Fonte: http://www.radiospada.org/
Da: “Fede, scienza e falsi miti della cosmologia contemporanea – “Cristianità”, anno XXI, n. 224, dicembre 1993”, grassettature nostre.
Dopo l’articolo di ieri Fede e ragione fra scienza e scientismo. Intervista ad uno scienziato benedettino proseguimano con questo secondo testo, ugualmente interessante.
Contemporaneamente rimadiamo – su un tema che affianca ineludibilmente questi argomenti – al libro DIO accessibile a tutti. Prova della sua esistenza che racchiude tutte le altre, da quella del moto locale fino a quella dei frutti della santità. IL PIÙ NON VIENE DAL MENO, di R. Garrigou-Lagrange [RS]
Un approccio teologico alla storia della scienza che rovescia luoghi comuni e “leggende”, come quella secondo cui il Medioevo cristiano fu un’epoca di oscurantismo e di superstizione. Nell’opera di un autorevole storico della scienza.
[PRIMA PARTE]
di Luciano Benassi
Gli studi sulla “nuova religiosità” hanno contribuito in modo rilevante a svelare il carattere profondamente ambiguo della modernità. In particolare, hanno mostrato come modernità scientifico-positivista e credenze mitiche non siano affatto, come comunemente si crede, due mondi fra loro irriducibili, ma piuttosto due facce della stessa medaglia, fra le quali si dipana una fitta rete di rapporti psicologici, storici e sociologici (1). È interessante osservare come questi studi, nati dall’esigenza di comprendere le tendenze religiose della nostra epoca, trovino un’ulteriore conferma in quelli più seriamente attenti a cogliere, per parte loro, le tendenze del pensiero scientifico contemporaneo. È quanto appare, felicemente, nell’opera di uno dei maggiori storici della scienza viventi, il monaco benedettino Stanley L. Jaki, e, in particolare, nello studio Dio e i cosmologi (2), in cui l’analisi delle scoperte più recenti nel campo della cosmologia è occasione per una riflessione sul rapporto fra il significato dell’impresa scientifica e la nozione di Dio nel contesto culturale in cui essa si svolge.
I. L’autore
Stanley L. Jaki nasce a Györ, nell’Ungheria nord-occidentale, il 17 agosto 1924. Terminate le scuole superiori, a diciotto anni entra nell’ordine benedettino e il 13 maggio 1944 fa la professione religiosa. Dopo aver completato gli studi universitari in filosofia, teologia e matematica, nel 1947 è a Roma per conseguire la tesi di laurea in teologia presso il Pontificio Istituto Sant’Anselmo; e qui, nel 1950, riceve il dottorato. Intanto il 29 giugno 1948 era stato ordinato sacerdote. Nel 1951 è negli Stati Uniti d’America – di cui prenderà la nazionalità – per insegnare teologia sistematica e contemporaneamente seguire corsi di storia americana, letteratura, matematica e scienze allo scopo di ottenere il riconoscimento degli studi universitari compiuti in Ungheria. Negli Stati Uniti d’America consegue prima la laurea in Scienze e poi, nel 1957, il dottorato in Fisica, con una tesi condotta sotto la direzione di Victor F. Hess, lo scopritore dei raggi cosmici, premio Nobel per la fisica nel 1936.
Da quel momento i suoi interessi si spostano decisamente verso la storia e la filosofia della scienza, che diventeranno il campo principale della sua multiforme attività intellettuale e della sua abbondante produzione scientifica. Gli anni dal 1958 al 1960 lo vedono ricercatore di storia e filosofia della fisica presso le università di Stanford e di Berkeley, mentre nel biennio successivo è Visiting Fellow all’università di Princeton per un programma di ricerca nella stessa disciplina. Nel 1965 diviene docente alla Seton Hall University, nel New Jersey, di cui è attualmente professore emerito. Negli anni 1975 e 1976 è chiamato come professore all’università di Edimburgo nell’ambito delle prestigiose Gifford Lectures, un ciclo di conferenze che dal 1887, per volontà di Lord Adam Gifford, si svolge nelle quattro università scozzesi con lo scopo di promuovere lo studio della teologia naturale. Nel 1977 svolge lo stesso incarico presso il Balliol College di Oxford, nell’ambito delle Fremantle Lectures.
