martedì 8 gennaio 2013

La controrivoluzione del 1848 nel Regno delle Due Sicilie e la liberazione di Roma dalla tirannica Repubblica (1848-1849).




Introduzione agli avvenimenti del 1848 nel Regno delle Due Sicilie
 

Gli eventi del 1848 a Napoli sono ai più noti. La costituzione fu concessa il 10 febbraio e già nel marzo di quell’anno una crisi politica rovesciava il ministero Bozzelli ed portava alla nomina del poco affidabile Carlo Troja, di simpatie radicalmente liberali. Il nuovo ministro, come si poteva immaginare,  accolse le richieste di parte liberale, estese la legge elettorale, sottopose la camera dei senatori ad elezione, concesse alla camera dei deputati di rivedere la stessa Costituzione trasformando tutto ciò a uso e consumo della fazione liberale. In più, Troja inviava in guerra contro l’Austria due divisioni napoletane al comando del murattiano e incapace, oltre che inaffidabile in quanto responsabile dei moti carbonari del 1820,  Guglielmo Pepe.


Bandiera Costituzionale del Regno delle Due Sicilie (1848).
 
 
Guglielmo Pepe (Squillace, 13 febbraio 1783Torino, 8 agosto 1855)




Le elezioni del 18 aprile definirono una camera dei deputati nella quale le degenerate opinioni progressiste erano in maggioranza. La convocazione della Camera, prevista per il 15 maggio, fu preceduta, a due giorni di distanza, dal rifiuto dei neodeputati, di scuola settaria , di prestare giuramento nella formula: “Giuro di professare e di far professare la religione cattolica apostolica e romana. Giuro fedeltà al re delle Due Sicilie. Giuro d’osservare la Costituzione concessa dal Re il 10 febbraio”. Il 14 maggio, essi si radunarono nei pressi del palazzo municipale affiancandosi a gruppi armati di rivoluzionari provenienti dalle Calabrie. Con la Sicilia che si dichiarava con atto illegittimo e con l'appoggio Inglese autonoma, il Re provava a tenere sotto controllo la situazione e faceva sapere “che avendo egli stesso prestato, il 24 febbraio, il giuramento di cui aveva data la formula, non vedeva nessuna obiezione che potessero fare i deputati per adottarla”. Nel frattempo coloro i quali erano rimasti in piazza, alzarono le barricate ed imposero la convocazione di un presidio di diversi battaglioni della guardia reale. Tutta la notte la situazione restò critica e di grande panico, via Toledo fu interamente cinta di barricate dagli sgherri rivoluzionari-costituzionalisti, alle cinque della mattina il Re fece sapere che acconsentiva a che qualunque giuramento fosse aggiornato a condizione però che fossero dimesse quelle barricate, ma i deputati (liberal-settari) non disposero tale scioglimento ed anzi si dimisero ricusando ancora il giuramento. I battaglioni svizzeri iniziarono dunque a distruggere le barricate pur senza fare fuoco. Fuoco, invece, fu fatto da una delle barricate dei rivoluzionari-costituzionalisti ed allora i soldati risposero dando luogo ad una severa e giustificata repressione. I deputati, intanto, riuniti a Monte Oliveto decidevano di concentrare tutti i poteri nelle mani di un comitato rivoluzionario di salute pubblica che avrebbe dovuto invitare la Francia ad un intervento politico per far cessare le ostilità. Una simile situazione si verificò nel 1799 ma con modalità totalmente differenti. Così avvenne, ma a bordo del vascello Friedland, i rappresentanti del sovversivo comitato non ricevettero risposte positive dagli uomini della marina francese.



Barricata di settari carbonari e liberali a Napoli contro le truppe regie, in difesa del Trono e dell'Altare, il 15 maggio 1848. Dopo aver ottenuto la Cosituzione la setta tentò di detronizzare il legittimo Sovrano, Ferdinando II di Borbone-Due Sicilie. Disegno di Edoardo Matania, 1889.



I deputati a Monte Oliveto decisero allora di sciogliere l’adunanza dal momento che non videro arrivare l'aiuto sperato; il giorno dopo, il nuovo gabinetto, fu nominato dal Re il quale controfirmò per il richiamo dell’armata inviate in Lombardia e per la sospensione della sovversiva  libertà di stampa. Nel frattempo Ricciardi, esponente del rivoluzionario comitato di salute pubblica, si era recato a Messina e da lì organizzò lo sbarco sul litorale napoletano al fine di affrettare la sollevazione dei gruppi rivoluzionari delle Calabrie; radunò un corpo insurrezionale di circa 8000 uomini di diversa provenienza, mentre nella notte del 14 giugno 500 rivoluzionari  siciliani, capitanati dal Ribotti, sbarcarono a Paolo con sette pezzi di cannone. Le truppe inviate dal Re ebbero però presto la meglio e l’ultima città in mano ai rivoltosi, Cosenza, fu ripresa il 3 luglio. Così, Ferdinando II, che per primo in Italia aveva concesso la Costituzione, fu costretto ad essere pure il primo sovrano d’Europa a spezzare i sogni della borghesia settaria rivoluzionaria-costituzionalista e si diede a tal intervento con  un vivo consenso popolare consolidato dall’atteggiamento dei parlamentari liberali che puntarono soprattutto ad osteggiare derive democratiche che avrebbero messo in discussione il loro diritto di proprietà1. La storiografia non ha sufficientemente tenuto conto del carattere borghese-settario della rivoluzione del 1848, ha sempre confuso le aspirazioni del ceto borghese professionale a rafforzare il proprio carattere di ceto possidente con la spartizione delle terre di antico e moderno demanio, con le occupazioni delle terre demaniali messe in atto dai contadini per difendere le stesse terre da processi di privatizzazione segnati da violente usurpazioni borghesi.


