venerdì 12 ottobre 2012

La Civiltà Cattolica anno XXV, serie IX, vol II (fasc 573, 22 aprile 1874) Firenze 1874 pag. 290-301.R.P. Matteo Liberatore S.J. LA DOTTRINA DI S. TOMMASO CONFUTATRICE DELLA DOTTRINA DEL KANT

 

I.

La parte più notabile del libro del sig. Schaezler si è quella in cui si dimostra l'attitudine della dottrina di S. Tommaso a confutare la filosofia di Kant.
Tutti gli errori che viziano presentemente gli ordini specolativi e pratici della moderna società, massimamente in Germania, traggono origine dalla perversa filosofia, onde le menti sono oggidì guaste e turbate. Le stesse scienze sacre altamente se ne risentono; delle profane non è da dire. Or di questa corrotta filosofia de' tempi nostri l'antesignano e quasi protoparente è Kant, salutato perciò qual nuovo Socrate dell'èra moderna. Da lui si derivano e in lui hanno capo tutti i più pestiferi sistemi, che in tanta copia moltiplicaronsi e che dagli ordini speculativi trapassarono poscia ad infettare gli ordini pratici. Indarno dunque si spererà efficace rimedio agli altri mali, se prima non si svolga dalle ime barbe questa lor velenosa radice. L'impresa è ardua, atteso il pervertimento, ornai sì diffuso, del pubblico insegnamento, e la profonda piaga che è già prodotta nei cuori. Nondimeno essa non è disperata, se quelli a cui scalda il petto zelo di religione e di salute per l'umano consorzio, sapran valersi de' mezzi che la divina provvidenza tuttavia ci somministra. A combattere la falsa scienza convien contrapporle la vera. Or noi abbiamo questa vera scienza ; e l'abbiamo negli ammirabili volumi di S. Tommaso d'Aquino, appellato perciò l'Angelo delle scuole. La sua dottrina serve mirabilmente ad abbattere gli errori del sofista alemanno; come egregiamente vien provato dal dottissimo autore di quest' operetta [1].
Noi crediamo far cosa grata ai nostri lettori se sulle tracce di lui li tratterremo alquanto in tale dimostrazione. Il che massimamente dee gradire agl'Italiani; vedendo che la gloria di poter dissipare le tenebre addensate dalla falsa scienza è stata da Dio conceduta ad un loro concittadino. Oltre a che una peculiare opportunità può per essi scorgersi in questo, che tra gli altri danni, recatici dal dominante liberalismo, è precipuo quello di avere infettati i nostri Licei e le nostre Università coi dommi appunto di Kant e degli altri sofisti, che perfezionarono la sua dottrina. .

II.