Associato a numerosi sodalizi scientifici e culturali è, fra l’altro, membro onorario della Pontificia Accademia delle Scienze e, dal 1986, membro corrispondente dell’Académie Nationale des Sciences, Belles-Lettres et Arts di Bordeaux. Nel 1987 è stato insignito del premio Templeton.
Da oltre trent’anni l’opera dello storico della scienza dom Stanley L. Jaki O.S.B. si caratterizza per due elementi originali e decisivi: da un lato il senso profondo dell’unità della conoscenza e, dall’altro, un altrettanto profondo sentimento dell’oggettività del reale. Si tratta di due atteggiamenti che hanno portato lo studioso benedettino a pensare il cammino della scienza e quello verso Dio come un unico percorso intellettuale. In aperta polemica con la cultura dominante, che considera scienza e fede come due termini irriducibili e contrapposti, tutta la sua opera è volta ad affermare la connessione esistente fra conoscenza scientifica e conoscenza di Dio, una connessione a tal punto intima e stretta da giustificare la conclusione secondo cui la scienza è nata e si è sviluppata, dopo secoli di tentativi regolarmente abortiti – si pensi alle antiche civiltà cinese, indiana e greca -, solo all’interno di una cultura permeata dalla convinzione che la mente umana sia capace di cogliere, nelle cose e nelle persone, un segno del loro creatore. Si tratta di un approccio teologico alla storia della scienza che rovescia molti luoghi comuni e molte leggende, come quella che considera il Medioevo cristiano un’epoca di oscurantismo e di superstizione. Nell’opera di dom Stanley L. Jaki, infatti, i secoli della Cristianità medioevale sono quelli in cui l’inculturazione della fede in un Dio personale, trascendente, razionale e creatore di tutte le cose, ha posto le condizioni per lo sviluppo dell’indagine scientifica della natura.
Questo approccio teologico alla storia della scienza è usato da dom Stanley L. Jaki per esaminare lo stato della scienza anche in tempi più vicini a noi; e particolarmente alla fisica del nostro secolo egli rivolge le critiche più stringenti, denunciandone i presupposti idealistici e la sostanziale rinuncia a un genuino sforzo conoscitivo. In questo ambito la sua attività di polemista e di conferenziere costituisce una puntuale e documentata opera di risposta a quell’abbondante pubblicistica scientifico-divulgativa che, dai mass media, si riversa sul grande pubblico accreditando l’idea di una “scienza totale”, in grado di spiegare non solo il come dei fenomeni, ma anche il perché dell’esistenza di tutto, della materia e dello spirito.
Fra le opere più significative di dom Stanley L. Jaki, autore di oltre trenta volumi e di più di settanta articoli, si possono ricordare The Relevance of Physics, “La portata della fisica” (3), Brain, Mind and Computers, “Cervello, mente e calcolatori” (4), che gli è valso il premio Le Comte du Noüy nel 1970, Science and Creation: from Eternal Cycles to an Oscillating Universe, “Scienza e creazione: dai cicli eterni a un universo oscillante” (5), The Road of Science and the Ways to God, “La strada della scienza e le vie verso Dio” (6), che raccoglie il ciclo delle Gifford Lectures tenute dall’autore, Cosmos and Creator, “Cosmo e creatore” (7), Angels, Apes and Men, “Angeli, scimmie e uomini” (8), Uneasy Genius: the Life and Work of Pierre Duhem, “Un genio scomodo: la vita e l’opera di Pierre Duhem” (9), Chesterton: a Seer of Science, “Chesterton: un profeta della scienza” (10),Chance or Reality and Other Essays, “Caso o realtà e altri saggi” (11), e The Savior of Science, “Il Salvatore della scienza” (12).II. “Dio e i cosmologi”
Dio e i cosmologi è una delle poche opere di dom Stanley L. Jaki pubblicata in lingua italiana e raccoglie, in forma ampliata, il ciclo di otto conferenze da lui svolte al Corpus Christi College di Oxford sul finire degli anni Ottanta. Il volume costituisce un felice tentativo di restituire dignità al dibattito cosmologico, offrendo al lettore la possibilità di accostare in modo serio una tematica la cui oggettiva difficoltà, sia scientifica che filosofica, è resa più acuta dall’apparire di volgarizzazioni e di banalizzazioni, soprattutto della cosmologia scientifica. Infatti, come lo stesso autore sostiene nell’Introduzione (13), il grado di certezza oggi raggiunto da questa disciplina può essere di grande aiuto per impostare correttamente la riflessione sullo statuto metafisico dell’universo e con ciò contribuire alla riconquista della nozione di Dio creatore, che è alla base di ogni approccio religioso al reale.