Ferdinando II di Borbone delle Due Sicilie
 

Alla luce di quanto esporrò di seguito, ci sembra che si orni di nuova vis il giudizio che Antonio Scotti diede di questi anni rivoluzionari: “Gli storici e i ‘critici’ hanno parlato pro e contro, è stato giudicato severamente il Re Ferdinando, non pochi lo hanno scusato. Croce ravvisò nella repressione del 15 maggio l’inizio della ‘crisi’ della dinastia borbonica. Federico Persico in data 16 novembre 1916 così scriveva a Giustino Fortunato: ‘Io sono senza esitare del vostro parere: che il 15 maggio, quella sanguinosa giornata, non fu né voluta e molto meno preordinata da re Ferdinando II’. E Vittorio Imbriani (il quale non può essere tacciato di… amore sovrano) così giudicava gli avvenimenti: ‘Niun governo costituito può tollerare insurrezioni armate. Ogni governo, anzi, ha il dovere di reprimerle’. E Settembrini, altro ‘personaggio’ non certo in odore di… fedeltà al Trono, ma spirito eminentemente liberale, dopo aver stabilito che ‘il 15 maggio lo fecero i pazzi, non seppero impedirlo i savi e un furbo (il Re) ne approfittò’”2. Il costituzionalismo non è che il tentativo di destrutturare la macchina statale monarchica al fine di irrobustire la presenza di una componente sociale, politica ed economica borghese che, con un parlamento ed uno statuto capaci di delimitare i poteri del sovrano, sarebbe divenuta la vera proprietaria dello stato. Il popolo delle campagne, che non figurava nei disegni dei riformatori rivoluzionari-costituzionali e non li condivideva , né come elettore, né come candidato parlamentare, non poté che vedere in quelle mire quello che in realtà era e cioè  la volontà di accaparrarsi le terre che esso coltivava col sistema degli usi civici, un processo che avrebbe comportato e che comportò storicamente, folli espulsioni di contadini da campi destinati ad essere improduttivi e la nascita di un proletariato extraurbano destinato a vendere la propria forza lavoro ad un avido latifondista. Mi sia permesso dire che la generale opinione secondo cui la borghesia napoletana fosse debole ed inconcludente, secondo altri addirittura inesistente dopo la repressione del 1799, è adatta ad alimentare gravi incomprensioni storiche. A Mio  avviso, e non solo Mio , la borghesia napoletana fu forte, diabolicamente tenace, violenta e riottosa a qualsiasi legge sovrana. Questa borghesia sfidava il carcere e preferiva l’esilio ad una permanenza in uno Stato in cui non poteva speculare. Essa fu sempre presente con tempestività ogni volta che l'occasione   la chiamò in causa: nel 1799 fu protagonista della triste e decadente Repubblica Partenopea, nel “decennio francese” entrò nella macchina statale murattiana per essere confermata ai suoi posti dalla politica dell’amalgama della seconda restaurazione ferdinandea,(a MIo avviso  un grave errore), fu presente armi in pugno nel 1820-1821, nel 1848 e nel 1860 per un totale di cinque Rivoluzioni in sessant’anni. Come questa può sembrare debolezza? E fu esattamente perché la rivoluzione, in quanto oggettivamente sbagliata e malvagia, fu sempre innescata dalla borghesia settaria che la reazione fu sempre popolare. Nel libro di Angelo d'Ambra " Viva il Re, Abbasso la Nazione" si legge: ogni qualvolta la patria era in pericolo per l’invasione straniera o per l’esplosione di forze rivoluzionarie intestine, il popolo, e solo il popolo, si schierò sempre dalla parte del Re e dell’indipendenza del Paese e così fu anche nel 1848.



I due esponenti di spicco della "malaborghesia" delle Due Sicilie. A partire da sinistra Luigi Settembrini e Carlo Poerio.




