1° Maggio 2009
La storiografia contemporanea pare, lentamente, avallare la tesi secondo cui una decisa crescita economia nel Regno delle Due Sicilie si verificò sin dai primi anni dell’800. La libertà di esportazione della seta incoraggiò la ripresa della coltivazione del gelso e dell’allevamento del baco da seta con un aumento di produzione di seta greggia fino a 400 mila chilogrammi, l’industria laniera di Sora, Arpino, Chieti e del salernitano, anche con l’aiuto di investimenti svizzeri e tedeschi, vide l’introduzione di impianti avanzati come macchinari tessili e moderni telai a mano, in Sicilia, la produzione di zolfo crebbe sotto la spinta delle richieste inglesi e francesi, così come in Calabria crebbe l’industria estrattiva di minerali ferrosi. Numerose cartiere e fabbriche metallurgiche sorsero, nel Napoletano, mentre a Catanzaro e Reggio Calabria furono create delle ferriere destinate a soddisfare le esigenze del settore militare.
Sparse sul territorio nazionale, sorsero, poi, aziende atte alla lavorazione di vetro, cristalli e ceramiche, ed ancora numerosi stabilimenti di profumi, guanti, zucchero e prodotti chimici. L’elenco dei settori in crescita e dei progressi economici, industriali e tecnologici che interessarono il Regno di Ferdinando II, in particolar modo nel suo ultimo decennio di governo, potrebbe continuare a lungo, ma ci bastino questi pochi cenni per ipotizzare un più profondo motivo alla base della lunga resistenza popolare sorta all’indomani del 1860 e che conosciamo col nome di brigantaggio.
Probabilmente ampi strati di popolazione avevano sensibilmente avvertito il processo di crescita in atto ed anche per questo insorse. Cieca ed immutata fedeltà alla Corona di Napoli dovette, invece, animare il groviglio di tele segrete e romantici legittimisti su cui poca e fioca luce rifulge e molto v’è, dunque, da scrivere e scoprire.
Ci soffermiamo, qui, sull’anno 1869. Erano morti i Crocco, i Giordano, i Romano, falliti i progetti di Borjes e in maturazione lo scandalo della Regina Maria Sofia, una delle prime vittime dell’ingiuriosa falsificazione massmediatica moderna. Sembra che tutto fosse scemato, svanito lentamente, spentosi come la fiammella di una candela, poco prima, ardente.
Dal buio, invece, sono venute alla luce piccole verità nascoste, tracce di un movimento tutt’altro che domato, che, come l’isolotto di Ferdinandea, dalle profondità, affiorano alla calda luce solare in piccoli frammenti che solo un attento lavoro di ricostruzione, fondato sull’analisi dei documenti di Prefetture, Questure e Archivi può ricostruire fino in fondo.
Aristide Ricci, in “Giuseppe Ricciardi e l’Anticoncilio di Napoli del 1869”, scrive di ingenti flussi di denaro provenienti dalla Città Santa per alimentare precisi progetti di restaurazione. Era opinione fondata, quella del Ministero degli Interni, che il vero pericolo di sovversione non provenisse dai settori mazziniani e socialisti, ma da quelli borbonici e, proprio in questo periodo, le autorità dell’Italia unita si rendevano conto che il nemico era ben più temibile e versatile di quanto pensassero.
Capace di portare il suo attacco su più fronti, il legittimismo borbonico alimentava, infatti, il brigantaggio, lotta aperta sui monti e le vallate dell’ex Regno, e le strutture cattoliche, nelle quali era forte e solido, e dove forse durò più a lungo, ma era pure capace di coadiuvare attorno a sé altre forze politico-sociali che, partendo da opposti interessi, si incontravano in un’associazione di intenti e azione tanto bizzarra quanto poco duratura.
In questo progetto un nome spicca sugli altri ed è quello di Giovanni Gervasi, artefice del singolare raccordo di sinergie borboniche, repubblicane e socialiste che, in data 23 ottobre del 1869, incontrò a Palazzo Farnese esponenti della casa reale delle Due Sicilie e il segretario di Stato Cardinal Antonelli.
Ne nacque un giornale, “La Soluzione”, che sostituiva la precedente pubblicazione del Gervasi, “La pietra infernale”, ed, abilmente, si riprometteva di condurre una battaglia su temi comuni alla stampa democratica, mimetizzando, così, il lavoro dei legittimisti e congiungendo i repubblicani di Cavicchio, Nicotera e Caporosso.
Nell’ambito di questi movimenti, risulta persino concreta l’ipotesi che la fondazione della sezione partenopea dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, guidata dal Caporosso, avesse ricevuto il cospicuo appoggio finanziario dei borbonici. Possiamo pensare che l’intento dei legittimisti fosse quello di destabilizzare il nuovo Regno per poi affondare il colpo finale.
In questo stesso anno circa 2.500 carabine provenienti dal Belgio arrivarono in Abruzzo per armare i briganti sotto le insegne di Francesco II. A darne notizia fu il giornale “L’Italia”, convenendo col Prefetto sul fatto che il re Francesco II avesse destinato, solo in quel anno, l’esorbitante cifra di dodici milioni di lire alla resistenza.
