venerdì 18 gennaio 2013

Breve storia delle vicende del confine orientale tra XIX e XX secolo

Il "confine orientale"
 


Introduzione
Nel 2004 il governo di centrodestra guidato da Silvio Berlusconi promosse l’istituzione del “Giorno del ricordo”. Questa decisione, motivata dalla volontà di diffondere la conoscenze e la memoria dei drammatici fatti avvenuti nelle terre del confine orientale all’indomani della seconda guerra mondiale (infoibamenti ed esodo forzato delle popolazioni locali) trovò molti consensi, ma anche dure critiche. In seguito  capiremo perché. Per ora ci basti dire che, a distanza di otto anni dall’istituzione della legge, e soprattutto a settant’anni dai tragici fatti, le vicende del confine orientale continuano a dividere profondamente gli animi. Ho cercato di realizzare una cronistoria degli eventi che hanno caratterizzato la storia di Venezia-Giulia, Istria e Dalmazia dal XIX secolo agli anni seguenti la II guerra mondiale. Nel corso della ricerca è emersa la difficoltà a reperire testi scevri da strumentalizzazioni politiche. Muoversi nel mare magnum di articoli, libri e saggi di ispirazione comunista, nazionalista, filo-slava, anti-slava…non è stata impresa facile. Speriamo di aver realizzato una  crasi soddisfacente tra le varie fonti da cui abbiamo attinto, ricordando comunque che la ricerca storica prosegue ed evolve senza soluzione di continuità, e che quindi non è escluso che già da qui a poco tempo alcune conclusioni presentate possano essere riviste e corrette. Questo aspetto d’altronde è intrinseco allo studio della storia, che è una scienza per il rigore dei procedimenti coi quali viene studiata, ma non mai una scienza esatta, e ogni conclusione alla quale giunge è per sua natura criticabile e revisionabile. Ritengo che quest’opera di divulgazione culturale sia tanto più utile dal momento che delle tragiche vicende dell’alto adriatico si parla tanto, ma si sa generalmente poco. Una annotazione metodologica: trattandosi di testi di divulgazione in stile giornalistico (in principio erano stati pensati per essere pubblicati su un quotidiano locale) e non di saggi storici propriamente detti, ho  scelto di usare pochissime note, onde evitare di appesantire la lettura. Tuttavia in seguito verrà fornita una bibliografia di base, in cui potrete trovare indicati i testi da cui abbiamo tratto i vari dati. Buona lettura


Dall’esplosione dei nazionalismi alla I guerra mondiale


Considerazioni generali


Primariamente ci sembra indispensabile, tanto per capire di cosa stiamo parlando, fornire alcune indicazioni terminologiche e geografiche, che sono solo apparentemente scontate. La Venezia-Giulia comprende Gorizia e Trieste con i rispettivi entroterra, e si spinge dalle Alpi Giulie fino alla Dalmazia, comprendendo anche buona parte dell’Istria. Questa si estende da sud-est di Trieste ed è attualmente quasi interamente divisa tra Croazia e Slovenia. La città di Fiume, famosa soprattutto per l’azione di Gabriele d’Annunzio dopo la I guerra mondiale, si situa grossomodo a metà strada tra l’Istria e la Dalmazia. Essa ha lungamente rappresentato un corpus separatum rispetto alle terre giulie, istriane e dalmate, legate, fino al 1918, all’Impero asburgico, e più precisamente alla parte austriaca del regno. Fiume, invece, apparteneva alla corona ungherese di S. Stefano, [1] ed ora è una città croata. La Dalmazia è una sottile striscia costiera che, dall’Istria, si estendeva fino all’Albania. Al pari della penisola istriana è appartenuta per secoli alla repubblica di Venezia, e dopo le convulse vicende dell’epoca napoleonica è passata all’Austria, di cui ha fatto parte fino al 1918. Ora è  quasi esclusivamente croata. Ricordiamo che fino al termine della prima guerra mondiale un’altra regione austriaca abitata da persone di lingua e cultura italiana era il Trentino, delle cui peculiari vicende storiche non possiamo occuparci in questa sede.                                                                                                                                                        Un’ulteriore precisazione preliminare: riteniamo che la storia di ognuna di queste regioni, al fine di comprendere le origini dei contrasti etnici e ideologici che hanno portato ai massacri del XX secolo, debba essere analizzata separatamente dalle altre. Parte dell’Istria e Dalmazia, ad esempio, hanno avuto una lunga storia comune: il governo della serenissima, coi suoi lasciti culturali e linguistici (il veneto era la lingua franca di commercianti e militari dell’Adriatico); poi la successiva dominazione asburgica. Tuttavia, un’analisi dei rapporti demografici [2] e sociali tra italofoni e slavi ci rivelerebbe importanti differenze tra le due regioni, che hanno poi determinato differenti sviluppi politici. Quindi nelle prossime settimane ci preoccuperemo di fornire, oltre ad una storia d’insieme, anche una presentazione delle vicende particolari di ognuna delle zone di cui ci occuperemo. 


