giovedì 8 dicembre 2011
Dalla Confederazione all’Unione.
tratto da: Il Domenicale, 28.6.2003 (anno II), n. 26, p. 6.
Gettysburg, 1-3 luglio 1863. Accadde 140 anni fa. Fu un massacro. E l’America Settentrionale venne normalizzata
La battaglia centrale della Guerra “civile” nordamericana decise le sorti dell’intero Paese. Fino a quel momento il Sud avrebbe potuto ancora vincere. Poi fu il disastro. E nacque l’America centralizzatrice e statalista.
Per la Confederazione combatterono addirittura dei neri e degl’indiani.
Una storia mai raccontata
Fu Guerra fra Stati, perché gli Stati Confederati d’America (CSA) si separarono formalmente nel 1861 dal resto dell’Unione per costituire una nazione indipendente, confederale e non federale.
Negli Stati Uniti d’America – oggi come allora, ma oggi molto più di allora – “federale” è il termine impiegato per indicare ciò che da noi si direbbe “nazionale” (talvolta “nazionalistico”), “centrale” (talvolta “centralistico”) e “statale” (talvolta “statalistico”). L’organizzazione “confederale”, invece, è un’unione fra Stati che conservano poteri sovrani e indipendenti.
Dopo l’indipendenza, proclamata il 4 luglio 1776 a Filadelfia, le ex Colonie britanniche dell’America Settentrionale non diedero vita agli Stati Uniti d’America, ma a una Confederazione di Stati indipendenti uniti solo flebilmente (‘loosely’, in inglese) quanto a difesa e a commercio, e più teoricamente che concretamente. Il documento ufficiale di riferimento di questa organizzazione fra Stati furono gli Articoli della Confederazione, approvati il 15 novembre 1777 dal Congresso dei delegati degli Stati (in piena guerra d’indipendenza) ed entrati in vigore ufficialmente il 1° marzo 1781 dopo la ratifica di tutti gli Stati.
Con la convocazione della Convenzione costituzionale a Filadelfia il 14 marzo 1787 s’intendeva riformare gli Articoli della Confederazione per ovviare ad alcune loro palesi debolezze. Ma ne risultò un documento completamente nuovo, quindi un'organizzazione istituzionale inedita: l’Unione degli Stati nordamericani e non più la Confederazione.
Gli Stati Uniti d’America nascono quindi nel 1789, quando George Washington è eletto primo presidente vigente la Costituzione. Il potere delegato alla struttura federale, ovvero al centro, al governo di Washington, è maggiore, laddove nella struttura confederale le ex Colonie, poi Stati indipendenti confederati, erano autonomi e sovrani.
La Costituzione federale, del resto, sorse da un compromesso fra federalisti (centralisti-nazionalisti) e antifederalisti (confederalisti). Il 25 settembre 1789, il primo Congresso degli USA propose agli Stati dodici emendamenti. Ne furono approvati dieci, che, ratificati dai vari Stati, entrarono in vigore nel 1791. Da allora sono parte integrante della Costituzione federale con il nome di “Bill of Rights”, a imitazione della “Carta dei diritti” della tradizione giuridica britannica modellata dal Common Law consuetudinario. Quello statunitense costituisce l’insieme dei dieci emendamenti alla Costituzione che bilanciano a favore dei singoli Stati il potere attribuito appunto dalla Costituzione al governo federale centrale.
Costituzione e “Bill of Rights” son dunque un ‘via media’ fra l’antica Confederazione e il centralismo moderno, quest’ultimo nato proprio dalla Guerra cosiddetta civile. Dal 1789 al 1865 (la data della fine della Guerra è un simbolo significativo) sono esistiti degli USA diversi sia dall’antica Confederazione, sia dalla nazione postlincolniana di oggi. Un “antico regime”, diverso sia dal “feudalesimo”, sia dall’epoca postrivoluzionaria.
La metafora storica non è azzardata. L’epoca della Confederazione, infatti, ereditando direttamente il passato coloniale di sostanziale autogoverno, visse del “retaggio medioevale” britannico. Mentre l’epoca successiva alla Guerra cosiddetta civile rappresenta il periodo postrivoluzionario dell’America Settentrionale, e questo grazie a quella “Ricostruzione” (1865-1877) che fu una vera e propria spoliazione culturale ed economica, e che giuridicamente stravolse l’equilibrio fra Stati e governo centrale. A mero vantaggio del secondo.
