sabato 19 marzo 2016

RISORGIMENTO: LE RADICI DELLA VERGOGNA

 
Il Risorgimento: uno stupro. Un atto violento, arbitrario, malcondotto, che ha generato i mostri che oggi attanagliano il nostro paese. Un atto vergognoso che ha generato vergogna.
Il grido di dolore di un’Italia fatta nascere con la forza. Di un’Italia costruita sull’oblio delle identità e delle tradizioni, contro la sua natura e la sua volontà. Il grido di dolore di una grande nazione “idea universale capace di riunire il mondo”, che si è fatta piccolo stato. Il grido di dolore di un’Italia che vuole risorgere.

L’Italia è una nazione? O è vera la celebre espressione irrisoria del Metternich che la riduceva piuttosto a mera “espressione geografica”?
Il senso del nostro paese è indubbiamente cambiato dopo che, poco più di 150 anni fa, lo si è voluto ad ogni costo far diventare uno stato unitario. È cambiato, ma non come forse ci si aspettava. L’espressione del Metternich a ben guardare è più adatta all’Italia di oggi che non a quella di ieri.
L’Italia dei piccoli stati e delle sue molte capitali primeggiava per cultura, arte, mecenatismo. Era formata da tanti centri vitali, indipendenti, custodi di tradizioni antiche e diversissime tra loro. E poteva essere definita una nazione, quantomeno in virtù di una dimensione culturale e religiosa che le veniva universalmente riconosciuta.
Gli italiani non hanno mai avvertito un orgoglio nazionale inteso in senso politico. Velleità espansionistiche, brama di potere non erano aspirazioni diffuse, perché «l’unica cosa che li interessava era quello che avrebbe potuto dar loro un certo valore agli occhi degli altri, quello che avrebbe conferito loro un significato universale» spiegava il filosofo Vladimir Solovev nella sua opera La giustificazione del bene. E Dostoevskij, riconoscendo all’Italia un ruolo di grande nazione culturale, denunciava come, dopo l’opera unificatrice di Cavour, un «piccolo regno di second’ordine» avesse preso il posto di una grande «idea universale capace di riunire il mondo».
L’Italia unita in effetti ha perso tutto il suo prestigio, senza che peraltro si sia creata una comune identità. L’unificazione politica ha poi generato una serie di divisioni e fratture prima sconosciute. Si è contrapposto il nord al sud, e così si è aperta la mai risolta questione meridionale; con l’attacco alla Chiesa si è diviso il popolo italiano, fino ad allora ancora fortemente e unitamente cattolico; e infine si è perso il rispetto per la cosa pubblica e l’aspirazione a una sua gestione etica. Durante gli anni della forzata unificazione, truffe, corruzioni, inganni, ruberie, estorsioni, delitti parvero anticipare il peggio della futura politica italiana, distaccando per sempre il popolo da un retto sentire della cosa pubblica, da un comune senso di appartenenza, dalla fiducia nello Stato e nelle Istituzioni.
Parlare di Risorgimento non significa dunque parlare semplicemente di un capitolo di storia. Il Risorgimento è attualità, perché le conseguenze di quegli avvenimenti, di quell’unità malcondotta e imposta, le viviamo ancora oggi, sono evidenti nella situazione politica e sociale del paese, pongono tuttora interrogativi e problemi identitari.
Per questo è necessaria una sorta di Psicanalisi dell’Italia, una riflessione attenta sugli eventi del passato, “dell’infanzia” del nuovo stato. Una riflessione che permetta di far emergere i traumi nascosti, dimenticati o fatti dimenticare, le violenze attuate e subite, lo “stupro” che ha portato alla nascita di una creatura malriuscita, per metabolizzarli e superarli, riconducendo la nazione a quella che è la sua naturale vocazione, ovvero alla pluralità e all’autogoverno delle sue tante identità.
Quello che fu detto Risorgimento in realtà non fu che l’espansione territoriale e militare di uno degli stati che componevano la penisola a danno degli altri, ottenuta tra l’altro con l’intromissione determinante di potenze straniere, che poi hanno presentato (e presentano tutt’ora) il conto.