- Veri e presunti nemici della scienza
Nel primo capitolo, L’universo riconquistato (14), dom Stanley L. Jaki descrive il travaglio culturale che portò, nel volgere dei trecento anni dalla fine del Cinquecento all’inizio del secolo XX, all’identificazione dell’universo come oggetto d’indagine scientifica. Che si sia trattato di un travaglio e non di una nascita improvvisa è prova il fatto che solo dal 1917, con la pubblicazione da parte di Albert Einstein di un saggio sulle conseguenze cosmologiche della sua teoria della relatività generale, si può parlare dell’universo come di un oggetto indagabile scientificamente. Al contrario, nei tre secoli che vanno dalle prime osservazioni celesti con il telescopio fino ai primi anni del Novecento, la nozione scientifica di universo ha più volte rischiato di abortire e certo non per colpa dell’oscurantismo clericale. Secondo lo studioso benedettino, a costituire una minaccia per la nascita scientifica dell’universo furono l’idea della sua infinità e, conseguentemente, della sua eternità, ciò che lo avrebbe sottratto a ogni possibile “misura” scientifica in quanto privo di limite e di durata, le due qualità indispensabili perché la scienza possa operare secondo il proprio statuto gnoseologico.
Il “partito” dell’infinità cosmica, poco numeroso nel corso del secolo XVIII, era tuttavia fortemente caratterizzato: “Ben pochi intorno al 1700, o anche più tardi, proposero un universo infinito, e solo uno scienziato o cosmologo tra di loro: Edmund Halley, noto per il suo ateismo e per la sua involuta difesa di un universo infinito e omogeneo. Coloro che appoggiarono l’idea di un universo infinito, filosofi per la maggior parte, quasi invariabilmente vi videro una comoda scusa per fare a meno di un Dio veramente trascendente” (15). E si tratta di Giordano Bruno e Jacob Boehme con il loro panteismo cosmico, di Baruch Spinoza, degli illuministi tedeschi, di Immanuel Kant e degli idealisti. In particolare fu il filosofo di Koenigsberg a intuire meglio di altri “[…] il ruolo fondamentale svolto dall’ammissione dell’universo nella valutazione della fede nel Creatore” (16) e a suggerire “[…] la genesi di un universo infinito come unico universo che sarebbe potuto scaturire dalle mani di un Creatore con poteri infiniti” (17). Naturalmente questa ansia di infinito, che in Immanuel Kant si spinse fino a ipotizzare un numero infinito di universi, non era dettata da zelo religioso, ma dal postulato idealistico della inconoscibilità del reale. Secondo dom Stanley L. Jaki, in questo consiste propriamente la minaccia portata dall’infinità cosmica: la sostituzione del mondo reale con gli enti prodotti dalla ragione, una ragione libera da ogni sottomissione a un Creatore che, al contrario, può essere conosciuto solo se vi è un universo reale. Naturalmente ciò non impedì che l’universo tornasse “[…] ad essere un concetto valido” (18), ma il disagio idealistico nei confronti di un cosmo reale fece sì che gli uomini di scienza e di filosofia dei primi decenni del secolo XX non apprezzassero adeguatamente il ritrovamento. Del resto ancora oggi – secondo dom Stanley L. Jaki – scienziati e filosofi, ma il discorso riguarda anche “[…] preti, ecclesiastici e cristiani in generale, devono […] rendersi conto che il maggior sviluppo nella cosmologia scientifica sta nella testimonianza che l’universo è stato riconquistato“ (19).
- La contingenza dell’universo
Nel secondo capitolo, Nebulosità dissipata (20), l’autore affronta la questione della specificità dell’universo, così come essa è venuta rivelandosi grazie all’apporto della cosmologia scientifica. Il fatto che l’universo fisico sia caratterizzato da grandezze in qualche modo misurabili, quali la massa totale e il raggio massimo, pone immediatamente la domanda sul perché questi valori e non altri, equivalente alla domanda sul perché questo universo e non un altro. La specificità del nostro universo rimanda, in altri termini, alla sua contingenza perché, essendo sempre possibile immaginarne uno diverso da quello che conosciamo, non vi sono ragioni apparenti perché esista, appunto, questo e non un altro.
