di Isacco Tacconi (Fonte: http://www.radiospada.org/)
Ogni personaggio tolkieniano esprime un aspetto particolare dell’animo umano e quantunque l’autore non abbia voluto scientemente comporre un’allegoria, ognuno dei protagonisti è realmente portatore dell’umanità così com’è vista dagli occhi di colui che li ha portati, per così dire, alla vita.
Tra queste sfaccettature che John Ronald Reuel è riuscito, da fine scrittore, a rappresentare non c’è né una a mio avviso così bella, così profonda, così edificante e toccante come quella di Samwise Gamgee.
Figlio di Ham (che significa «prosciutto») Gamgee, un gaffiere di…ma, a proposito, che cos’è un “gaffiere”? La traduzione letterale dell’originale inglese «gaffer» corrisponderebbe al nostro “compare” o “vecchio”. Le versioni italiane del Signore degli Anelli per la maggior parte l’hanno italianizzato in “gaffiere” il che non ha molto senso, eppure questo del tutto originale modo di riferirsi al proprio “vecchio” ha contribuito, per lo meno in Italia, ad alimentare un certo “vocabolario tolkieniano” per cui quando sentiamo la parola “gaffiere” non possiamo far altro che pensare a Tolkien e al suo mondo.
Ma procediamo. Di modeste origini i Gamgee, padre e figlio, sono dipendenti della famosa e benestante famiglia Baggins svolgendo per loro la mansione di giardinieri. Perciò, essendo già il servitore di padron Frodo in quanto operaio, Samwise verrà “esortato”, per così dire, da Gandalf a divenirne anche l’“angelo custode” nonché il suo più fedele compagno di viaggio. Infatti, soltanto l’umile “giardiniere” Gamgee berrà fino in fondo la feccia cui era destinato il suo padrone. Nessuno degli altri membri della Compagnia, elfi, uomini, nani o stregoni che partirono da Granburrone alla volta di Mordor sosterrà il peso che questo piccolo servo nel suo eroico nascondimento condividerà col “Portatore dell’Anello”.
Il personaggio di Sam è limpido, trasparente, semplice e genuino; banale come tutti gli hobbit epperò puro di cuore. Si può cogliere la portata del suo cordoglio per la partenza dell’amato padron Frodo nell’ultimo commiato ai Porti Grigi, solo se si considera che Sam non è esattamente uguale agli altri hobbit della Contea; egli è nostalgico e sognatore come Frodo benché più terragno e pragmatico, anch’egli desideroso di uscire, forse più inconsapevolmente che consciamente, dagli stretti e, bisogna dirlo, ottusi confini della Contea. “«Ho anche sentito dire che gli Elfi fuggono verso ovest. […] Stanno percorrendo centinaia e centinaia di miglia attraverso il Mare, con le vele issate al vento; vanno ad ovest e ci lasciano qui», disse Sam, come se canticchiasse una nenia, scuotendo gravemente il capo triste”[1]. Anche Sam, come Tolkien, sente il richiamo delle “terre di là dal mare”, del sacro mistero, del leggendario che attraversa il mondo e che, coll’avanzare del Male, abbandona progressivamente questa Terra di Mezzo “per non tornare mai più”[2]. Perciò l’interiore dicotomia del vecchio professore di Oxford che costituisce quasi l’ingrediente segreto che rende la sua opera così fiabesca e al contempo così intimamente aderente ad ogni spirito umano, traspare non solo nel personaggio di Frodo ma anche in Sam che vuole vedere gli Elfi e, contemporaneamente, non vuole lasciare la sua amata Inghilterra, cioè la Contea di Tolkien. E nel leggere le lunghissime e dettagliate, a volte tediose, descrizioni in cui il Libro molto spesso si perde deviando dalla narrazione principale, vien da chiedersi: cos’è che rende una fiaba, un racconto così affascinante e coinvolgente? Cos’è che rende il Signore degli Anelli un’opera così diversa da ogni altro romanzo fantastico? In parte lo abbiamo già visto nell’introduzione a questa serie di saggi, ma mi sembra opportuno ritornarvi sopra ancora un poco. La risposta alla domanda è: la tensione verso l’Assoluto, il desiderio del Paradiso, l’insoddisfazione di vivere in una terra “di mezzo” tanto attraente quanto insufficientemente appagante. «Noi tutti – diceva Tolkien – ne abbiamo nostalgia [dell’Eden], e lo intravediamo costantemente: tutta la nostra natura nella sua forma migliore e meno corrotta, più gentile e più umana, è impregnata della sensazione di “esilio”»[3].