Rivoluzione e Contro-Rivoluzione nel Regno delle Due Sicilie


Gli Archivi  di Stato di Caserta e di altre città nelle vicinanze di Napoli  conservano una gran quantità di fascicoli relativi agli scontri del maggio del 1848 ed alle iniziative politiche di parte rivoluzionaria-costituzionale e repubblicana che si susseguirono sino al 1850. Difficile è districarsi in un groviglio di nomi e date che prende inizio il 2 novembre del 1848 quando giunsero, proprio a Caserta, voci di tumulti e sedizione dalla vicina provincia di Principato Ultra. In quei giorni, la Guardia Nazionale, invitata alla massima attenzione e a perlustrazioni scrupolose, condensò i suoi sforzi sui movimenti di un prelato irpino corrotto, agitatore rivoluzionario, che girovagava per la provincia di Terra di Lavoro. Da Santa Maria a Vico, infatti, si segnalò “la pellegrinazione del noto prete Barilla nelli Circondari di Ariola, Arienzo e forse anche altrove ad oggetto di scandagliare e disporre la pubblica opinione su di un moto Repubblicano, che egli dice vicino a manifestarsi. Le autorità aggiungevano: “sembra però che la sua voce non abbia provocato eco né in Arienzo, né in San Felice dove il pubblico pare animato da ottimo spirito ed altrettanto dimostra la Guardia Nazionale… Ciò nonostante non debbo tacerle che nel suddetto Comune la famiglia di un tal Giuseppe Bizzano, uomo perduto nella pubblica opinione e circondato dalla miseria.. aspetta un mutamento politico…”.  Da Ariola si tranquillizzava l’Intendente ricorrendo ad un’attenta sorveglianza e si apprendeva che Paolise “è stato ed ora sta nella perfetta tranquillità”. Perse le tracce del parroco rivoluzionario don Felice Barilla, da Avellino il 18 novembre di quell’anno si segnalavano anche altri nomi come quello di Don Francesco Bove, “noto per le sue tendenze a principi sovversivi e che dopo il 15 maggio si è recato a Paolisi, sua Patria, cerca di far stabilire un comitato rivoluzionario su basi repubblicane”, stringendo solide corrispondenze con i rivoluzionari di Napoli e con Don Giuseppe Ferrario di Montesarchio3. Le ricerche su questi rivoluzionari si persero nel vuoto così come quelle attorno alla “Setta de’ Solitari” che coinvolsero le autorità di Santa Maria di Capua, Nola e Caserta4. Si può convenire sull’idea che si  trattasse in larga parte di possidenti terrieri come quelli della Società Economica di Terra di Lavoro, il cui socio onorario Giuseppe Maria Bosco, liberale unitario, ufficiale della Guardia Nazionale e giudice supplente, manteneva relazioni con Luigi Settembrini, Pasquale Stanislao Mancini, Antonio Scialoja, Luigi De Biase ed altri noti liberali5. Nei tumulti del 15 maggio essi ebbero un ruolo importante, Giacomo Gallozzi, ad esempio, fu protagonista del danneggiamento della strada ferrata  in Santa Maria Capua Vetere per “impedire l’accorrere delle Regie truppe nella capitale”6. Numerosi furono i sovversivi politici o sospetti tali individuati e destinati ad una stretta sorveglianza, al domicilio forzoso o al carcere. Per i fatti del 15 maggio del 1848 a Cicciano furono condannati al domicilio forzoso Francesco Crispo e suo Zio, canonico del Paese7. Pochi giorni dopo la rivolta fu arrestato a Santa Maria Capua Vetere Policarpio Pace, nativo di Campobasso, proprietario e propagatore di voci allarmanti. Fa riflettere il fatto che fu respinta la richiesta di obbligare l’accusato all’obbligo di stabilirsi e dimorare in Campobasso perché tale misura sarebbe consistita in una “restrizione della libertà individuale”, preferendosi la sola sorveglianza8. Misure ed opinioni del genere stridono fortemente con l’immagine di uno stato di polizia diffusasi della Napoli del 1848 sicché enorme fu il numero dei rivoltosi, eppure non  risultano misure repressive particolarmente aspre9. Dato interessante è che numerosi negli indici degli inquisiti risultano essere non a caso i militi delle Guardie Nazionali; già il 2 ottobre del 1848 l’Intendente di Terra di Lavoro aveva richiamato tal corpo ad ottemperare al meglio ai propri doveri, ma senza sortire effetto: “Signori, la nobile quanto bella istituzione della guardia nazionale à per iscopo il mantenimento delle concessioni largite dal nostro Clementissimo Sovrano e conseguentemente trà principali suoi obblighi v’a quello della conservazione dell’ordine pubblico. Questo si ottiene con lo esatto adempimento de’ doveri imposti alla detta forza cittadina; con la garantige della esecuzione delle leggi, e dei giudicati delle stesse emergenti con la tutela de’ cittadini e delle loro proprietà vigilando alla sicurezza interna, a quelle strade, dei pubblici comuni e delle campagne; con offrir braccio forte per la esazione dei balzelli dello Stato e dei Municipi; ed infine con ogni altro servizio che tende alla conservazione della pubblica tranquillità… io sento la necessità di dichiarare che se ò avuto motivo di lodarmi del modo come la guardia nazionale di questa provincia in taluni comuni à corrisposto alla sua istituzione, in altri però non si è esattamente adempiuto, o se per lo passato vi si è prestata, ora è caduta in tal quale non decoroso languore”.  L’Intendente pensò che forse questo atteggiamento lascivo era dovuto alle voci insistenti che volevano la forza cittadina entro breve periodo sciolta, ma ciò, obbiettava, “è dipeso pel fatto proprio della detta forza perché essa in taluni paesi aveva disertato dei principi e delle regole istruttrici dell’arma, ed aveva con ciò distrutto più che conservato l’ordine”10. Ho  provato a concentrare lo sguardo sulle numerose manifestazioni popolari contro la costituzione ed il partito liberale e rivoluzionario e ne Ho ricavato un quadro composito e attivo, sebbene scarsamente documentato, che va ben oltre semplici ostentazioni di affetto per la Corona. Il mio interesse è tanto maggiore in virtù dell’indifferenza e dell’abulico silenzio osservati dalla storiografia su una materia che pare essere di particolare importanza per comprendere gli umori popolari e l’effettiva solidità del disegno riformatore costituzionale. Per iniziare dirò che tracce sottaciute eppure ben evidenti dell’esistenza di un fitto sottobosco di manifestazioni controrivoluzionarie nel 1848 sono già riscontrabili in numerosi studi sul periodo in esame, ma traspare la