Ma la cosmologia scientifica, secondo lo studioso benedettino, non ha solo rivelato il carattere specifico dell’attuale scenario cosmico: le ricerche compiute nel secolo XX hanno esteso tale specificità fino ai suoi primissimi istanti di vita, delineando un quadro coerente dal profondo significato metafisico. Infatti, “le numerose prove interdipendenti raccolte fino ad ora smentiscono ampiamente gli schemi pseudofilosofici che fanno apparire l’origine del cosmo come si trattasse di una semplice cosa” (21), tale da costituire “[…] una scusa valida per ignorare altri interrogativi su di essa” (22). Immaginare che l’universo, nelle sue prime fasi, fosse semplice è certamente legittimo; l’errore consiste, piuttosto, secondo dom Stanley L. Jaki, nel suggerire, attraverso tale semplicità, la “visione indolente” secondo cui “[…] ciò che “sembra” totalmente semplice può esistere senza essere anzitutto creato” (23). Quello della semplicità è anche uno dei grandi obiettivi della fisica moderna, protesa a generalizzazioni sempre più ampie e a unificazioni sempre più stringenti. A questo proposito lo studioso benedettino avverte che “[…] il mondo fisico può alla fine essere ridotto, per quanto riguarda il computo delle sue proprietà da parte dei fisici, ad una singola forma con un paio di costanti. Ma persino a quella semplicità non mancherebbero forti specificità che produrrebbero quindi, salvo che in menti deliberatamente inerti, il problema del perché queste specificità siano di questa e non di qualche altra grandezza” (24). In definitiva, per quanto semplice possa essere descritto, “un universo, dimostrato dalla scienza come reale e specificamente tale, indicherà senza fallo un’origine al di là delle sue fasi specifiche, un fattore metafisicamente oltre l’universo“ (25). D’altra parte, conclude l’autore, “[…] lo scopo primario della specificità delle cose non è quello di rendere possibili meri giochi quantitativi, ma di aiutare a riconoscere la vera realtà delle cose e la Realtà che le rende reali“ (26).
- Il mito dell’eternità dell’universo
Il misconoscimento dei dati oggettivi forniti dalla cosmologia scientifica e il rifiuto di considerarli in una corretta prospettiva metafisica non producono soltanto gli errori relativi all’infinità dell’universo e alla “nebulosità” delle sue origini: nel terzo capitolo, Lo spettro del tempo (27), l’autore descrive anche l’errore eternalista, ovvero la tesi secondo cui l’universo può essere infinito come durata. La transitorietà del cosmo si affacciò sulla scena scientifica verso la fine degli anni 1920, quando, dalle equazioni di campo gravitazionale, si cominciarono a ricavare soluzioni non statiche, ovvero dipendenti dal tempo, e le osservazioni astronomiche rivelarono “[…] che l’universo era di fatto soggetto ad uno specifico moto globale, e ad un’espansione, che è sempre un segno di transitorietà” (28): basti pensare alla crescita del corpo umano, specialmente nel caso in cui tale crescita sia esagerata. “Da allora – osserva dom Stanley L. Jaki – l’universo è stato ossessionato dallo spettro dello scorrere del tempo verificabile scientificamente, e gli sforzi che ebbero la pubblicità più ampia nella cosmologia scientifica moderna furono quelli che miravano a dissolvere quello spettro“ (29). Questo fatto fu particolarmente evidente nei paesi a regime comunista, e specialmente in Unione Sovietica, dove “i cosmologi scientifici […] non potevano far altro che adottare la linea del partito. Secondo quell’ideologia l’eternità della materia era un dogma “scientifico” [fin] dalla pubblicazione della prima autorevole interpretazione comunista della scienza, l’Anti-Düring di Engels” (30), e come tale condizionò la ricerca cosmologica – e i ricercatori – fino alla fine degli anni 1970. In