Dall’esplosione dei nazionalismi alla I guerra mondiale


-Dalmazia (I)


In Dalmazia, nel XIX secolo, gli italofoni abitavano i centri costieri e le isole, mentre gli slavi, principalmente croati, erano maggioranza assoluta nell’entroterra. A onor del vero, l’unica grande città in cui gli italiani erano numericamente prevalenti era la capitale storica della regione, Zara, ma minoranze più o meno consistenti le troviamo in molti altri centri costieri tra cui Sebenico, Spalato e Ragusa. Tuttavia, nonostante fossero numericamente inferiori, gli italiani di Dalmazia detenevano le leve del potere economico e culturale. Essi erano di solito borghesi e commercianti, mentre gli slavi erano prevalentemente contadini. La lingua franca dei commerci e della navigazione era il veneto, storico portato della dominazione veneziana. Questo particolare ovviamente non è ininfluente. A mio avviso, quando dai decenni centrali del XIX secolo si svilupperanno le diatribe nazionali, la “questione sociale” peserà non poco sull’intera vita politica della regione e contribuirà al suo inasprimento. È riportata infatti la riottosità di quella che, dalla seconda metà de secolo, sarà la nascente borghesia croata verso i vecchi dominanti. In generale, tra le varie regioni di cui ci occuperemo, probabilmente la Dalmazia è stata il teatro delle diatribe etniche più cruente, per quanto riguarda il secolo XIX. E dire che fino alla metà del secolo, fino alla nascita del nazionalismo croato, a prevalere e unire la maggior parte degli abitanti era stata l’idea di una comune “nazione dalmata”, una terra plurilingue, che non poteva essere ridotta né all’etnia italiana né a quella sloveno-croata, ma che era il frutto della loro millenaria convivenza. Questa era ad esempio la convinzione di Nicolò Tommaseo, dalmata italiano di Sebenico, importante letterato. Fu in forza di questa convinzione che nei primi anni ’60 la classe dirigente italofona si oppose con forza alla prospettiva dell’unione amministrativa tra la provincia dalmata e il regno di Croazia, richiesta invece dai primi panslavisti. Per quanto i croati fossero maggioranza, infatti, l’unione alla Croazia avrebbe rappresentato una svolta innaturale per la storia peculiare della regione, storia così fortemente influenzata dalla presenza di una forte e attiva componente italiana. Questa battaglia fu vinta perché le autorità asburgiche, alla fine, non assecondarono le richieste degli slavi. Tuttavia, da lì a poco l’eco delle vicende esterne all’Impero [1] finì per farsi sentire prepotentemente anche nella zona dalmata. Prima le rivolte del ’48, poi la guerra d’Italia del 1859 portarono l’establishment austriaco a riconoscere nell’elemento italiano, più a torto che a ragione, un fattore facinoroso e destabilizzatore. Dalla seconda metà del secolo, pertanto, a livello governativo sarà costantemente favorita la componente slava, considerata più lealista.


Dalmazia (II)