concreta volontà di tacerne l’effettivo carattere e di minimizzarne la portata politica. “Oggi che sono lì 22 maggio 1850, noi Vincenzo Favale Sindaco e D. Giuseppe Masci fu Bernardino, D. Filippo Cacucci fu D. Martino, D. Domenico Losito, Giuseppe Natale Antonicelli, Don Francesco Surico, Giuseppe Don Vito, Pasquale Fiorentino, Giuseppe Sciscio fu GIanfilippo, Don Fedele Battagliese, Giovanni Cantore, Francesco Scicio, D. Pantaleo Aricchio, Giuseppe Tommaso Iacobellis, Don Giovanni Eramo, Don Saverio Mele, Giovanni Losito, D. Giovanni Bellisario, Lucantonio Marezia, D. Pasquale Chimenti, D. Giuseppe Parisi, Giuseppe Stati, Decurioni, trovandoci riuniti per deliberare affari di questa Amministrazione Comunale, cogliamo la opportunità di porre ad effetto tutto quanto in alcuni altri paesi della provincia, da questi Collegi medesimi si praticato, manifestando devozione ed attaccamento verso il nostro Augusto Sovrano. Dessi, onde fare ciò, si sono cooperati per la elezione di una deputazione al fine unmiliare al Real Trono il voto generale per l’abolizione della costituzione. Noi per lo contrario, che informati siamo nel corso di tanti secoli della Clemenza e Saggezza della Dinastia Borbonica, dell’armonia e del regolare andamento delle cose sotto il governo, con triste esperienza ne abbiamo marcata la diversità dei tempi dal cambiamento di regime, cosichè inconvenienti massimi da un lato, disordini funesti dall’altro, è stato il corso di due anni. Noi quindi, ad imitazione, deliberiamo unanimemente che una Deputazione di individui probi sia spedita in Napoli al nostro Augusto Monarca, per accogliere le comuni preci, onde riprenda le redini dell’antico regime, che l’esperienza di tanti anni ci ha reso contenti. La circostanza per altro dei tempi non permettendoci far cadere la nomina in persone di Gioia, stante il ricolto prossimo, ci uniformiamo a quanto fu stabilito dal Decurionato del nostro Capo Distretto, affidare cioè siffatto mandato ai signori Don Michele Melodia, Don Gaetano dei Conti Viti, Don Vincenzo Sabini fu Celio e Don Giuseppe Castelli fu Vincenzo, che restano all’uopo eletti quali Deputati ancora del Comune di Gioia, al primo dei quali sarà spedita siffatta Deliberazione per l’uso opportuno. Con Deliberazione decurionale del 3 dicembre 1849 il Guarda Basilio Nicola Losavio fu espulso dal servizio come ‘persona attendibile’”11. Il documento, riportato in un articolo che confonde le mire della borghesia sul demanio comunale con quelle antiborghesi dei ceti popolari, testimonia l’esistenza di un ampio movimento contro la Costituzione in tutta la Puglia su cui purtroppo l’autore non avanza indagini.
Eguale confusione si ravvisa allorquando nella medesima rivista si danno notizie di tumulti avvenuti a Bovino, Troia, Monte S. Angelo, Viesti, Orsara, Deliceto, Savignano in Capitanata, Barletta, Andria, Gravina, Altamura, Gioia del Colle, Noci, Acquaviva, Cassano in provincia di Bari, Martina, Ginosa, Francavilla, Manduria, Palagiano, Calimera in Terra d’Otranto. Anche in questi luoghi le sommosse popolari in difesa del pubblico demanio sono presentate come rivolte costituzionaliste. Vi si legge che “a furia di ‘pifferi e tamburi’, di ‘grancassa e trombe sonanti’, immense turbe di contadini agli ordini degl’improvvisati ‘Capitani del popolo’ invadono il pubblico demanio e le proprietà private, diroccando pareti e caseggiati campestri; rimuovono antichi termini lapidei, danno fuoco alle siepi e dissodano le terre”12, e non  sembra la descrizione di una protesta per la concessione della Costituzione, piuttosto quella di ripristinare le terre di pubblico demanio. Vale la pena notare come l’autore dell’articolo si intrattiene nel descrivere una monarchia tirannica ed oppressiva per poi lagnarsi che a frenare tali tumulti in un capoluogo come Bari, che all’epoca contava 497.190 abitanti, lo stato che si descrive come poliziesco ed dispotico non avesse che appena 90 guardie di pubblica sicurezza e 136 uomini di truppa regolare, i quali tra l’altro facevano i conti con depositi privi di fucili e baionette in sufficiente numero. Quando la storiografia lascia il passo all’ideologia ed al giudizio apologetico è sempre un danno, in questo caso il giudizio è formulato pedestremente sui libelli del partito rivoluzionario. Dallo stesso articolo del resto apprendiamo che un solo reparto di cavalleria ed artiglieria, quello guidato da Marcantonio Colonna di Stigliano, attraversò la Puglia per riportare l’ordine senza incontrare resistenza alcuna, ad ulteriore riprova della debolezza del movimento rivoluzionario a fronte della solidità di quello dell’ordine Regio e legittimo. E’ infatti riportato che tale reparto il 13 settembre del 1848 fu accolto a Palagiano, Francavilla e Manduria “con festose accoglienze delle popolazioni che imprecavano alla Costituzione sovvertitrice” e la stessa cosa si verificò nel capoluogo di Terra d’Otranto. Significative notizie in merito a manifestazioni controrivoluzionarie sono riportate da G. De Sivo nella magistrale opera “Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861”, a cominciare dai fischi che il popolo della capitale tributò al carro funebre di Mammone Caprio con i protagonisti delle rivolte del 1799 e del 1820, per passare alla difesa della Chiesa del Carmine dalle manifestazioni dei rivoluzionari-costituzionalisti, all’assalto al Caffè d’Europa, rinomato ritrovo di liberali, proprio al centro di Napoli, agli insulti ai passanti che portavano il tricolore nel quartiere di Santa Lucia. Anche in Abruzzo, ci informa il De Sivo, i contadini posero i nastri rossi sui cappelli ed iniziarono una sanguinosa reazione difficile da domare per le stesse legittime autorità. Lo stesso De Sivo ci informa che agenti della rivoluzione in Terra di Lavoro furono “un bolognese Pacchione (inviato) attorno sessa. Certi Tavassi e Torcelli girarono pel Nolano; certi Piscicelli, Sagliani e Fabozzi nell’Aversano; il primo stendesi fino Castelvolturno a chiamare quei mojanari, altri a Casal di Principe, a Caivano, ad Acerra a Maddaloni. A S. Maria di Capua un carmelo Caruso ed altri ebbero il carico di rompere la strada ferrata, per imimpedire il pronto transito dei soldati. Nicola Nisco e Tommaso Manco nella valle Caudina univan masnadieri..”13.