Occidente, al contrario, la sollecitudine con cui molti cosmologi appoggiarono la causa dell’eternità della materia non poteva essere il riflesso di una paura di ritorsioni politiche. Secondo dom Stanley L. Jaki, questa disponibilità “[…] riflette la logica secondo la quale un occidente che progressivamente si allontana dal cristianesimo opta naturalmente per il materialismo“ (31), la cui adozione implica altrettanto “[…] naturalmente il desiderio di avere notizie “scientifiche” che annuncino che l’universo […] non avrà mai un giorno del giudizio” (32). La teoria dello stato stazionario, proposta nel 1947 da Thomas Gold e da Hermann Bondi e successivamente propagandata dalla radio britannica nel corso di quattro celebri trasmissioni, tendenziosamente orientate in suo favore, rispondeva a questo desiderio. Il cuore della teoria è la creazione continua di materia: atomi di idrogeno comparirebbero continuamente dal nulla in quantità tale da bilanciare la diminuzione di densità dovuta all’espansione dell’universo. In questo modo il paesaggio cosmico, pur allargando il proprio orizzonte a causa dell’espansione, rimane identico a sé stesso e, quindi, immune al trascorrere del tempo. La teoria ebbe una notevole diffusione negli anni 1950, soprattutto grazie a una massiccia propaganda attraverso opere divulgative, per poi tramontare all’inizio degli anni 1960, di fronte all’incalzare dell’evidenza sperimentale – nessuno osservò mai un protone apparire dal nulla -, ma non, come ci si sarebbe atteso, sotto il peso della sua povertà metafisica. Tanto è vero che l’eternalismo, lungi dall’essere abbandonato, continua ancor oggi a rappresentare la speranza soggiacente di molte ricerche e il tema dominante delle teorie cosmologiche che comportano un universo chiuso.
La chiusura dell’universo implica che alla fase espansiva, originata da un’immane esplosione – il Big Bang, che molto verosimilmente ha dato origine all’universo -, debba seguire una fase di contrazione o collasso gravitazionale – il Big Crunch -, che si concluderebbe con la sua annichilazione. Alcune teorie si spingono a ipotizzare che tali cicli di espansione-contrazione si susseguano indefinitamente e che noi stiamo vivendo nella fase espansiva di una di queste infinite oscillazioni. Secondo dom Stanley L. Jaki è facile scorgere nella teoria dell’universo oscillante una forma di eternalismo, dove l’eternità è assicurata dal numero infinito di cicli anziché riguardare la durata di un unico ciclo: una sorta di riedizione, in chiave scientifica, del mito dell’eterno ritorno. Ma proprio dal punto di vista strettamente scientifico egli rileva che non vi sono mai stati elementi sperimentali tali da suggerire l’idea del collasso gravitazionale o tali da far propendere per essa.- Il mito della teoria definitiva
Nel quarto capitolo, L’ombra di Gödel (33), l’autore approfondisce il tema della contingenza dell’universo, riapparso di prepotenza nel dibattito cosmologico attraverso le cosiddette “teorie del tutto” o “teorie definitive“ (34): queste, nella loro versione estrema, tentano di ridurre a un’unica formula l’intera fenomenologia fisica, essendo fondate sul duplice postulato che l’universo non può non esistere e non può non essere quello che è. In altri termini, secondo tali teorie, l’universo avrebbe in sé le ragioni della propria esistenza e questa autoconsistenza dovrebbe emergere dallo stesso apparato fisico-matematico con cui viene descritto il mondo fisico. Ma – sostiene dom Stanley L. Jaki – anche “[…] quando un fisico considera scontata l’esistenza di un universo molto reale, il quale esiste anche quando egli non ci pensa, lascia aperte questioni sulla sua contingenza, ossia sulla sua dipendenza ontologica da una Realtà che è al di là o dietro ad essa“ (35).