L’umanità dei personaggi che li rende veri, palpabili quasi, a tratti ce li fa sentire nostri intimi amici e compagni in questo nostro viaggio che è la vita umana; un viaggio che ognuno deve compiere, interiormente, da solo verso il proprio (Monte) “Fato”. Eppure molto spesso, le più dolci consolazioni che proviamo in questa valle di lacrime ci vengono proprio da coloro che la Divina Provvidenza ci mette accanto, e con i quali condividiamo un tratto del nostro viaggio, dividendo con loro il pane, le lacrime, le gioie e le fatiche; d’altra parte, “in tre si è in compagnia”. Leggendo il Libro, ci si accorge che il tema dell’amicizia in Tolkien non è banale o stereotipato, né pedantemente moralistico ma è profondamente vero e personale. Tolkien fu un uomo che nell’amicizia ritrovò quei legami che troppo presto gli furono strappati. Bisogna considerare infatti che la sua vita fu drammaticamente segnata dalla morte; prima, ancora bambino, dei genitori e poi, da giovane ufficiale inglese nella Battaglia de la Somme, degli amici più cari. Una carneficina quella della Somme, che in un solo giorno falciò ben cinquantamila uomini. Un inferno che gli strappò tutti i suoi amici con i quali era partito dall’Inghilterra per andare a combattere una guerra che non era la sua, una guerra fratricida, satanica come mai si erano verificate prima nella storia dell’umanità. Quell’esperienza di morte e di desolazione si imprimerà profondamente nell’anima del giovane John come il più efficace e duro esercizio della Buona Morte che un uomo possa affrontare.
Non è un caso che un altro uomo di profonda fede cattolica, Eugenio Corti, scrisse dopo anni dal suo ritorno dalla Seconda Guerra mondiale un Romanzo autobiografico intitolato “Il Cavallo Rosso”. Perciò, quando guardiamo con affetto quasi familiare le foto del Professor Tolkien che si accende soddisfatto la sua pipa, oppure lo vediamo sorridere dolcemente con un’espressione che nulla ha di frivolo, pensiamo per un attimo a quelle immagini. Pensiamo a quelle scene di polvere, fango, paurose esplosioni, avanzate notturne mentre gli ufficiali con i fischietti comandano l’attacco sotto una pioggia invisibile di bombe improvvise come fulmini devastanti. Cadaveri sparsi, brandelli di ragazzi, fumo e fuoco che passando attraverso gli occhi che, come li definì Chesterton, sono le finestre dell’anima, si impressero in quel cuore radicato nei Cieli. La morte ha segnato tutta la vita di Tolkien e la morte è, dunque, il grande tema del Signore degli Anelli. Neppure gli hobbit in tutta la loro provincialità riescono ad evitarla.
Il nostro Samwise che “in inglese antico sta per «sciocco»”[4], rientra in quell’opera di valorizzazione dell’“ignobile” che stava tanto a cuore a John Ronald. Sam cioè rappresenta la nobilitazione del volgare senza cui lo stesso eroismo non avrebbe significato e consistenza. A detta dello stesso Tolkien “Sam è il personaggio più compiuto, il successore di Bilbo del primo libro, il vero hobbit. Frodo non è così interessante, perché deve essere di nobili sentimenti, e ha una vocazione. Il libro probabilmente finirà con Sam”[5]. E così sarà. Samwise sarà il custode dell’avventura, proseguirà la missione di conservare la memoria delle cose che furono nel pur ordinario scorrere della vita della Contea “occupandosi del giardino e delle locanda”; Sam al pari di un monaco benedettino dell’anno 1000, nella solitudine, sconosciuta ai più, dell’orto botanico del monastero, contribuisce con il suo umile lavoro unito ai patimenti del Cristo, alla Redenzione del mondo.
