Küstenländisch-Krainerisch |
Altra argomentazione usata dai sostenitori della scarsa combattività dei soldati imperiali del Litorale, è l'interpretazione del motto popolare “soldà scampà xe bon per altra volta”.
L'interpretazione letterale è ovvia; quella storica, deve tenere conto dell'abitudine austro-ungarica di risparmiare le truppe sottoposte a bombardamenti o in posizioni poco difendibili, tecnica pressoché sconosciuta nel Regio Esercito, dove qualsiasi tipo di ripiegamento era inconcepibile.
La tecnica della ritirata tattica, possibilmente seguita da una veloce controffensiva locale, era diffusa in Galizia (come testimoniato nelle cronache del Cap. Nebesar) ma anche sull'Isonzo, dove l'imperativo era certo di resistere a qualsiasi costo, ma non sicuramente di condannare a morte certa i soldati, i quali si ritiravano e si riparavano alla meno peggio durante i bombardamenti, per poi tornare ad occupare le postazioni precedenti in concomitanza dell'assalto all'arma bianca che seguiva il bombardamento iniziale.
Questo schema di attacchi e contrattacchi ebbe alcune eccezioni; accadde ad esempio che entrambi schieramenti simulassero solamente gli assalti, per attirare le truppe nemiche nelle trincee e riprendere il bombardamento colpendole di sorpresa.
Dopo le immani perdite nelle battaglie campali del 1914, l'esercito austro-ungarico aveva imparato a risparmiare gli uomini.
Localmente, per rispondere agli assalti nemici, era pratica comune ritirarsi dalla trincea dirimpetto quella nemica, per effettuare dei contrattacchi di sorpresa anche notturni, che riuscivano quasi sempre perché gli avversari erano esausti e non avevano avuto il tempo di consolidare le proprie posizioni.
Tra l'altro, le trincee erano sempre rivolte al nemico e ed erano “aperte” nella direzione opposta.
Queste tattiche non erano possibili nel Regio Esercito, dove i bassi gradi di comando non avevano alcuna autonomia decisionale e ufficiali dovevano produrre un elevato numero di morti, per giustificare la propria "combattività" nei confronti del Comando Supremo (fonti varie, letteratura sulle battaglie dell'Isonzo).
Quindi, interpretando il motto “Soldà scampà...” in questo modo, si ottiene un altro indizio totalmente opposto a quello della codardia, ed anche lo spirito della parola “demoghèla”, potrebbe riferirsi all'abitudine della ritirata tattica, tecnica che i soldati non potevano non apprezzare.
A proposito del ricordo, va segnalato che il Comune di Trieste non si è mai distinto, come quello di Monfalcone o altri delle vecchie provincie.
E' storia recente la distruzione delle lapidi nel cimitero di S. Anna, mentre è stato concesso di apporre solamente una piccola lapide a San Giusto, ma non nel “Parco della Rimembranza”, e solo in lingua italiana, riferita genericamente "ai nostri caduti".
Stranamente, è proprio a Trieste che la memoria dei cittadini in uniforme asburgica sembra essere più scomoda che altrove.
Senza dimenticare l'assunto storico per il quale centinaia di migliaia di persone provenienti da tutto l'Impero, morirono sull'Isonzo per difendere gli obbiettivi dell'aggressione di Cadorna, nell'ordine: Trieste, Lubiana, Vienna.
Anche se le ambizioni iniziali si ridimensionarono e l'unico obbiettivo di tutta la guerra sull'Isonzo, rimase la città di Trieste.
La retorica patriottica non permette nemmeno un “grazie”, che storicamente sarebbe dovuto, perché non esiste alcun dubbio su chi fosse l'aggressore e sul fatto che la stragrande maggioranza dei triestini (un paio di centinaia a fronte di circa 230.000 cittadini) non desiderasse essere “liberata”.