Quella combattuta fra 1775 e 1783, e definita “rivoluzione americana”, non fu affatto una rivoluzione. La si è chiamata così per analogia, a posteriori, con quella di Francia del 1789, secondo una particolare versione del sofisma ‘post hoc ergo propter hoc’ che si basa su presunte somiglianze fra Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino (26 agosto 1789) francese e “Bill of Rights”.
La “Déclaration” parlava d’«individue», il “Bill of Rights” di Stati. La prima aveva a che fare con l’illuminismo e si sarebbe inverata nel giacobinismo, padre dei totalitarismi. La seconda era figlia dell’Europa classica e giudeo-cristiana, mediata dalla giurisprudenza britannica. E parlava di libertà concrete, non di una «Loi» astratta, rivendicando il passato invece d’inventarsi un futuro inesistente. Disse il virginiano Patrick Henry (1736-1799), patriota e antifederalista, il 23 marzo 1775: «Non ho che un lume con cui guidare i miei passi e questo è il lume dell’esperienza».
Non fu rivoluzione, ma solo guerra d’indipendenza. La vera sovversione – credevano i nordamericani – era l’assolutismo di Londra laddove essa negava la tradizione della libertà.
Reazione, dunque, addirittura controrivoluzione. O, con Edmund Burke (1729-1797) – il primo critico (irlandese) del 1789 di Francia –, una rivoluzione affrontata preventivamente per risolverne le contraddizioni. La lotta armata fu una ‘extrema ratio’ e così la separazione formale del 4 luglio.
«Lungi dall’essere il prodotto di una rivoluzione democratica e di una opposizione alle istituzioni britanniche – ha scritto nell’Ottocento Lord John Emerich Edward Dalbergh Acton (1834-1902) –, la Costituzione degli Stati Uniti fu il risultato di una grandiosa reazione a favore delle tradizioni della madrepatria». E Alexis de Tocqueville (1805-1859), il più acuto osservatore degli USA alla vigilia loro della spaccatura che l’Europa abbia mai conosciuto: «Anzitutto mi sembra necessario distinguere accuratamente le istituzioni degli Stati Uniti dalle istituzioni democratiche in generale». Non era, insomma, ciò che nacque in Francia nel 1789, che De Tocqueville conosceva bene e che in gran parte disprezzava.
La “democrazia moderna” di marca illuministico-giacobina, centralistica e protototalitaria, si fece strada nel corso della prima metà dell’Ottocento nordamericano, impadronendosi di quelle forze federaliste a cui gli antifederalisti avevano a suo tempo strappato il “Bill of Rights”. Le prime coincidevano grosso modo con il Nord, i secondi con il Sud, anche se con clamorose eccezioni da entrambe le parti.
Cucinato in salsa puritana oramai secolarizzata, l’illuminismo giacobino nordamericano lavorò l’Ottocento come quello francese aveva lavorato il Settecento ed ebbe il suo 1789 nel 1861. Accadde negli USA, ma fu lo stesso – le date coincidono – in Italia con il Risorgimento. Come ha osservato Lord Acton, «è semplicemente la democrazia spuria della Rivoluzione francese che ha distrutto l’Unione, disintegrando i resti delle tradizioni e delle istituzioni britanniche». Successe con la Guerra cosiddetta civile.
Del resto, gli USA nati nel 1789 avevano il diritto alla secessione nel DNA. La Dichiarazione d’indipendenza, nel famoso preambolo, chiama alla necessità di rendere palesi le ragioni della separazione fra i componenti di un’unione politica qualora questa stessa sia divenuta insostenibile, ovvero più dannosa che utile. E questo senza di per sè rinunciare alle continuità e alle eredità culturali.
La CSA fece così nel 1861, ma il giacobinismo – che fra 1787 e 1789 in America Settentrionale non esisteva – diede fuoco alle polveri.
Fino a Gettysburg, la CSA avrebbe potuto vincere. Dopo è andata com’è andata. La Guerra cosiddetta civile avrebbe potuto modificare l’America Settentrionale per conservarla. Gettysburg la conservò per modificarla.