Fino all’inizio degli anni ‘80, pur essendo espressione di  una minoranza, il partito di riferimento degli italiani, detto “autonomista”, continuò a godere della maggioranza in vari comuni. In seguito questa situazione mutò. Nel 1914 il solo comune di Zara era ancora governato dal partito italiano. È vero che nelle varie elezioni ci furono pressioni di varia natura, e forse brogli, ma la causa della caduta delle amministrazioni italiane è da imputarsi alla progressiva estensione del suffragio, che favoriva i ceti inferiori, e dalla mobilitazione nazionale del mondo slavo contadino. Dove gli italiani erano inequivocabilmente maggioranza, cioè a Zara, come detto, resterà sempre un podestà italofono. Esiste un documento costantemente citato dai critici dell’amministrazione asburgica, ossia il verbale di un consiglio dei ministri del novembre 1866 (poco dopo la conclusione della III guerra di indipendenza), in cui Francesco Giuseppe afferma di voler cancellare ogni segno della presenza culturale e politica italiana dalle terre dell’Impero. In realtà, questo proposito, se mai è passato per la testa dell’Imperatore (ciò è tutto da dimostrare) [1] non si attuò mai. In Dalmazia i contrasti nazionali furono in effetti vissuti in modo anche particolarmente violento (aggressioni e risse tra italiani e slavi ecc diventarono sul finire del secolo e nei primi anni del ‘900 abbastanza abituali, e, stando a quanto riportato da più fonti, le autorità di polizia intervenivano costantemente in senso anti-italiano). Ma la maggioranza slava, con la complicità delle autorità, non andò mai oltre una progressiva “snazionalizzazione dolce”: retrocessione dell’italiano da lingua d’insegnamento a lingua secondaria nelle scuole, mancata concessione di fondi pubblici per l’apertura di scuole italiane, chiusura di alcuni istituti… Tuttavia, ancora nel 1909, un’ordinanza ministeriale valida per tutta la Dalmazia stabiliva che la corrispondenza tra gli uffici e qualunque atto giuridico o tecnico poteva essere compilato in italiano. Ancora: i censimenti indicano un vertiginoso calo percentuale degli italiani residenti in Dalmazia tra il 1870 e il 1914, ma questi dati non sono da interpretare, come vuole una retorica nazionalista italiana, come il segno di una persecuzione asburgica nei confronti della minoranza italiana, che sarebbe quindi stata costretta ad un esodo ante-litteram. Se infatti, dopo la caduta delle amministrazioni italiane nelle città del centro-sud, una parte degli abitanti può aver deciso di spostarsi verso Zara o verso l’Istria e Trieste, è un altro il vero motivo del crollo della presenza italiana registrata: cambiato il vento, avvertito chiaramente per chi simpatizzavano le autorità statali e regionali in quegli anni, molti abitanti che non si sentivano né italiani né croati, o che comunque fino a un certo momento si erano dichiarati italiani, semplicemente cambiarono la nazionalità dichiarata. Ciò può sembrare strano solo se non ci caliamo nella realtà dalmata nel XIX secolo, una realtà in cui le distinzioni nazionali si stavano formando più o meno faticosamente, e dove la suggestione di una peculiare “nazionalità dalmata” resisterà ancora negli anni stessi dell’esplosione dei nazionalismi. È da rilevare anche che l’atteggiamento asburgico, di timore e avversione verso gli italiani, non era in realtà giustificato dai fatti. Il partito autonomista nutriva sentimenti lealisti, e anche nel resto della società non erano presenti elementi irredentisti. Di fatto, finché esistette la compagine imperiale (pur coi suoi errori e coi suoi limiti), si ebbero odi e contrasti tra le varie etnie, forse inevitabili nei decenni romantici dei nazionalismi, ma non già eccidi ed esodi di massa.


Istria e Venezia-Giulia


Trieste e Gorizia sono state legate all’Austria per diversi secoli: la prima addirittura dal 1382, anno in cui la classe dirigente comunale chiese protezione al Duca d’Austria per evitare le mire egemoniche di Venezia. L’Istria, invece, come abbiamo già visto, era entrata a far parte dei domini asburgici dopo la fine dell’indipendenza veneziana, anche se la parte più interna costituiva da sempre terra austriaca. In queste province gli italiani erano, in percentuale, molto più numerosi che in Dalmazia. Nella fascia costiera istriana e nelle due città giuliane erano maggioranza. Complessivamente, in Istria rappresentavano più del 40% della popolazione, mentre a Trieste circa i ¾. Dal 1861 (creazione delle diete, le strutture amministrative che costituivano le province dell’Impero) e per diversi decenni la vita politica fu dominata dal partito italiano, grazie al sistema elettorale censitario che abbiamo già conosciuto per la Dalmazia (anche qui, infatti, gli italofoni rappresentavano la classe sociale dirigente). Tuttavia gli ultimi anni del secolo registrarono un forte incremento della presenza slava, in parte per il risveglio nazionale, favorito anche dalla volontà governativa di privilegiare l’elemento non italiano, in parte dal processo di democratizzazione in corso dell’Impero. Anche a Trieste, da sempre città di cultura prevalentemente italiana, le minoranze slave erano in costante crescita. Per quanto non abbiano raggiunto i livelli di violenza che si registrarono, a seconda dei periodi e delle zone, in Dalmazia, anche in queste terre nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo non mancarono le diatribe nazionali, a più livelli. Posteriormente queste sono state ricostruite, ma spesso poi raccontate ad uso e consumo dell’ideologia degli autori delle ricerche. Un solo esempio: se una certa pubblicistica “di sinistra” (usiamo quest’espressione per semplicità) ricorda che i primi ad usare il termine foibe con propositi criminali furono i nazionalisti italiani, in alcune poesie degli anni ’20 in cui auspicavano per gli slavi la triste fine che potete immaginare, o cita lo sciovinismo, ad esempio, dell’irredentista triestino Timeus Ruggero Faro, dimentica per contro che dall’800 in poi gli stessi livelli di ultranazionalismo erano propri della componente slava. Ciò si verificava attraverso forzature e mistificazioni storiche  (l’idea diffusa da una certa storiografia partigiana per la quale l’elemento italiano in Dalmazia non fosse indigeno, ma un retaggio della dominazione veneziana che era quindi doveroso eliminare) o anche, in modo meno ricercato ma forse più efficace, con altre modalità. Paradossalmente, una componente delle etnie slovene e croate particolarmente sensibile al richiamo del panslavismo fu il clero, con tutte le conseguenze del caso, vista l’influenza che questo aveva sui contadini cattolici. È proprio un prete (ma gli esempio potrebbero esseri molti altri) che in una poesia scrisse sull’opportunità di gettare gli italiani in mare ! D’altronde nell’Impero asburgico, in quegli anni, un motivo classico di propaganda anti italiana fu il carattere anticlericale del nostro risorgimento. Non meraviglia che sul clero slavo l’equazione strumentale italiano d’Austria=filo-italiano= massone anticlericale abbia fatto presa, perché intrecciava la polemica nazionale a quella religiosa. Tornando all’Istria, qua soprattutto tra ’800 e primo ’900, i motivi di attrito tra le componenti nazionali furono dovute alle scuole (lingua d’uso, lingua da studiare obbligatoriamente, finanziamenti pubblici..). In quest’area il movimento irredentista, sebbene minoritario [1] nel complesso della popolazione, era presente, e Trieste ne era il cuore. Esso coinvolgeva principalmente membri delle classi borghesi, e aspirava all’unità con il regno d’Italia, per ragioni ideali (nazionalismo)  ed economiche.  