Giacinto De Sivo


I numeri, restarono però sempre pochi, e pochi soldati a Monteforte bastarono a contenere coloro i quali avevano sfidato lo sguardo minaccioso delle popolazioni.  Il materiale consultato presso l’Archivio di Stato di Caserta e qui presentato è anch’esso esplicito, sebbene frammentario e descrive una situazione in cui il fronte della rivoluzione non ha forse raggiunto gli eccessi pugliesi. Il 28 ottobre del 1848, voci allarmanti sulla disfatta di Palermo si accompagnarono a Marigliano a quelle su una possibile invasione del territorio comunale da parte di una truppa armata repubblicana proveniente da San Vitaliano. Con Marigliano pronta a levarsi in armi per respingere l’invasione, le solerti indagini del Sottointendente condussero all’allontanamento di 43 militi dal corpo della Guardia Nazionale ed al sequestro di numerosi fucili tenuti in esubero presso gli uffici del corpo14. Il mese addietro, l’8 settembre, Caserta si esprimeva con non meglio precisate manifestazioni di giubilo per la riconquista di Messina a seguito dell’arrivo di un telegramma contenete buone nuove: “Il tenente generale Filangieri in Messina, il dì 7 andante al Ministro di Guerra e Marina, Messina conquistata è rientrata nell’obbedienza de suo legittimo sovrano15.  Rinveniamo poi interessanti notizie risalenti all’anno seguente. Da Nola il 7 maggio 1849 si scriveva all’Intendente che “in questo è venuto di persona il giudice di Marigliano a riferirmi che ieri fu posta una bandiera bianca sul campanile; e che chiamato da lui il brigadiere della Guardia di P.S. per farla togliere gli fu risposto poter ciò essere pericoloso essendo in molti che avrebbero ciò impedito con la forza. Nelle carte si fa cenno ad un caso simile verificatosi ad Aversa e culminato in disordini. Su quella bandiera di Marigliano erano dipinte le parole “Viva Iddio ed il Re Nostro Sovrano”. Anche sulla casa di un tal Raffaele Esposito di Lausdomini si vide sventolare il 9 maggio del 1849 la bandiera bianca con le parole “Viva il Re Ferdinando II” e all’esposizioni i passanti levavano la loro voce di “Viva il Re”. Il giorno seguente a Moschiano nel sito detto “Sorbo di Lellio”, sotto insistenze popolari, venne abbattuto e venduto per 12 carlini, un tiglio che segnava dal 1830 l’epoca della Rivoluzione francese che era al centro delle attenzioni di numerosi male intenzionati ed esaltati che vi convenivano in cerchio e si radunavano “non senza commettervi nefandezze di mal costume durante la notte”16.  Dimostrazioni di giubilo popolare si tennero nuovamente a Caserta il 18 aprile del 1849 alla resa di Palermo quando i soldati del deposto del I lancieri girarono per le strade lodando il Re; essi percorsero lo spianata del Palazzo vecchio “con delle lenzuola attaccate a delle mazze e mandando in aria le coppole gridavano Viva il Re, per essersi sparsa la notizia della resa di Palermo”, proseguendo poi per altre strade cittadine richiamando la partecipazione del popolo con “banderuole bianche attaccate a delle mazze”. Significativo è il fatto che l’iniziativa fu severamente punita dalle gerarchie militari costrette a scusarsi perché “S.M. (D.G.) vuole che in qualsiasi circostanza non deve permettersi mai la truppa di pubblicamente schiamazzare, onde evitare qualunque inconveniente”. Anche a Solopaca in quel giorno si gridò “Viva il re, abbasso i Costituzionali”. A Piedimonte d’Alife poi, il 29 aprile, manifestarono individui “su di un calesse una frasca di pioppo verde alla cui estremità sventolava un fazzoletto bianco e gridando Viva il Re”.  Persino nel Seminario di quella città il 12 giugno del 1849 si verificarono rivolte contro il Vicerettore che aveva provato a capeggiare un subbuglio al fine di scalzare il Rettore. L’episodio ricorda quanto nel mese di marzo si era già verificato a Nola dove fibrillanti dimostrazioni contro il nuovo Rettore, a ragione accusato di essere repubblicano, portarono all’espulsione di 29 alunni. A Mola di Gaeta, il 13 maggio Pasquale Lago, bracciale, posta sulla estremità di una canna un fazzoletto bianco, girò per le strade gridando “Viva il Re”; due giorni dopo a Baia e Latina “per due giorni consecutivi…. taluni dell’ultima massa del popolo verso sera condotti da una recluta che dicesi disertata dalle Reali bandiere, armati di cure ed avvinazzati, schiamazzavano alternando alle grida Viva il re alcune espressioni allarmanti”.  Nuovamente a Solopaca il 5 giugno si registrò un episodio di controrivoluzione quando Musiello di Pasquale si diede a gridare “Abbasso i costituzionali”. Le autorità manifestavano una evidente preoccupazione in questi casi, puntavano a reprimere, controllare o isolare ogni forma di pubblica manifestazione politica, sebbene filo monarchica, perché essa poteva riaccendere la miccia dei tumulti e della conflittualità di piazza con conseguente spargimento di sangue. Così in tutta calma a Napoli come a Caserta si poté celebrare il 5 ottobre del 1849 il giorno onomastico di SAR il Re di Calabria con una gran folla di persone festanti17.