Sam si preoccupa di condire i conigli con erbe aromatiche e patate stufate, mentre Frodo deve andare a distruggere il Male del Mondo, l’Unico Anello. È il compagno di viaggio che tutti vorremmo avere, perché con la sua pura ed ingenua positività alleggerisce il peso del dovere e del vivere. Il servitore di Frodo doveva necessariamente essere un hobbit ancora più semplice, se vogliamo più leggero, meno serioso; una creatura non dotta, non interessata alle faccende troppo complicate degli uomini, eppure determinato a non abbandonare il suo padrone in quella che entrambi sanno essere un viaggio senza ritorno. In questa umiltà di cuore di Sam risuona quella parola della Scrittura: “Signore, il mio cuore non è orgoglioso e i miei occhi non sono altezzosi; non aspiro a cose troppo grandi e troppo alte per me” (Sal 131,1). Il suo coraggio è straordinario in tutto il cammino ma a tratti si fa addirittura guerresco quando, per esempio, affronta Shelob, il ragno femmina che vuole divorare il suo padrone: “«Vieni lurida bestia!», urlò. «Hai ferito il mio padrone, bruto, e la pagherai. Noi andremo avanti, ma prima regoleremo i conti con te. Vieni, e assaggia di nuovo questa spada!»”[6]. Ma accanto a questo ardore di Sam, il nostro caro nonno inglese ha voluto dedicare dello spazio a un elemento apparentemente secondario: il lembas.
La descrizione che Tolkien fornisce della virtù prodigiosa di questo pan di via elfico è straordinariamente aderente alla dottrina cattolica sulla Santa Eucaristia. Quel nutrimento così poco appetitoso e attraente costituisce il sostegno che consente ai due hobbit di giungere alla fine del loro viaggio. Ma ascoltiamo direttamente le parole del Professore: “Il lembas aveva una virtù senza la quale si sarebbero già da tempo lasciati morire. Non soddisfaceva la gola, ed a volte la mente di Sam si empiva d’immagini di cibo e del desiderio di semplici carni e di pane. Eppure, quel pan di via degli Elfi aveva una potenza che aumentava quando i viaggiatori lo consumavano da solo senza mischiarlo ad altri alimenti. Nutriva la volontà e dava forza per sopportare e controllare membra e nervi in misura superiore a quella posseduta normalmente da una natura mortale”[7]. Se non ci dicessero che questo brano si riferisce al lembas chiunque conoscesse un po’ del Catechismo di San Pio X penserebbe che esso parli dell’Augusto Sacramento dell’Altare. E certamente ad esso pensava Tolkien mentre descriveva questo prodigioso “pan di via” (viatico) che non dà gusto o piacere al palato eppure nutre più del cibo comune; conferisce le grazie per essere padrone delle proprie passioni e inclinazioni disordinate; empie di una virtù, cioè la grazia, senza la quale, dice, ci si lascerebbe morire; aumenta le sue proprietà se consumato a digiuno. E come non pensare al digiuno eucaristico che, all’epoca di Tolkien, veniva preso veramente sul serio tanto che si osservava dalla mezzanotte fino alla Messa del mattino dove si riceveva la Santa Comunione. Non era come propone il Catechismo riformato moderno che consente di fare la Comunione dopo soltanto un’ora di digiuno eucaristico: e che digiuno sarebbe? In un’ora la digestione, se va bene, è a metà del suo corso! Ma proseguiamo.
Che c’entra, direte voi, il lembas con una trattazione su Sam Gamgee? Bè, direi che è un elemento fondamentale che Tolkien ha voluto inserire e descrivere con dovizia di dettagli per sottolineare che non è per la sola buona volontà dei protagonisti, o per un loro eroismo innato dal sapore pelagiano-borghese che essi riescono a portare a termine la loro missione. Anzi, il lembas serve a rivelare ancor più la loro debolezza e la loro incapacità a portare un peso sovrumano che, proprio per questo, richiede un supporto sovrumano: la Grazia. Quell’habitus soprannaturale su cui Tolkien imperniò tutta la sua vita e che distingue così radicalmente la fede e la morale cattolica da qualsiasi altra forma contraffatta di cristianesimo, come l’anglicanesimo di C.S. Lewis per esempio.