Le terre di nord-est tra le due guerre : 1918 – 1940


Nel novembre 1918 si concluse la grande guerra. Dalle ceneri dell’Impero austriaco sorse il regno dei serbi dei croati e degli sloveni, poi regno di Jugoslavia, il quale si trovò subito in contrasto con l’Italia per  questioni di confine. I negoziati, in questo senso, non si esaurirono coi trattati di pace, ma proseguirono per anni. Alla fine, oltre a Trieste e Gorizia, all’Istria e all’enclave di Zara, nel 1924 (trattato di Roma) fu definitivamente stabilita anche l’annessione di Fiume, città plurietnica a maggioranza italiana che, per quanto non fosse previsto dal patto segreto di Londra, divenne l’emblema della “vittoria mutilata” propagandata dai nazionalisti, tanto da essere teatro della celeberrima spedizione dannunziana. Tornando al 1918, rileviamo che la vittoria degli stati nazionali e la fine dei grandi imperi non aprì un periodo allegro per le minoranze etniche, presenti ovunque nell’Europa del tempo. Così, anche in Italia, queste furono emarginate e discriminate. Nel frattempo si affacciava sulla scena il movimento fascista, che anche in seguito alle peculiari vicende vissute in queste terre di confine negli anni precedenti (diatribe nazionali ai tempi dell’Impero, poi la guerra con le sue offensive,  “liberazioni” e “rioccupazioni” ecc) divenne subito potente e influente. E violento. Nel luglio 1920 gli squadristi bruciarono il Narodni dom a Trieste, riferimento dell’associazionismo slavo, e contestuali atti di violenza si ebbero anche a Pola. [1] Ciò in parte come conclusione e rivincita dei vecchi rancori di cui abbiamo parlato, ma soprattutto perché coerente con l’ideologia fascista, erede almeno in parte della tradizione sciovinista irredentista [2], e volta alla liquidazione dell’elemento cosiddetto “allogeno”.  Così, se nel ’19 erano state chiuse 44 scuole croate su 49, la riforma Gentile stabilì che l’unica lingua d’insegnamento doveva essere l’italiano, e fu eliminata per gli slavi la possibilità di esprimersi in pubblico nella loro lingua madre. L’idea di base era molto semplice: la civiltà italiana era superiore, e ciò che le era estraneo doveva essere soppresso. Ricordiamo che un trattamento analogo fu subito dai germanofoni del sud-Tirolo, anche se forse ciò è meno noto perché le vicende orientali sono state poi portate alla ribalta da una certa pubblicistica al fine di “giustificare” i fatti post seconda guerra mondiale. Ricordiamo comunque che gli italiani che si trovarono all’interno dei confini del nuovo stato jugoslavo all’indomani dei trattati di pace scelsero in modo preponderante di  trasferirsi all’interno del  regno d’Italia, compiendo un primo esodo, speculare e contrario a quello vissuto dagli  slavi che dall’Italia si trasferirono in Jugoslavia, a riprova della condizione di disagio in cui vivevano le minoranze etniche dei nuovi stati nazionali. Comunque, stando ai dati del censimento riservato fascista del 1939, alla vigilia della II guerra mondiale esistevano ancora nelle terre di confine forse 400000 madre lingua slavi: la politica dell’intolleranza non era evidentemente riuscita nei suoi propositi di snazionalizzazione completa, nonostante una parte della minoranza slava (da alcune decine di migliaia a oltre centomila a seconda delle fonti), come detto, abbia lasciato l’Italia per la Jugoslavia durante gli anni del fascismo.