La ricerca di una teoria definitiva è il tema conduttore di un’opera, Dal Big Bang ai buchi neri (36), divenuta ben presto un successo mondiale sia per la fama del suo autore, il fisico-matematico inglese Stephen W. Hawking, titolare della cattedra lucasiana di matematica a Cambridge, sia per l’imponente battage pubblicitario che ne ha accompagnato l’uscita, accreditandola come l’ultima parola in materia di questioni fondamentali come lo spazio, il tempo, la creazione e Dio. La critica che lo studioso benedettino muove a quest’opera, esemplare di una pubblicistica scientifico-divulgativa molto diffusa, è costruita intorno alla confusione che il suo autore compie fra il piano della fisica e quello della filosofia nel corso dell’indagine cosmologica: si tratta di una confusione che rovescia l’ordine della conoscenza e lo stesso statuto ontologico degli enti e dei sistemi oggetto dell’indagine. Ignorando che “[…] l’universo esiste anche quando i cosmologi non scrivono equazioni esoteriche su di esso” (37), avviene che le equazioni, anziché presupporre l’esistenza dell’universo, finiscono per diventarne garanti. Di qui, afferma dom Stanley L. Jaki, le domande, invariabilmente lasciate senza risposta, di cui è disseminato il libro di Stephen Hawking: perché l’universo esiste? La teoria definitiva può non esistere? Oppure ha bisogno di un Creatore? E chi ha creato il Creatore? Domande che testimoniano come anche la mente più brillante possa smarrirsi se rifiuta di compiere quel passo fondamentale verso la metafisica cui dovrebbe spingerla la ricerca della comprensione completa dell’universo. Tale ricerca costituisce infatti una “[…] domanda metafisica sull’esistenza di un Creatore che, scegliendo un mondo specifico, decide perché il mondo diventi quello che è, quale sia il motivo per cui esiste” (38).
Una teoria, come quella “definitiva“, che avanzi la pretesa di essere completa, cioè di spiegare tutto, e, quindi, anche sé stessa, non può, secondo dom Stanley L. Jaki, non confrontarsi con i teoremi di Gödel, evocati nel titolo del capitolo. Kurt Gödel, studioso austriaco di logica naturalizzato statunitense, pubblicò nel 1931 un articolo sulla completezza dei sistemi non banali di proposizioni aritmetiche: secondo quello studio, divenuto celebre, nessun sistema di tale natura può contenere la prova della sua coerenza. Solo successivamente, però, si cominciò ad apprezzare l’enorme portata della “prova di Gödel” e a capire che il suo campo di applicazione andava ben oltre l’aritmetica, potendosi estendere a ogni insieme non banale di proposizioni, quindi anche alle “teorie del Tutto“, relative alla comprensione dell’universo. Ma tale estensione condanna irrevocabilmente ogni teoria definitiva: infatti, come può una teoria che si definisce necessariamente vera non contenere in sé la prova della propria coerenza, come appunto vietato dai teoremi di Gödel? Si tratta, afferma lo studioso benedettino, di una “contraddizione in termini” (39) da cui deriva “[…] la principale conseguenza dei teoremi di Gödel sulla cosmologia, ossia che la contingenza del cosmo non può essere contraddetta“ (40). Tuttavia egli mette in guardia anche da una eccessiva confidenza nel loro utilizzo, che porterebbe ad attribuire a essi quel carattere ontologico, che essi giustamente sottraggono ai sistemi di proposizioni. Infatti, la coerenza di un sistema di proposizioni nulla aggiunge o toglie all’esistenza dell’oggetto cui si riferisce, in quanto, “[…] a meno che non si consideri la propria certezza della realtà immediatamente percepita come il primo fondamento affidabile, non c’è una base per ritenere con sicurezza una qualsiasi realtà, tanto meno la realtà dell’universo” (41).
***Una teoria, come quella “definitiva“, che avanzi la pretesa di essere completa, cioè di spiegare tutto, e, quindi, anche sé stessa, non può, secondo dom Stanley L. Jaki, non confrontarsi con i teoremi di Gödel, evocati nel titolo del capitolo. Kurt Gödel, studioso austriaco di logica naturalizzato statunitense, pubblicò nel 1931 un articolo sulla completezza dei sistemi non banali di proposizioni aritmetiche: secondo quello studio, divenuto celebre, nessun sistema di tale natura può contenere la prova della sua coerenza. Solo successivamente, però, si cominciò ad apprezzare l’enorme portata della “prova di Gödel” e a capire che il suo campo di applicazione andava ben oltre l’aritmetica, potendosi estendere a ogni insieme non banale di proposizioni, quindi anche alle “teorie del Tutto“, relative alla comprensione dell’universo. Ma tale estensione condanna irrevocabilmente ogni teoria definitiva: infatti, come può una teoria che si definisce necessariamente vera non contenere in sé la prova della propria coerenza, come appunto vietato dai teoremi di Gödel? Si tratta, afferma lo studioso benedettino, di una “contraddizione in termini” (39) da cui deriva “[…] la principale conseguenza dei teoremi di Gödel sulla cosmologia, ossia che la contingenza del cosmo non può essere contraddetta“ (40). Tuttavia egli mette in guardia anche da una eccessiva confidenza nel loro utilizzo, che porterebbe ad attribuire a essi quel carattere ontologico, che essi giustamente sottraggono ai sistemi di proposizioni. Infatti, la coerenza di un sistema di proposizioni nulla aggiunge o toglie all’esistenza dell’oggetto cui si riferisce, in quanto, “[…] a meno che non si consideri la propria certezza della realtà immediatamente percepita come il primo fondamento affidabile, non c’è una base per ritenere con sicurezza una qualsiasi realtà, tanto meno la realtà dell’universo” (41).