Pio IX  e l'Esercito delle Due Sicilie contro le orde di Garibaldi

 
Questo groviglio di piccoli episodi controrivoluzionari non desti scalpore e neppure desti scalpore la preoccupazione con cui le autorità ne accoglievano le notizie. Il 1848 nel Regno delle Due Sicilie, e particolarmente in Terra di Lavoro, fu soprattutto l’anno in cui Papa Pio IX elevò la città di Gaeta a capofila diplomatico e militare della reazione, l’anno in cui le attenzioni generali non poterono che rivolgersi a Roma ed alla minaccia di una invasione repubblicana, l’anno in cui, non lo si dimentichi, l’esercito napoletano era impegnato su tre fronti: quello interno, con la Sicilia da riconquistare e le province da tenere sotto controllo, quello lombardo-austriaco e quello romano. In mano ai rivoluzionari, Roma aveva già visto l’assassinio di Pellegrino Rossi e sua Santità aveva, così, deciso di lasciare l’Urbe e di raggiungere, nella notte del 24 novembre, la vicina città di Gaeta per poi salpare verso le coste francesi.



Fortezza di Gaeta



Pio IX
 
 
Pellegrino Rossi




L’accoglienza dei Borbone, inaspettatamente, fu così amorevole che il Pontefice decise di restare nel Regno delle Due Sicilie e di depennare il suo soggiorno in Francia. Alla corte dei Borbone, Pio IX assunse una linea politica rigorosa, tutta tesa ad isolare la sovversiva e settaria Repubblica, rifiutò di ricevere le delegazioni del consiglio dei Deputati, dell’Alto Consiglio e del Municipio di Roma e in piena ragione giudicò il decreto per la costituente un “atto di mascherato tradimento e di vera ribellione, meritevole dei castighi comminati dalle leggi e divine e umane”; condannò la settaria Costituente romana e vietò ai cittadini romani di prendere alcuna parte nelle riunioni repubblicane(cosa che non v'era pericolo che succedesse), poi, con la nota del 18 febbraio 1848 firmata dal Cardinal Antonelli, invitò i governi di Francia, Austria, Spagna e delle Due Sicilie ad “accorrere colle loro armi a ristabilire nei domini della Santa Sede l’ordine manomesso da un’orda di settarii ". Il 20 dicembre 1848 la linea del Pontefice era così espressa: “Protesta. Per divina disposizione in un modo quasi mirabile assunto Noi, sebbene immeritevoli, al pontificato, una delle prime nostre cure fu quella di promuovere l’unione fra i sudditi dello stato temporale della Chiesa, di rassodare la pace fra le famiglie, di beneficarle in ogni maniera possibile e di rendere lo Stato florido e tranquillo per quanto da Noi si potesse. Ma i beneficii che procurammo impartire ai nostri sudditi, e le più larghe istituzioni, colle quali fu da Noi condisceso alle loro brame, pur troppo, lo diciamo francamente, anziché procurarci quella gratitudine e riconoscenza che avevamo tutto il diritto di aspettarci, hanno prodotto invece replicate amarezze e dispiaceri al nostro cuore per parte degl’ingrati qualunque sia il loro numero, che il nostro occhio paterno vorrebbe vedere sempre ristretto. Ormai tutto il mondo conosce in qual guisa siamo stati contraccambiati, quale abuso siasi fatto delle nostre concessioni fomentandone l’indole e travisando il senso delle nostre parole per ingannare la moltitudine, e come di quelli stessi benefici ed istituzioni siansi taluni fatto un’arma di più violenti eccessi contro la nostra sovrana autorità e contro i diritti temporali della santa sede. Rifugge il nostro animo dal dover qui rammentare gli ultimi avvenimenti incominciando dal giorno 18 del passato novembre, in cui un ministro di nostra fiducia fu barbaramente ucciso in pieno meriggio dalla mano dell’assassino, e più barbaramente ancora venne quella mano applaudita da una classe di forsennati nemici d’Iddio e degli uomini, della Chiesa non meno che di ogni onesta politica istituzione. Questo primo delitto aprì la serie degli altri che con sacrilega sfrontatezza si commisero nel giorno seguente: e poiché questi hanno già incontrata l’esecrazione di quanti sono gli uomini onesti nel nostro Stato, nell’Italia, nell’Europa, e la incontreranno nelle altre parti del mondo; così Noi risparmiamo al nostro cuore l’enorme dolore di qui ripeterli. Fummo costretti di sottrarci dal luogo ove furono commessi, da quel luogo ove la violenza c’impediva di arrecarvi rimedio, ridotti solo a lacrimare coi buoni e a deplorare con loro i tristi casi, ai quali il più tristo ancora si aggiungeva di vedere isterilito ogni atto di giustizia contro gli autori degli abominevoli delitti. La Provvidenza ci condusse in quella città di Gaeta, ove trovandoci nella nostra piena libertà furono da Noi contro i suddetti violenti attentati solennemente ripetute le proteste, che in Roma stessa fin da principio avevamo già fatto innanzi ai rappresentanti presso di Noi accreditati delle corti di Europa e di altre lontane nazioni. Nello stesso atto no tralasciammo di dare temporaneamente ai nostri Stati una legittima rappresentanza governativa, senza derogare alle istituzioni da Noi fatte affinché nella capitale e nello stato rimanesse provveduto al regolare ordinario andamento dei pubblici affari, alla tutela delle persone e delle proprietà dei nostri sudditi. Fu da Noi altresì prorogata la sessione dell’alto Consiglio e del Consiglio dei deputati, i quali erano stati recentemente chiamati a riprendere le interrotte sedute. Ma queste nostre determinazioni, lungi dal far rientrare nella via del dovere i perturbatori e autori delle predette sacrileghe violenze, gli hanno anzi spinti ad attentati maggiori, arrogandosi quei sovrani diritti che a Noi solo appartengono con avere essi nella capitale instituita per mezzo di due Consigli una illegittima rappresentanza governativa sotto il titolo di Provvisoria e suprema Giunta di stato e pubblicato ciò con atto del 12 di questo mese. Le obbligazioni in indeclinabili della nostra sovranità ed i giuramenti solenni con cui abbiamo al cospetto del Signore promesso di conservare il patrimonio della santa Sede e trasmetterlo integro ai nostri successori, ci costringono a levare alto la voce ed protestare avanti a Dio ed in faccia di tutto il mondo contro questo cotanto grave e sacrilego attentato. Dichiariamo pertanto nulli, di nessun vigore e di nessuna legalità gli atti emanati in seguito delle inferiteci violenze, ripetendo altresì che quella Giunta di Stato instituita in Roma non è altro che una usurpazione dei nostri sovrani poteri, e che la medesima non ha, né può avere in verun modo alcuna autorità. Sappiano quindi tutt’i nostri sudditi di qualunque grado e condizione, che in Roma ed in tutto lo stato pontificio non vi è, né può esservi alcun potere legittimo che non derivi espressamente da Noi, e che avendo Noi col predetto sovrano motu-proprio del 27 novembre instituita una tempora ria commissione governativa, a questa sola esclusivamente appartiene il reggimento della cosa pubblica durante la nostra assenza, finchè non venga diversamente da noi disposto”18. E’ questo lo spirito che animò sempre la Conferenza di Gaeta, aperta ufficialmente il 30 marzo 1849, il giorno dopo l’insediamento del settario Triumvirato a Roma19. Vi partecipò ogni Trono cattolico europeo con l’obbiettivo di riconquistare Roma al soglio di Pietro: i Francesi e gli Austriaci con prudenza, i Piemontesi con riluttanza, i Portoghesi senza indugio come i Napoletani che provarono ad estendere l’invito ai rappresentanti di Russia, Prussia e Inghilterra. Si seguirono quattordici incontri, tutti svolti a Gaeta, tranne l’ultimo, quello del 22 settembre del 1849, che si tenne a Portici.  Ognuna delle potenze convenute, giocò la sua partita con estrema arguzia per espandere il proprio peso politico sullo scacchiere europeo, la Francia, in particolare, temporeggiò, fingeva incapacità militari che non le erano proprie per ottenere da Pio IX  un qualche proclama che annunciasse le sue convinte intenzioni di non rinunciare ad una politica liberale in linea con lo spirito della seconda Repubblica parigina, ma tale proclama, ovviamente,  non arrivò mai.  Nel mentre nel territorio pontificio non mancarono esplosioni anti-repubblicane per lo più di carattere popolare soprattutto in concomitanza dell’avvicinarsi degli eserciti che combattevano per Pio IX(20), va ricordato che è proprio in questi mesi che il popolo del Sud conobbe per la prima volta Garibaldi. Il futuro comandante delle camicie rosse dirigeva proprio le milizie della Repubblica romana.