La seconda guerra mondiale  


Il 10 giugno 1940 l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania. La Jugoslavia fu coinvolta nel conflitto l’aprile dell’anno successivo, quando, in previsione della grande campagna di Russia, Hitler volle occupare i Balcani per ragioni strategiche. L’esercito regio fu liquidato in poche settimane dalle divisioni italo-tedesche, ma si sviluppò subito un fortissimo movimento di resistenza, dapprima eterogeneo poi progressivamente egemonizzato dalla componente marxista e guidato dal maresciallo Tito. L’Italia si annesse la provincia di Lubiana  e la Dalmazia, e da subito operò una repressione feroce dell’attività partigiana, che coinvolse anche la popolazione civile. Secondo alcune stime, tra il ’41 e il ’45 morirono più di 10000 slavi nei campi di prigionia organizzati dagli italiani. [1] Di questa realtà, leader militari come il generale Roatta, comandante della II armata, hanno grandi responsabilità. La pubblicistica destinata ai soldati di stanza nella ex-Jugoslavia presentava, ancora una volta, il mondo balcanico come una realtà barbara e cattiva, e ciò era indispensabile per motivare alla lotta giovani che magari non sapevano neanche perché si trovavano lì. Più in generale, ciò è indicativo di quella che fu la totale mancanza di comprensione da parte degli italiani del mondo sloveno. D’altro canto, altri autori sostengono che, dopo l’8 settembre, alcuni indigeni slavi aiutarono i soldati italiani a sfuggire alla cattura da parte dei tedeschi, volendo con questo intendere che l’azione repressiva italiana non era stata tale da guadagnarsi un odio generalizzato. Sta di fatto che i crimini di guerra commessi dall’esercito italiano non sono negati da nessuno. Come si può intuire, oltre a ciò che si registrò nel resto della penisola (generali in fuga, intere unità allo sbando…) la situazione post 8 settembre nel nord est fu resa complicata dalla peculiare realtà dei luoghi: su tutte, la presenza delle minoranze nazionali perseguitate negli anni precedenti. In questi giorni di terribile confusione si ebbero le prime uccisioni di italiani da parte dei partigiani slavi: le cosiddette foibe del ’43. Queste hanno riguardato, secondo le stime più ricorrenti, circa 500 persone. Alla radice di queste morti troviamo vendette personali, velleità sociali-rivoluzionarie (uccisioni di dirigenti industriali) e soprattutto di rivalsa nazionale e politica. Da una  parte c’è chi sottolinea che dietro a queste uccisioni ci furono  eccessi di singoli soldati e non un progetto anti italiano (ricordando che si trattò di 500-600 morti a fronte di centinaia di migliaia di italofoni presenti); altri invece sostengono che questi fatti rientravano già in un progetto deliberato del movimento partigiano per facilitare la futura annessione dell’Istria, come si desumerebbe dai proclami di annessione alla “madrepatria jugoslava” diffusi già nel settembre ’43. Probabilmente hanno un po’ ragione tutti. Comunque sia, queste prime uccisioni riguardarono l’Istria, e furono circoscritte al periodo compreso all’incirca tra la metà di settembre e i primi di ottobre del 1943. La successiva rioccupazione tedesca fu caratterizzata da ulteriori violenze e repressioni. Ricordiamo, particolare molto importante, che le terre del litorale adriatico passarono sotto la diretta amministrazione del Reich tedesco, che così si ricompenso del tradimento italiano del mese precedente.  