Denis Mack Smith nella sua Storia d’Italia dal 1861 al 1958, definisce il Risorgimento italiano «un succedersi di guerre civili». Il processo di espansione del Regno sabaudo fu una guerra di conquista ratificata da inganni e truffe come quella dei plebisciti, mascherata da una veste filantropica che finì col denigrare secoli di storia italica, e accompagnata da una massiccia propaganda anticattolica che nel cattolicissimo popolo italiano non poté che provocare grave disagio. Il popolo assisteva, indifferente o contrario, agli eventi. Fu poi necessario un lungo lavoro culturale per tentare di «fare gli italiani» dopo avere fatto l’Italia con le armi. E così si è cominciato a infangare tutto il passato preunitario, iniziando dalla grande bugia del “grido di dolore”, per arrivare a una vera sistematica propaganda calunniosa degli antichi Stati, dei Sovrani e dell’Austria. «Bisogna perlomeno ottenere il risultato che l’Austria sia detestata da tutti. Un giorno o l’altro questo odio universale porterà i suoi frutti», scriveva Cavour in una lettera a D’Azeglio.
In realtà i popoli italici prima dell’unità non gridavano per il dolore, né gemevano sotto tirannidi. Gli stati preunitari erano relativamente prosperi, le loro monete circolavano ovunque, i dialetti erano le lingue commerciali del Mediterraneo, le antiche capitali erano fucine d’arte, musica e letteratura. Fu invece dopo l’unificazione che l’Italia conobbe il deficit economico, l’impennata delle imposte, l’emigrazione. Nel 1866 il ministro delle Finanze Antonio Scialoja fu costretto a proclamare il corso forzoso della moneta italiana, cioè la sua indegnità a essere convertita in oro. La qualità della vita del popolo negli anni successivi all’unità crollò miseramente, e la gente si ribellò: la vera partecipazione popolare, sotto forma di manifestazioni, proteste e insurrezioni, si ebbe dopo, come opposizione all’invasore.
I Savoia non hanno fatto l’Italia: hanno cancellato quello che di buono c’era, hanno soffocato le mille peculiarità, le autonomie, le ricchezze della penisola. In senso culturale sacrificando tradizioni, usi e costumi, omologando tutto in un mediocre livellamento verso il basso; in senso materiale imponendo la loro legislazione, le loro tasse, i loro debiti: cosa che ha provocato miseria, malcontento, brigantaggio, emigrazione…
La vergogna di essere italiani nasce con lo Stato Italia, dal modo in cui è stato creato, dai falsi eroi che ci sono stati imposti come modelli. L’unità forzata è stata condotta da uomini – poi celebrati come grandi eroi e padri della patria – che per raggiungere lo scopo non hanno esitato a lordare le loro biografie d’ogni sorta di malaffare.
Filippo Curletti, agente segreto di Cavour, già nel 1861, prevedeva questi esiti: «Io non avevo scorto da nessuna parte quell’entusiasmo per l’unità italiana che, imbevuto dalle illusioni piemontesi io mi era atteso di vedere manifestarsi ovunque. Dappertutto il Piemonte era guardato come uno straniero e come un conquistatore», ammetteva, per poi riflettere amareggiato che «l’unità di una nazione non si crea. Bisogna aspettare che nasca alla sua ora. Allora solamente sarà forte e durevole».
Evidentemente non era la sua ora. Molto è andato perso. Poco di buono è stato guadagnato. Non sono stati raggiunti nemmeno quegli obiettivi minimi che erano stati sbandierati come irrinunciabili. L’Indipendenza, ad esempio, è stata ottenuta solo nelle parole roboanti e nei proclami retorici della cricca risorgimentalista; in realtà si è demonizzato uno “straniero” per poi accoglierne servilmente altri, più arroganti e invadenti. E la libertà è solo una finzione, perché, come scrisse Alianello, «la libertà che s’impone con le baionette non è più dessa».
Le bugie e le false promesse hanno lasciato un vuoto. Vuoto che ha fatto appunto dell’Italia più che una nazione, una mera espressione geografica.
 
Elena Bianchini Braglia