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Garibaldi con Bixio e l'attendente Andrea Aguyar, durante l'occupazione di Roma. Illustrazione di George Housman Thomas, da Illustrated London News del 21 luglio 1849




 L’incontro non dovette essere assai piacevole, da Rocca d’Arce infatti giunsero notizie orribili di violenze e soprusi garibaldini: “Signor Intendente, si ha da sicura fonte che il famigerato Garibaldi ha indietreggiato da Frosinone  ed ora trovasi in Anagni con circa mille e duecento armati fra fanti e cavalli e due pezzi di montagna. Le di lui gloriosa gesta consistono finora in crude sevizie ed estorsioni d’ingenti somme, incarcerando i Capi del Regio Clero, i Superiori degli ordini monastici e tutti i facoltosi nemici dell’ordine. Egli a quanto pare vuole rappresentare la parte del piccolo Attila, ma il flagello del Signore gli sarà sul capo in men che non ci pensò. Se Roma si cominciate le barricate poiché si accerta lo sbarco di circa diecimila francesi in Civitavecchia che vengono a ripristinare nei suoi santissimi diritti il Sommo Pontefice, insieme alle armi degli altri sovrani riuniti insieme in questa vera e gloriosissima crociata”.  Sono numerose le circolari sui movimenti della “banda Garibaldi che saccheggia e sevizia”, i cittadini di Sora e Pontecorvo restarono a lungo in allerta temendo l’aggressione delle frange repubblicane ed a preoccupare le autorità si aggiungevano anche le notizie provenienti da Roma inerenti la fuga in massa di ragazzi, donne e prelati21.  In effetti, il 1° giugno 1849, proveniente da Frosinone, la legione Garibaldi entrò nel territorio del Regno delle Due Sicilie occupando proprio Arce e Rocca d’Arce con 4 mila uomini. La legione, “estorti viveri e denaro, ripiegò su Roma lasciando a Frosinone la legione Masi, la quale all’avvicinarsi de’ Napolitani guidati dal generale Alessandro Nunziante, fuggì col Commissario Sterbini, lasciando occupar pacificamente Frosinone il giorno 7 giugno”22. I fatti d’arme concernenti la riconquista di Roma si svolsero con ritmi tortuosi ed incalzanti. Il 29 aprile i napoletani passarono la frontiera Pontificia a Portella e occuparono Terracina. In quel giorno la squadra spagnola veleggiò da Gaeta a Terracina in contemporanea ai movimenti del corpo napoletano. Gaeta era la base principale di quelle operazioni, Porto d’Anzio la seconda. Sarebbero presto arrivati rinforzi dalla Spagna, ma in quei giorni  si procedette per l’antica Appia su Torretreponti, Velletri ed Albano, occupando, il 5 maggio, Castel Gandolfo e Marino. Nello stesso tempo, la brigata di Winspeare occupava Ceprano e Frosinone onde raggiungere il resto degli uomini a Velletri. Il corpo napoletano ovunque impose lo scioglimento delle sovversive Guardie Nazionali, la riorganizzazione di una guardia provvisoria, il disarmo delle popolazioni e il ripristino del governo papalino. Tale brigata raggiunse Velletri il 4 maggio da cui partì verso Albano dove era diretto lo stesso corpo principale. Ad Ariccia, piccola città vicino ad Albano, fu disposo un ospedale militare, un magazzino di viveri con 30.000 razioni, un deposito abbigliamento ed un parco delle artiglierie. Il 9 maggio, proprio il Re Ferdinando II, da Albano, annunziava al generale francese Oudinot che Garibaldi era uscito da Roma con 3.000 uomini e puntava ad attaccare il corpo napoletano assieme alla divisione guidata dal Galletti, alfine di convenire una strategia comune. Oudinot rispose che avrebbe stabilito un ponte a San Paolo per essere padrone delle due rive del Tevere e dare manforte ai napoletani senza aggiungere nulla in merito a Garibaldi. Il Re allora fece marciare il Generale Lanza da Albano su Velletri con 3000 uomini e 4 pezzi di montagna con l’obbiettivo di respingere Garibaldi; il giorno dopo ordinava al generale Winspeare di lasciare Castelgandolfo e Marino e di puntare su Frascati. Lanza, giunto a Velletri il 7, seppe che a Valmontone Garibaldi minacciava di bruciare il paese e darvi sacco perché esso aveva rialzato lo stemma pontificio. Così Lanza decise di marciare su Valmontone, anziché su Palestrina come precedentemente pensato. L’occupazione fu facile perché gli uomini di Garibaldi scapparono. Winspeare il giorno 8, occupata Frascati, si mosse su Montecomprato occupata dai repubblicani, ma presso Monteporzio dovette ingaggiare un conflitto a fuoco con i repubblicani nascosti nella boscaglia ritardando la marcia su Montecomprato e Palestrina e rientrando a Frascati. Durante la notte gli avamposti del generale Lanza a Valomonte furono disturbati dai drappelli repubblicani, ma non si volle attendere l’attacco nemico, si pensò di incrociarlo, dunque ci si mise in marcia per Palestrina. La colonna Lanza veniva divisa in due perché due erano le strade per Palestrina ed entrambe occupate dai repubblicani. All’avanzare delle truppe napoletane, i repubblicani indietreggiavano, scambiando di tratto in tratto qualche fucilata, finché presso Palestrina tutti si concentrarono dietro le barricate. Nel mentre, l’altra divisioni, quella affidata al generale Nolli che aveva intrapreso la seconda strada per Palestrina  ritardava la marcia soffermandosi negli scontri con i repubblicani. Lanza allora prese posizione a Colonna con l’intento di riprendere l’attacco nel dì seguente. Al mattino Garibaldi aveva già abbandonato Palestrina, fu dunque ordinato a Lanza di rientrare, a Winspeare di rioccupare Castelgandolfo e Marino e a Nolli di prendere Velletri per preparare gli alloggiamenti alla colonna del colonnello Cutrofiano che giungeva da Terracina. I Francesi di Oudinot erano invece stati fermati a Porta San Pancrazio ed avevano perso 250 uomini ora prigionieri. Mentre Ferdinando II attendeva comunicazioni da Oudinot sul da farsi, i giornali repubblicani annunciavano una vittoria riportata sui Napoletani il giorno 9, smentendo la notizia solo il giorno seguente. Il 14 il Re mosse da Albano con tutte le sue truppe diretto a Frascati. Marciava all’avanguardia la brigata Winspeare. A Frascati, alcuni reparti furono inviati in avanscoperta lungo la strada che porta a Tivoli sulla sinistra del Teverone e per mascherare la marcia di questi uomini, il Re fece mostra di tutto il resto delle truppe sul terreno innanzi Frascati. Questa dimostrazione permise a Winspeare di arrivare inosservato a Zagarolo. Il giorno seguente si marciò su Palestrina, però prima si volle inviare un nuovo emissario ad Oudinot, il quale però stavolta, non convenne più sull’originario intento di agire insieme ed in maniera coordinata per prendere Roma; il suo governo gli imponeva di non dare spazio né ai napoletani, né agli austriaci e gli imponeva di operare isolatamente. Il Re scriveva ad Oudinot che dalla corrispondenza del nemico intercettata risultava che i repubblicani, persuasi dell’inoperosità francese, avevano intenzione di attaccare le poche truppe napoletane.


Nicolas-Charles-Victor Oudinot (1791-1863), Duca di Reggio.


 Il Re si ritiro da Albano e trasferì il suo quartier generale in Ariccia annunciando: “L’accordo indispensabile nelle operazioni militari fra le regie truppe e le forze francesi, che si trovano aver già occupato parte del territorio romano, è venuto meno in conseguenza dell’attitudine spiegata dal governo della repubblica francese nella quistione romana, nella quale la Francia si riserba di agire sola, ed il suo diplomatico autorizzato a trattare con le truppe romane, le dà tutto l’agio di agire contro quello stesso corpo napolitano, che in seguito delle conferenze di Gaeta e gli accordi stabiliti a Palo e Fiumicino doveva concorrere a far causa comune coi Francesi! Per siffatte considerazioni,e per la mancanza di azione delle altre potenze nelle vicinanze di Roma, S. M. ha creduto della Sua dignità il far ritorno alla frontiera de’ suoi stati, e quivi attendere gli avvenimenti”. Il giorno 18 il Re e le truppe si spostarono a Velletri ingaggiando al mattino del 19 un conflitto con l’avanguardia repubblicana capeggiata da Garibaldi, conflitto nel quale costrinsero ancora una volta i repubblicani alla fuga, poi la ritirata continuò fino a Terracina per rientrare nel Regno presso Fondi, Itri, Gaeta e Mola. Adesso i repubblicani, capeggiati dal Rosselli potevano occupare Velletri. Dalla ritirata il Re giunse a Gaeta il 22 maggio. Il combattimento del 19 maggio, durato dalle 10 del mattino alle 8 del pomeriggio con la peggio per i repubblicani, vide la decimazione della guardia civica di B. Galletti sotto gli occhi dei carabinieri di G. Galletti che restarono a guardare, Rosselli, col grosso dei repubblicani al comando, fu chiamato traditore perché non raggiunse mai il luogo di combattimento servendosi della foglia di fico dello spostamento strategico ed infine, secondo un verbale redatto da Pisacane, Garibaldi restò duramente ferito. Nonostante ciò il settario Triumvirato commentò la fuga delle Truppe Regie23. Ritroviamo le tracce di queste polemiche nei resoconti della giornata del 5 maggio quando da Rocca d’Arce si scriveva: “sarebbe seguito un primo scontro tra l’avanguardia francese, mossa da Civitavecchia per andare a Roma, ed una legione Romana formata per lo più da esteri, nelle vicinanze di Palo. Le truppe francesi averne riportata la peggio, perché si battono svogliate”24. Di fronte all’ostracismo francese ed alla ritirata da Velletri, il Ministro degli Esteri Napoletano Targioni consigliò al plenipotenziario napoletano, il Conte Ludolf, di ritirarsi dalla Conferenza, la soluzione forse fu valutata seriamente, ma solo per l’opposizione di Ferdinando II se ne impedì l’attuazione.  Il primo giugno il francese Oudinot riprese la guerra, nello stesso mese gli Spagnoli raggiunsero Priverno, gli Austriaci occuparono Ascoli, i Napoletani Ferentino, così, perse pure le porte San Pancrazio, Portese, San Paolo, Cavalleggeri e del Popolo, la settaria Assemblea repubblicana dispose la capitolazione con il solito timbro di ridicola incoerenza: “In nome di Dio e del popolo, l’assemblea costituente cessa una difesa divenuta impossibile e sta al suo posto”. Il 15 luglio furono rialzate le bandiere pontificie sulla torre del Campidoglio e su Castel Sant’Angelo e l'ordine legittimo venne ristabilito.