Le foibe              


Tra il 1943 e il 1945 in Italia si combatté la guerra civile (che vide i reparti fascisti impiegati principalmente nella controguerriglia, mentre alleati e tedeschi si affrontavano in campo aperto, prima sulla linea Gustav poi sulla Gotica). Intanto, nel nord-est, si sviluppò un contorto intreccio etnico e ideologico (fascisti croati alleati delle forze dell’asse, faide intra-partigiane, partigiani italiani comunisti che passarono sotto il comando di Tito auspicando l’annessione della Venezia-Giulia alla Jugoslavia, partigiani bianchi italiani pronti ad allearsi con la X Mas per salvaguardare, altresì, l’italianità di Trieste e Gorizia…). Per quanto ci riguarda, con la nostra narrazione possiamo arrivare direttamente alla primavera del 1945, cioè alla vittoria alleata: alla tragedia delle foibe propriamente detta. In quest’occasione, teatro principale degli eccidi furono Trieste, Gorizia e Fiume. Secondo la versione che, in linea di massima, è condivisa dalla maggior parte degli studiosi, e che sta alla base dell’istituzione della “Giornata del ricordo”, nel maggio 1945 i partigiani titini, giunti a Trieste a marce forzate per anticipare gli alleati, operarono una pulizia etnica nella regione, eliminando almeno alcune migliaia di italiani, coerentemente con il piano espansionista jugoslavo che prevedeva l’annessione di terre reclamate già prima che finisse la grande guerra. Non tutti questi caduti sarebbero stati uccisi con la modalità più tristemente famosa (gettati, spesso ancora vivi, nelle cavità carsiche), ma molti di loro avrebbero subito esecuzioni sommarie, o avrebbero trovato la morte nel corso delle estenuanti marce per raggiungere i campi di prigionia o negli stessi campi di prigionia jugoslavi. C’è chi aggiunge, inoltre, che per comprendere la natura di queste uccisioni non basta fare riferimento al nazionalismo e alla volontà di vendetta (rancori vecchi di decenni, che negli ultimi cinque anni erano esplosi in modo cruento), ma è necessario tenere a mente che i combattenti jugoslavi costituivano un esercito comunista. Le foibe, quindi, da vedere anche come crimine di classe, volto a eliminare i “nemici del popolo”, che avrebbero potuto ostacolare la rivoluzione: da qui la persecuzione di civili, proprietari terrieri, dirigenti industriali, membri delle forze di polizia, avversari ideologici (liberali, cattolici…) Oltre, ovviamente, agli appartenenti allo sconfitto regime fascista e autori di crimini di guerra o presunti tali (ma qui siamo più nell’ambito della vendetta che in quello dei propositi rivoluzionari). Alla domanda “perché per sessant’anni le istituzioni non hanno ricordato una tragedia di queste proporzioni?” si risponde di solito ricordando che ciò avrebbe intaccato l’immagine immacolata della resistenza, essendo i partigiani italiani alleati e collaboratori degli jugoslavi. E che la classe dirigente della I repubblica, democristiani e comunisti su tutti, avevano interesse a non fare emergere i particolari della vicenda. Tuttavia, questa versione è duramente criticata da una certa storiografia di sinistra, che vede in tutta questa interpretazione una strumentalizzazione politica. Vediamo quali sono i punti principali del revisionismo di “sinistra” [1] sulla vicenda foibe. In primo luogo, si denuncia che dietro alla versione ormai diventata quella ufficiale ci sarebbe la volontà di denigrare la resistenza e di riabilitare l’esperienza fascista, volontà favorita dall’approdo al governo, nel corso degli anni ’90, degli eredi del Msi. Ricordare il dramma delle foibe, in base a quanto sostenuto da questa corrente (minoritaria ma non ininfluente, anche a causa della simpatia di sinistra di gran parte del ceto “intellettuale” del paese) sarebbe un’espressione di neofascismo. Ciò, anche perché in questi casi contestualmente si ha spesso un’esaltazione sciovinista del passato imperiale romano e della repubblica di Venezia, una deliberata volontà di trascurare le precedenti persecuzioni fasciste, e un pregiudiziale atteggiamento razzista verso gli slavi. Entrando poi nel merito della ricostruzione storica, si contestano in primo luogo le cifre [2], imputando alle esecuzioni dell’esercito di Tito, operate in  Venezia-Giulia nella primavera-estate del ’45, centinaia e non migliaia di vittime, quasi sempre legate al passato regime fascista e autori di crimini di guerra: non una pulizia etnica, quindi, ma una inevitabile vendetta. Di più: secondo alcuni autori sarebbe stata la presenza dei titini a Trieste a impedire ai partigiani italiani le sanguinose rappresaglie che si sono invece registrate in altri centri del nord, come a Milano, a Torino o in Emilia. Equiparare quindi i vincitori ai vinti, poi, sarebbe addirittura funzionale a un progetto imperial-irredentista volto al futuro recupero militare delle terre perdute, in primo luogo l’Istria. Ovviamente lasciamo ai lettori la libertà di assecondare qualsiasi idea, ma quest’ultima tesi ci sembra davvero una forzatura…                                                                                                         