(1) Per un primo accostamento al tema, cfr. Massimo Introvigne, La questione della nuova religiosità. In appendice la relazione generale al Concistoro Straordinario del 1991 di S. Em. il card. Francis Arinze, Cristianità, Piacenza 1993, con bibliografia.
(2) Cfr. dom Stanley L. Jaki O.S.B., God and the Cosmologists, Scottish Academic Press, Edimburgo 1989; trad. it. Dio e i cosmologi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991.
(3) Cfr. Idem, The Relevance of Physics, University of Chicago Press, Chicago 1966.
(4) Cfr. Idem, Brain, Mind and Computers, Herder and Herder, New York 1969
(5) Cfr. Idem, Science and Creation: from Eternal Cycles to an Oscillating Universe, Scottish Academic Press, Edimburgo 1974.
(6) Cfr. Idem, The Road of Science and the Ways to God, University of Chicago Press, Chicago 1978; trad. it. La strada della scienza e le vie verso Dio, Jaca Book, Milano 1988.
(7) Cfr. Idem, Cosmos and Creator, Scottish Academic Press, Edimburgo 1979.
(8) Cfr. Idem, Angels, Apes and Men, Sherwood Sugden, La Salle 1982.
(9) Cfr. Idem, Uneasy Genius: the Life and Work of Pierre Duhem, Martinus Nijhoff, Dordrecht 1984.
(10) Cfr. Idem, Chesterton: a Seer of Science, University of Illinois Press, Urbana 1986.
(11) Cfr. Idem, Chance or Reality and Other Essays, University Press of America and Intercollegiate Studies Institute, Lanham 1986.
(12) Cfr. Idem, The Savior of Science, Regnery Gateway, Washington D.C. 1988; trad. it. Il Salvatore della scienza, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992.
(13) Cfr. dom S. L. Jaki O.S.B., Dio e i cosmologi, cit., pp. 7-8.
(14) Cfr. ibid., pp. 9-32.
(15) Ibid., p. 15.
(16) Ibid., p. 16.
(17) Ibid., p. 19.
(18) Ibid., p. 22.
(19) Ibid., p. 32.
(20) Cfr. ibid., pp. 33-59.
(21) Ibid., pp. 42-43.
(22) Ibid., p. 43.
(23) Ibid., p. 44.
(24) Ibidem.
(25) Ibid., p. 55.
(26) Ibidem.
(27) Cfr. ibid., pp. 61-85.
(28) Ibid., p. 64.
(29) Ibidem.
(30) Ibidem.
(31) Ibid., p. 65.
(32) Ibid., pp. 65-66.
(33) Cfr. ibid., pp. 87-111.
(34) Cfr. John D. Barrow, Theories of Everithing. The Quest for Ultimate Explanation, Oxford University Press, Oxford 1991; trad. it., Teorie del tutto. La ricerca della spiegazione ultima, Adelphi, Milano 1992.
(35) Dom S. L. Jaki O.S.B., Dio e i cosmologi, cit., p. 88.
(36) Cfr. Stephen W. Hawking, A Brief History of Time, from the Big Bang to Black Holes, Bantam Books, Toronto 1988; trad. it. Dal Big Bang ai buchi neri, Rizzoli, Milano 1988.
(37) Dom S. L. Jaki O.S.B., Dio e i cosmologi, cit., p. 97.
(38) Ibidem.
(39) Ibid., p. 108.
(40) Ibidem.
(41) Ibid., p. 110.