Insomma, borbonici e repubblicani si ritrovarono a collaborare in progetti ed episodi d’insorgenza contro il governo sabaudo come già gli scioperi degli operai del 1861 presso l’Arsenale in Napoli, e del 1863 presso l’opificio di Pietrarsa avevano mostrato.
La risposta piemontese stavolta portava il nome di Rodolfo D’Afflitto che, sotto il Regno delle Due Sicilie, era stato funzionario della Consulta di Stato e segretario generale della prefettura di Napoli, per poi essere allontanato dopo il 1848, aveva, poi, seguito Garibaldi e, divenuto suo Ministro ai Lavori Pubblici, fu riconfermato dalla Luogotenenza Farini, nel 1861 era stato governatore di Napoli e senatore del Regno ed, infine, nell’anno 1869, fu nominato prefetto di Napoli in sostituzione di Rudinì. Attento controllore dei movimenti antiunitari, D’Afflitto temendo che le manovre dei legittimisti avessero risultati pericolosi, allarmò prefetti, eserciti, ministeri, e furono i suoi reclami a portar presto anche al sequestro de “La Soluzione”.
Non si dimentichi, in effetti, che trattiamo di un periodo storico in cui la censura, la violenza, la negazione di ogni minimo diritto era la regola. Persino i repubblicani lamentavano il timore della gente “che scappano ad un batter di piede di una Guardia o ad uno squillo di tromba”. Proprio per questo apprezziamo l’eroicità di quanti, di fronte alla scelta del Consiglio comunale di Napoli di destinare 250. 000 lire alla Corona per offrire la culla in occasione della nascita di Vittorio Emanuele III, tappezzarono coraggiosamente Napoli di manifesti di denuncia delle condizioni dei napoletani e di lode dei Borboni che “nei fausti avvenimenti della Casa non esigevan donativi e presenti, ma spendevano invece sui popoli le loro reali beneficenze”.
Continuavano: “Per la dignità quindi del nome napoletano, a serbare integri i nostri diritti, ed inviolato l’onore protestiamo con tutta la forza dell’animo contro questo atto di abbietto servilismo, che à solo riscontro nei barbari tempi vicereali, riproducendo un odioso tributo mascherato a donativo: protestiamo contro il procurato voto di una effimera maggioranza del Consiglio municipale, di cui tutto il paese aborrisce i sentimenti, e la solidarietà rigetta; protestiamo da ultimo, che le speranze, i voti, gli affetti nostri sono, e sempre fermi saranno pel nostro Legittimo Sovrano, che l’Onnipotente à serbato al risorgimento della Patria, e che in un prossimo avvenire, fatto lieto di un Figlio, vero Erede del Trono, e pegno certo della protezione divina, tornerà fra noi più glorioso non solo, ma desiderato sempre, benedetto, ed amato!!!”.
Pensare che il giorno seguente Napoli si risvegliò tra simili manifesti ha davvero qualcosa di romantico e, giustappunto, siamo in una fase “romantica”, epoca di incontri segreti, adunate sediziose, nomi in codice e cupi protagonisti, ma se Gervasi e i legittimisti di Napoli si muovevano nell’oscurità, la nobiltà del sud, rimasta fedele all’ex sovrano, mostrava in tutta libertà il proprio sdegno per Casa Savoia, infatti, in occasione della nascita di Maria Sofia di Borbone, tre quarti della nobiltà napoletana non avevano rinunciato a farle visita nella Roma Papalina. Il “popolo dei quartieri”, invece, gravato di pesanti e nuovi gravami fiscali, lamentava pure che il titolo di principe di Napoli veniva assegnato ai discendenti di casa Savoia, considerati stranieri e quindi non aventi diritto a tale privilegio. Della stampa e diffusione di questo manifesto furono sospettati i redattori del “Trovatore”, foglio borbonico napoletano, per il fatto che i suoi giornalisti avevano strette relazioni con Palazzo Farnese a Roma.
Sappiamo la storia come è andata, tutto è finito, briganti sui monti non ce ne sono più, vane si rivelarono pure le speranze dei Borbone di un intervento francese o austriaco che li riportasse sul trono, ed oggi, addirittura, mettere in discussione l’Unità è diventato un argomento per “nordisti”, tuttavia fa uno strano effetto leggere di simili vicende per poi catapultarsi nella nostra realtà dove, tra l’indifferenza generale, si continua a dedicare strade e palazzi a “liberatori” stranieri. E’ vero, è difficile, ancora difficile a 150 anni da quel 1861, chiedere almeno una lettura imparziale degli eventi e rispetto per la nostra storia, ma lo è ancora di più perché il popolo non ha memoria e, così, va costruendosi un sommesso futuro. Chissà se qualcosa cambierà, noi vi metteremo il nostro impegno.
FONTI:
A. Ricci, "Giuseppe Ricciardi e l’Anticoncilio di Napoli del 1869", Luigi Regina, Napoli, 1975
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