Truppe Francesi entrano nella Roma liberata dalla settaria Repubblica
 



Note:

1 Si consulti di AA.VV., Il 1848 a Napoli, Napoli 1994.
2 A. Scotti, Il 15 maggio del 1848 a Napoli, in L’alfiere, Febbraio 1971, p. 4. Dello stesso autore si segnala Napoli borbonica: Vicende, aneddoti e verità storiche, Napoli 1970.
3 Archivio di Stato di Caserta, d’ora in avanti ASC, Alta Polizia, B. 7 f. 1

4 ASC, Alta Polizia, B. 14 f. 1

5ASC, Intendenza Borbonica Agricola, Industria e Commercio, B. 66, f. 2784. Tra i liberali ricordiamo Raffaele Teti, capitano della Guardia Nazionale, Giovanni Tessitore, decurione di Santa Maria Capua Vetere, Girolamo Della Valle, sindaco di Santa Maria Capua Vetere, e Ferdinando D’Elia, presidente della Società Economica. Proprio Galozzi e Tessitore si ritroveranno poi nella setta dell’Unità Italiana diretta da Settembrini, Agresti e Poerio, mentre Giuseppe Maria Bosco, tornato alla professione di avvocato, assunse le difese di gran parte degli imputati per reati politici per i fatti del 1848 in provincia

6 Si consulti di E. De Domenico, Il movimento rivoluzionario italino e la città di Santa Maria, Roma 1914. Alle elezioni del 18 e del 30 aprile del 1848 erano stati eletti diciannove deputati di Terra di Lavoro di cui quattro erano componenti della Società Economica di Terra di Lavoro ovvero Ernesto Capocci, secondogenito di Filippo Capocci, di Picinisco nel circondario di Atina, direttore dell’Osservatorio astronomico di Napoli, Giovanni Semmola, nipote di Mariano Semmola, nato a Brusciano nel circondario di Marigliano medico, Costantino Crisci di Moiano e Francesco Saverio Correra di Caserta.

 7 ASC, Alta Polizia, B. 99 f. 2

8 ASC, Alta Polizia, B. 7 f. 1

9 . Si esaminino le liste degli inquisiti in ASC, Alta Polizia, Buste 7, 11, 14 e 16.
10 ASC, Alta Polizia, B. 11 f. 1

11 G.C. Donvito, Il ’48 a Gioia del Colle in Archivio Storico Pugliese, Brindisi 1948, p. 57
12 A. Lucarelli, I Moti Rivoluzionari del 1848 nelle Province di Puglia in Archivio Storico Pugliese, Brindisi 1948, p. 23

13 G. De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Roma 1862, p. 313

14 ASC, Alta Polizia, B. 3 f. 4
15 ASC, Alta Polizia, B. 4 f. 6

16 ASC, Alta Polizia, B. 17 f. 2

17 ASC, Alta Polizia, B. 16 f. 3
18 N. Foramiti, Fatti di Roma degli anni 1848-149, Venezia 1850, pp. 33-4

19 Si consulti di L.C. Farini, Lo Stato Romano dal 1815 al 1850, Torino 1853. Sulla Conferenza di Gaeta sono molto utili gli studi di Gaetano Andrisani pubblicati nel corso del 1970 nella Gazzetta di Gaeta.

20 Nel citato Fatti di Roma degli anni 1848-149, leggiamo a p. 43 “Il 10 gennaio 1949, in Orvieto vi è stata una leggiera sommossa ordinata dal march. Gualtiero; ma vi è accorsa subito la numerosa civica d Viterbo con un cannone, e l’ha sedata”. Abbiamo ancora dallo stesso tempo notizie di disordini in Terracina, Ancona e Ascoli. In L. Lancellotti, p. 64 si accenna ad agitazioni reazionarie in Trastevere.
21 ASC, Alta Polizia, B. 12 f. 3

 22 L. Lancellotti, Diario della rivoluzione di Roma dal 1 Novembre 1848 al 31 luglio, Napoli 1862, p. 158. “Garibaldi con la sua banda faceva il 26 una scorreria ad Arce, e Rocca d’Arce nel territorio napolitano, che conosce sguarnite di difensori. Nel mattino del 27 essendo pervenuto al generale Nunziante in Mignano il rapporto che que’ luoghi erano occupati dalle bande romane, egli ordinò premurosamente il movimento in avanti de’ corpi stanziati a S. Germano, due battaglioni di fanti, cinque squadroni di cavalli e quattro obici da 12 di montagna, dando tutte le disposizioni per attaccare quell’audace partigiano; ma Garibaldi non attese lo approssimarsi delle truppe regie, e dopo la breve dimora di un solo giorno frettolosamente si ritirò per Valmontone verso Roma, ove giunse nella notte del 29”. G. D’Ambrosio, Relazione della Campagna Militare fatta dal Corpo Napolitano negli Stati della Chiesa, Napoli 1852, p 60.
23 L. Lancellotti, op. cit., p. 150 e sg. L’episodio è così commentato sul Giornale delle Due Sicilie del 17 giugno 1848: “Il maresciallo di campo marchese Nunziante, venuto dalla Sicilia e destinato al comando del corpo di esercito di operazione, che in atto trovasi alla frontiera dello Stato Pontifico nella provincia di Terra di Lavoro, appena riunita porzione delle sue forze, ha prontamente marciato sopra Arce, ove Garibaldi con le sue bande erasi spinto dopo un conflitto sostenuto da molti abitanti di quel paese unitamente alle guardie di sicurezza e nazionale, che coraggiosamente avevano difeso Arce e Rocca d’Arce, e che poi dovettero ripiegare a causa del forte numero del nemico. Ciò mostra l’eccellente spirito di quella buona popolazione, e lo attaccamento al Re N.S. Il Garibaldi, appena conosciuto il movimento decisivo e le posizioni prese dal generale Nunziante, che già veniva ad attaccarlo il 27 dello spirante mese, si è precipitosamente ritirato con le sue bande nello Stato Romano”.
24 ASC, Alta Polizia, B. 12 f. 3. Una squadra navale spagnola era di stanza nella rada di Gaeta e un piccolo contingente di truppe erano giunte a Fiumicino comandate dal Generale Cordova.



Fonte:

Pubblicazione di Angelo d'Ambra (La controrivoluzione in Terra di Lavoro e la riconquista di Roma (1848-1849) )

Scritto da :

Il Presidente e Fondatore dell'A.L.T.A. Amedeo Bellizzi.