea e preambolo alla catastrofe della Rivoluzione francese.
Ne riportiamo un paio di passaggi (D. Maistre, «Le serate di Pietroburgo», Sesta e Undicesima Conversazione; titolo originale, «Les soirées de Saint-Pétersburg ou entretiens sur le gouvernement temporel de la providence»; traduzione di Gennaro Auletta, Edizioni Paoline, 1996, pp. 85-86, 151-152):
«La filosofia de secolo scorso, che agli occhi dei posteri apparirà come una delle più vergognose epoche dello spirito umano, ha fatto di tutto per stornarci dalla preghiera mediante la considerazione delle LEGGI ETERNE E IMMUTABILI. Il suo scopo preferito, e quasi unico, era il distacco dell’uomo da Dio; e come poteva arrivarci più sicuramente se n on impedendogli di pregare? Tutta quella filosofia non fu in effetti se on un sistema di ateismo pratico; io ho dato un nome a questa strana malattia; l’ho chiamata TEOFOBIA. E notate bene, voi la troverete in tutti i libri filosofici del secolo decimottavo. Non si diceva apertamente: DIO NON ESISTE, affermazione che avrebbe potuto avere degli inconvenienti; ma si diceva: DIO NON È LÀ; non è nelle vostre idee che vengono dai sensi; non è nei vostri pensieri che sono SENSAZIONI TRASFORMATE; non è nei flagelli che vi colpiscono e che sono fenomeni fisici spiegabili con le leggi conosciute. Egli non pensa a voi; non ha fatto nulla di particolare per voi; il mondo è fatto per l’insetto come per voi; egli non s vendica di voi perché siete troppo piccoli ecc. Infine non si poteva nominare Dio a quella filosofia senza farle prendere delle convulsioni. Gli stessi scrittori dell’epoca, infinitamente al di sopra della folla e notevoli per eccellenti intuizioni parziali, hanno apertamente negato la creazione. Come si poteva parlare a quella gente di castighi celesti senza farli infuriare? NESSUN AVVENIMENTO FISICO PUÒ AVERE UNA CAUSA SUPERIORE RELATIVA ALL’UOMO: ecco il suo domma. Talvolta forse non osava enunziarlo in generale; ma in pratica, lo applicava a ogni particolare, il che è lo stesso. […]
In primo luogo, non dico che ogni illuminista sia un massone; dico soltanto che lo erano tutti quelli che ho conosciuto., soprattutto in Francia; il loro domma fondamentale è che il Cristianesimo, come lo conosciamo oggi, non è che una vera cuccagna per l’uomo volgare; però dipende dall’uomo intelligente elevarsi a mano a mano fino alle sublimi conoscenze, come quelle che possedevano i primi cristiani che erano veri iniziati. Questo è quel che i Tedeschi hanno chiamato cristianesimo trascendentale, e che è un miscuglio di platonismo, di origenismo e di filosofia ermetica su una base cristiana.
Le conoscenze soprannaturali sono la grande meta dei loro studi e delle loro speranze; sono sicuri che è possibile all’uomo mettersi in comunicazione col mondo spirituale, aver relazioni con gli spiriti e scoprire così i più singolari misteri. La loro costante abitudine è di dare nomi straordinari a cose notissime con nomi comuni; così un uomo per essi è un MINORENNE e la sua nascita è una EMANCIPAZIONE; il peccato originale si chiama DELITTO PRIMITIVO, gli atti della potenza divina, o degli agenti divini nell’universo, si chiamano BENEDIZIONI, mentre le pene inflitte ai colpevoli si chiamano PATIMENTI. Spesso li ho tenuti anch’io sulle spine quando mi è accaduto di dimostrare che tutto quel che dicevano di vero non era altro che il catechismo mascherato con parole strane…
Spero, caro sentire, che non mi scuserete di parlare degli illuministi senza conoscerli. Ne ho visti molti e ho letto i loro scritti. Questi uomini, tra i quali contavo degli amici, spesso mi hanno edificato, speso mi hanno divertito, e spesso pure… ma non voglio ricordarmi certe cose. Al contrario, cerco di vedere in loro i lati buoni. Più di una volta vi ho detto che questa setta potrebbe essere utile nei paesi separati dalla chiesa, perché conserva il sentimento religioso, abitua lo spirito al domma, lo sottrae alla enorme influenza deleteria della riforma, e lo prepara all’unione. Ricordo spesso, con la più profonda soddisfazione, che tra gli illuministi protestanti da me conosciuti, non ho mai trovato una certa acrimonia, che dovrebbe esprimersi con un nome particolare perché non somiglia a nessun altro sentimento di questo genere, al contrario, in loro non ho trovato che bontà, dolcezza e pietà, si capisce alla loro maniera. Ritengo una cosa utile che si imbevano dello spirito di san Francesco di Sales, di Fénelon e di Santa Teresa; la stessa Madame Guyon, che essi sanno a memoria, non sarà loro inutile. Tuttavia malgrado questi vantaggi, o per meglio dire malgrado queste compensazioni, l’illuminismo non è meno mortifero alla nostra Chiesa e alla vostra, in quanto distrugge dalle fondamenta l’autorità che è intanto la base del nostro sistema.
Vi confesso, signori, che non mi raccapezzo in un sistema che non vuol credere se non vede miracoli e che esige assolutamente che i preti li facciano sotto pena di essere dichiarati buoni a nulla.»
Sono idee che possono piacere o non piacere; ma sono idee ponderate, argomentate, nelle quali si esprime una critica equanime, che si sforza di vedere i pregi anche nell’avversario e che non ha nulla di rancoroso o di retrivo.
Forse, sarebbe davvero ora di riprendere in mano questo filosofo dimenticato e di rileggerlo con maggiore serenità di giudizio, riconoscendovi una grande mente e un gran cuore, che ha avuto il torto principale di subire l’ostracismo della cultura dominante.
Certo, la debolezza fondamentale di ogni pensiero reazionario è che esso non è in grado di proporre un modello cui gli uomini del proprio tempo possano ispirarsi, perché scritto in una lingua della quale hanno smarrito il vocabolario.
Ma è davvero una debolezza, poi?
Forse, quando i tempi saranno maturi, gli uomini torneranno ad ascoltare la voce di chi, sul momento, sembrava guardare solo al passato; mentre invece aveva lo sguardo rivolto al futuro più di tutti gli altri…