Samwise, come Frodo, riesce a coronare l’opera a lui impostagli da Gandalf grazie al sostegno e al nutrimento quotidiano del pan di via e non perché fosse tanto (naturaliter) buono e capace. Lo abbiamo visto, e Tolkien tiene a precisarlo: Samwise è l’ignobile e il volgare che viene elevato e nobilitato, ma la sua dabbenaggine rimane tale. Tolkien per sua stessa ammissione amava le creature ignobili, quelle più semplici e poco attraenti. In questo senso gli hobbit esprimono questa sua predilezione nonché la sua personale identificazione con i deboli, con gli “antieroi”.
Ma ciò che colpisce e rende così amabile in particolare il personaggio di Samwise è la sua devozione, la sua incrollabile speranza, la sua indefettibile fedeltà al suo caro padron Frodo. Lo vediamo circondarlo di gesti di affetto e di consolazione: “Sam gli si avvicinò baciandogli la mano. «Allora quanto prima ce ne liberiamo, tanto prima riposeremo»”. E cercando in se stesso il coraggio e il modo per permettere al suo padrone di non fallire nella sua missione gli dichiara: “Coraggio, signor Frodo! Non posso portare io l’Anello, ma posso trasportare voi ed esso insieme. Alzatevi! Suvvia, signor Frodo, caro! Sam vi porterà in groppa. Ditegli dove deve andare, e lui vi andrà”. Il servitore dimentico di sé si rivela l’amico devoto che darebbe la sua vita, il suo corpo in sacrificio per amore del suo padrone. Considera se stesso quasi una bestia da soma, priva di volontà; ha dato tutto se stesso per il padrone lasciando campi, casa, famiglia e l’amore ancora non sbocciato di Rosie Cotton. E cosa ne ha ricevuto in cambio? fatiche, dolori, ansie e pericoli di morte.
Samwise è un vero Cireneo che porta e sopporta con Frodo le angustie e le sofferenze del Viaggio redentivo verso il Monte; che non solo deve sopportare i dolori e gli smarrimenti propri ma anche quelli del padrone facendoli suoi. L’umile servitore non è un grande guerriero come Boromir, né un abile e nobile elfo come Legolas e neppure di stirpe regale come Aragorn, ma tutto quello che è e possiede lo mette al servizio del padrone; non avendo altro da dare, consegna se stesso.
Eppure, il giardiniere di casa Baggins, avendo sacrificato tutto, ritroverà, in misura scossa e traboccante, tutto. Non tornerà a casa a mani vuote ma sarà proprio lui ad ereditare la casa sotto la collina insieme ai tesori di Bilbo, a significare che “chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi a causa del mio nome, ne riceverà cento volte tanto, ed erediterà la vita eterna” (Mt 19,29). Partito servo, tornerà padrone, umile ritorna ricco erede della famiglia Baggins. Verrà rivestito di gloria dall’invisibile giustizia della Provvidenza che dà ad ognuno il giusto salario, a suo tempo.
L’amico e il servo si fondono in un’unica persona o meglio, in una mezza persona: un mezz’uomo! Un hobbit che per la sua mitezza ha ereditato la terra e che, col suo permanere nella Terra di Mezzo, fa eco alle parole del suo amato padron Frodo il quale, mentre salpavano insieme per terre ignote lasciandosi alle spalle la loro amena ed amata Hobbiville, canticchiava come un viandante nella notte al solo lume di una debole torcia:
“La via prosegue senza fine
Lungi dall’uscio dal quale parte.
Ora la Via è fuggita avanti,
Devo inseguirla ad ogni costo
Rincorrendola con piedi alati
Sin all’incrocio con una più larga
Dove si uniscono piste e sentieri.
E poi dove andrò? Nessuno lo sa”.
[1] Il Signore degli Anelli, Rusconi, Milano 1999, p. 76.
[2] Ibidem.
[3] Dalla lettera del 30 gennaio 1945 a Cristopher Tolkien, in J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Cristopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag. 126.
[4] Dalla lettera del 31 maggio 1944 a Cristopher Tolkien, op. cit., pag. 97.[5] Lettera del 24 dicembre 1944, op. cit., pag. 122.
[6] Il Signore degli Anelli, cit., p. 879.
[7] Ivi, p. 1117.