Il trattato di pace e il grande esodo


Il 10 febbraio 1947 fu firmato il trattato di pace di Parigi. L’Italia fu trattata da nazione sconfitta: costretta a ad accettare una (pur minuta) revisione del confine occidentale, la perdita delle colonie e, quello che più ci interessa in questa sede, la cessione di Zara, Fiume, di buona parte della Venezia-Giulia e di tutta l’Istria. Trieste fu divisa in due zone: la prima amministrata dagli alleati, la seconda dal regime di Tito. Questa, negli anni ’50, passerà definitivamente alla Jugoslavia. La parte A, invece, tornerà italiana nel 1954 (memorandum d’intesa), dopo che nel novembre 1953 sei italiani erano caduti sotto il fuoco alleato durante i moti di protesta.                                                                                                                                            Veniamo ora al dramma dell’esodo. Centinaia di migliaia di italiani, che abitavano Istria, Fiume e Venezia-Giulia da secoli, o che erano emigrati negli ultimi anni di vita dell’Austria-Ungheria, o ancora, che si erano trasferiti durante il fascismo, lasciarono la loro terra e si trasferirono in Italia, a più riprese, tra il 1946 e gli anni ’50. È il drammatico esodo degli istriano-dalmati. Esso ha coinvolto circa il 90% degli italofoni istriani, di Fiume e della Venezia Giulia perduta in seguito alla sconfitta. Questi numeri ci indicano una prima differenza rispetto ad altre emigrazioni di massa conosciute nell’area dell’alto adriatico, ad esempio dopo la I guerra mondiale: in questo caso si è avuta la scomparsa di un’intera componente nazionale, quella italiana. Neanche le discriminazioni fasciste anti-slave avevano portato a tanto, come abbiamo visto. Chiediamoci allora: cosa spinse gli abitanti di intere città a prendere la drammatica decisione di abbandonare la loro Heimat, i luoghi dove erano cresciuti e dove spesso erano vissuti i loro antenati? Furono “costretti” ? E in che modo? O forse erano solo reazionari che rifiutavano di vivere nel paradiso socialista titino? (come sosteneva la propaganda comunista italiana?) Proviamo a rispondere a queste domande, anche se una risposta definitiva non esiste, in quanto il  dibattito storiografico in proposito è ancora apertissimo. In sintesi, possiamo affermare che se non ci furono decreti di espulsione di massa, la maggior parte degli italiani scelse di partire quando capì che nel nuovo regime autoritario e poliziesco non avrebbe avuto modo di esprimere la sua italianità. Dall’Istria, infatti, le varie comunità partirono quando fu chiaro che l’amministrazione jugoslava sarebbe diventata definitiva, sancendo la situazione de facto venutasi a creare durante la guerra. Diverso è invece il caso di Zara: da qui gli abitanti erano sfollati già nel ’44, dopo che la città era stata rasa al suolo da una serie di feroci bombardamenti alleati. Solo, si limitarono a non tornare. Certo, sulla scelta degli italiani di Istria e Venezia-Giulia ha di certo pesato anche il retaggio delle uccisioni dell’estate del ’45, del dramma delle  foibe. Fu così che la presenza italiana in queste terre di confine, che aveva determinata la loro configurazione particolare, spesso conferendo una inequivocabile identità architettonica e culturale, venne meno. Per sempre.



Note:


 [1]= con l’Ausgleich del 1867 l’Imperatore Francesco Giuseppe concesse una sostanziale  autonomia, per quanto riguardava gli affari interni, alla parte ungherese del Regno, abitata prevalentemente (ma non esclusivamente) da magiari. Questa era separata dalla parte austriaca dal fiume Leitha, ed era perciò detta Transleithania, mentre la parte occidentale era la Cisleithania. Rimanevano in comune i ministeri di esteri, guerra e finanze, oltre alla figura dinastica del Kaiser.


[2] = è davvero arduo fornire stime demografiche sempre attendibili. Lo strumento dei censimenti, nel corso del XIX secolo, è solo parzialmente affidabile, soprattutto in un contesto plurinazionale come quello asburgico. Spesso questo poteva essere manomesso, o influenzato, ed essere usato così come strumento di lotta politica, per evidenziare, anche forzatamente e artificialmente, eventuali rapporti di forza tra le diverse etnie. Ma le difficoltà erano intrinseche al metodo stesso da adottare nel rilevamento: ad esempio, si doveva dichiarare la  lingua madre (muttersprache), cioè quella parlata in famiglia, o la lingua d’uso (umgange sprache) quindi quella usata prevalentemente nei rapporti pubblici? È chiaro che a seconda dei criteri usati le percentuali di appartenenti alle varie etnie potevano variare molto.


[3] Nel 1848, con una propaggine l’anno seguente (decisiva battaglia di Novara) si combatté anche la I guerra di indipendenza, che vide lo stato piemontese impegnato contro l’Impero austriaco. Pochi anni dopo, nel 1859, i Savoia, stavolta alleati con la Francia, sfidarono di nuovo gli Asburgo nella II guerra di indipendenza, ottenendo la Lombardia.


[4] In effetti i croati erano stati uno dei popoli più fedeli agli Asburgo durante la grande burrasca quarantottesca. Il vincitore dei ribelli ungheresi, generale Jelacic, era croato.


[5] Si tratta del verbale del consiglio dei ministri del 12 novembre 1866. Di certo, da quell’anno in poi, mutò l’atteggiamento delle autorità austriache verso i sudditi italofoni. Ma arrivare a conclusioni perentorie citando e decontestualizzando un singolo documento mi sembra fuori luogo. Nel 1875 Francesco Giuseppe, in visita a Zara, si espresse in italiano (il Kaiser parlava fin da piccolo le lingue di ognuno degli undici popoli presenti nell’Impero). Strano modo di attuare un “genocidio degli italiani” (cit. di alcuni testi nazionalisti)


[6] In occasione della I guerra mondiale, da Venezia-Giulia e Istria, si arruolarono volontariamente nell’esercito italiano circa 2000 uomini, ma questa cifra comprendeva anche diversi dei numerosi italiani regnicoli che emigrati per lavoro entro i confini dell’Impero. La stragrande maggioranza servì lealmente la causa asburgica.





[7] Episodi da analizzare però nel clima esagitato dell’estate del 1920. Pochi giorni prima erano stati uccisi, a Spalato, ad opera  di alcuni slavi non identificati, due marinai italiani.


[8] Il movimento irredentista, per quanto minoritario, fu abbastanza eterogeneo. Non tutti gli irredentisti, che per lo più erano giovani studenti e borghesi, spesso legati alla massoneria, aderirono poi al fascismo, nonostante che questo sfruttò l’eredità dei sentimenti irredentistici e si presentò come l’erede di tale realtà.


[9] cifra, come sempre in questi casi, difficile da confermare come da smentire.


[10] Paradossi terminologici: contestando la versione accettata dalla maggior parte degli storici, e fatta propria dalle istituzioni, questi studiosi di fatto si pongono (legittimamente)nell’alveo del revisionismo. Eppure sono loro stessi che continuano ad usare questo termine attribuendogli un’accezione negativa, di mistificazione.


[11] E’ difficile, in effetti, fornire cifre affidabili. Probabilmente l’unica cosa che può fare il divulgatore storico è citare le varie possibilità e rimandare alle fonti. Secondo la maggior parte degli studiosi le vittime delle foibe vanno da un minimo di alcune migliaia fino a ventimila se non più; secondo altri sono nell’ordine delle centinaia. Le ricerche dei primi, stando a quanto affermano i secondi, considerano vittime dei titini anche i caduti in guerra poi seppelliti nelle fosse comuni (es. la foiba di Basovizza, nei paraggi della quale alla fine di aprile si combatté una cruenta battaglia), i soldati dati per dispersi e poi tornati negli anni successivi al ’45 e altri casi particolari.





Bibliografia di base


-Dall’Impero austro-ungarico alle foibe, AA.VV, Bollati Boringhieri


 -Popolazioni dell’Istria, Fiume, Zara e Dalmazia (1850-2002), Mileta, A.D.E.S   


 -Austria e province italiane 1815-1918. Potere centrale e amministrazioni locali, Valsecchi e Wandruszka (a cura di) Il Mulino  


-L’Italia oltre confine, Gayda,    Bocca 


-La foiba dei miracoli. Indagine sul mito dei sopravvissuti Pol Vice, Kappa Vu


-Operazione “Foibe” Tra storia e mito, Cernigoi, Kappa Vu


-Perché le foibe: gli eccidi in Venezia Giulia e in Dalmazia (1943-1950), Toth, Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia


-Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia-Giulia e dell’Istria, Oliva, Mondadori


-L’Italia e il confine orientale 1866-2006, Cattaruzza, Il Mulino


-Storia di Dalmazia, Praga,  Cedam


-Italiani di Dalmazia, Monzali, Le Lettere


-Prigioniero di Tito. Rossi Kobau, Mursia



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