L'indole della filosofia Kantiana consiste principalmente nell'aver capovolto l'ordine, per innanzi riconosciuto, dell'umana conoscenza, convertendo in subbiettiva la norma obbiettiva della medesima. Ciò è confessato ingenuamente dallo stesso Kant nella prefazione alla sua Critica della ragion pura. «Finora (così egli scrive) si è creduto che la nostra cognizione dovesse conformarsi agli oggetti; e che però in essi oggetti ella avesse la sua misura o norma, che voglia dirsi. Per fermo, ammesso ciò, inutilmente si saria procurato, in ordine ad essi oggetti, di stanziare alcuna cosa a priori, in virtù propriamente di quei concetti, da cui la nostra conoscenza viene ampliata. Si tenti dunque se questo compito della Metafisica si ottenga meglio, stabilendo l'opposto, cioè che gli oggetti da noi conosciuti hanno la loro misura e la loro norma nella stessa nostra cognizione: il che si concilia meglio col postulato della possibilità della conoscenza a priori, vale a dire d'una conoscenza, la quale definisca alcuna cosa intorno ai proprii obbietti, prima che essi a noi si presentino. In questa faccenda accade quasi lo stesso, che a Copernico, allorchè concepì la prima idea del suo nuovo sistema. Vedendo egli che non gli riusciva bene l'opera intrapresa di spiegare i moti celesti, supponendo che tutto l'esercito delle stelle si movesse intorno a lui, stando egli immobile a contemplarle; sperimentò se forse meglio non gli avvenisse, stabilendo e converso che il contemplatore si movesse in giro, ma le stelle permanessero immote.»
Prima di procedere oltre, ci piace notare quanto male a proposito sia recato da Kant un tal paragone. Copernico a buon diritto potè cambiar supposizione, perché veramente nella precedente ipotesi riusciva inesplicabile il movimento dei corpi celesti. Ma può Kant asserire il medesimo del fatto suo? In tanto il può dire, in quanto egli prende per filosofia anteriore la dottrina di Locke. Volendo costui che tutte le nostre idee non derivassero se non dalla riflessione sopra i dati sensibili, ogni conoscenza a priori diveniva impossibile. Non così nella teorica di S. Tommaso, in cui gl'intelligibili sono le quiddità delle cose, che ne' sensati si rivelano al solo intelletto, sotto la luce intellettuale, infusaci nella mente da Dio. Esse, non sono obbietto di sensazione, nè prodotto di sensazione; sono obbietto proprio dell'intelletto, distinto al tutto da quello del senso; come obbietto della vista è il colore, diverso onninamente dal sapore, che è obbietto del gusto. Kant ignorò affatto cotesta teorica; e però il suo discorso è fondato pienamente sull'ignoranza.
L'esempio del Copernico, se ha qui qualche senso, l'ha piuttosto contro di Kant. Perocchè essendo riuscito quel suo principio a pessime conseguenze, in quanto in vece di spiegare ha distrutta la realità dell'umana conoscenza, ogni ragione consiglia di abbandonarlo, e sostituirgli il principio opposto. Se ben si riguarda, il sistema Kantiano si rassomiglia moltissimo all'ipotesi di Tolomeo; giacchè stabilisce immobile il conoscente, siccome norma del conoscibile, e mobili i conoscibili, siccome misurati dal conoscente. Il sistema contrario e converso ha sembianza dell'ipotesi Copernicana; in quanto stabilendo come norma della conoscenza le quiddità immutabili delle cose, dà immobilità al conoscibile, e mobilità al conoscente. Ma sia questa come una digressione, e torniamo all'assunto.
Traslocata così dall'oggetto nel soggetto la norma nelle nostre cognizioni, il Kant espone nel seguente modo la ricerca da farsi in filosofia, per definire l'origine e la realità di quella. «In tutti i giudizii di relazione tra un predicato ed un soggetto, in due modi può affermarsi una tal relazione; e ciò che consideriamo de' giudizii affermativi, si applica senza difficoltà ai giudizii negativi. Questi due modi sono: o che il predicato B appartiene talmente al soggetto A, che s'inchiuda nel suo concetto, benché latentemente; o che il detto predicato B sia fuori del concetto del soggetto A, benchè si trovi con esso congiunto. Nel primo caso il giudizio si appella analitico, nel secondo sintetico. I giudizii dunque analitici son tutti quelli, in cui la congiunzione del predicato col soggetto involge identità; e per contrario ogni qual volta una tal congiunzione si pensa senza identità, il giudizio è sintetico. I primi possono a diritto chiamarsi giudizii esplicativi; i secondi accrescitivi. Imperocchè gli uni congiungendo il predicato col soggetto non aggiungono nulla al concetto di questo, ma piuttosto lo sciolgono in elementi; che già, sebbene confusamente, erano conosciuti, perchè in esso inchiusi. Gli altri giudizii, per opposito, al concetto del soggetto aggiungono tal predicato, che in esso non era contenuto in nessun modo; e però non era ancor conosciuto, neppure implicitamente; e quindi non poteva esserne cavato per analisi [2].» Ciò posto, propone così il quesito: «Ciò dunque che propriamente deve risolvere la ragion pura, è racchiuso in questa quistione: Come son possibili i giudizii sintetici a priori»; dei quali è piena la scienza.
Cotesti giudizii sono una vera fantasia del Kant; giacchè giudizii sintetici a priori non si dànno. Oltre i giudizii analitici, che costituiscono i primi principi della ragione; tutti gli altri giudizii, che aggiungono al soggetto un predicato non identico col medesimo, o sono raccolti per esperienza o sono dedotti per raziocinio. Kant dunque propone alla sua Ragione pura la ricerca d'una chimera. Ma ciò sia detto di passaggio, Quel che riguarda il presente proposito, si è l'osservare, come giustamente fa lo Schaezler, che il quesito di Kant si riduce a cercare: Come l'intelletto umano possa fare che sia vera la conoscenza che ha degli obbietti. In altri termini: Come per virtù dell'intelletto umano le cose da lui conosciute abbiano le stesse qualità, i cui predicati egli loro attribuisce. Il che torna a dire: Come l'intelletto umano cavi dal proprio fondo tutte le sue conoscenza. Ciò racchiude il più orribile soggettivismo; perchè fa la mente umana autrice e fonte della verità; la verità non sarà altro che un prodotto dell'anima. Ed è questo il punto cardinale di tutta la filosofia, appellata Germanica; la quale è tutta fondata in questo pronunziato Kantiano: Che principio e norma della nostra cognizione non sia altro che il nostro intelletto medesimo. Di qui al panteismo soggettivo di Fichte ed obbiettivo di Schelling o all'impasto dell'uno coll'altro, fatto da Hegel, il passo era brevissimo.
E tanto più a un tal passo veniva stimolato l'animo umano, in quanto che nella teorica Kantiana la nostra cognizione non solo non oltrepassa i limiti dell'esperienza, ma nell'esperienza stessa non apprende che le pure apparenze, rimanendoci ignote le cose, secondo che sono in loro stesse. Ecco uno de' suoi testi, abbastanza espliciti. «Volemmo dunque dire che ogni nostra intuizione è solo rappresentanza di qualche apparenza. Vale a dire che le cose non sono in sè tali, quali noi le apprendiamo; e per conseguenza le loro relazioni differiscono da quelle che ci appariscono. E però se rimovessimo il. nostro subbietto, ossia noi stessi, o anche soltanto la qualità soggettiva de' nostri sensi, immantinente tutte le qualità e tutte le relazioni degli obbietti nello spazio e nel tempo, anzi lo stesso spazio e lo stesso tempo, perirebbero; giacchè esistono non in sè stesse, ma solo in quanto sono fenomeni, ossia in quanto vengono apprese da noi. Come poi esse cose sieno in loro stesse, e indipendentemente da ogni capacità ricettiva della nostra sensibilità; noi lo ignoriamo del tutto. Noi non conosciamo nulla, oltre il modo di percepir tali cose; modo, dico, proprio di noi e che non compete necessariamente ad ogni ente, benchè competa ad ogni uomo [3].» Ognuno intende da sè come, stabilito un tal principio, cada per terra ogni legittima e quantunque si voglia rigorosa dimostrazione del vero, ed ogni obbiettiva certezza de' nostri giudizii. Per solide che sieno le tue prove, l'avversario potrà sempre risponderti che esse non son fondate nell'obbiettiva verità della cosa, ma nel tuo modo di concepirle. Ciò non solo nell'ordine specolativo, ma anche nell'ordine pratico e morale. Le conseguenze si manifestano da loro stesse. Ogni certezza svanirà dalle nostre cognizioni. Il vero non sarà che relativo, non assoluto. Ed ecco l'origine del principio moderno: Delle proprie convinzioni, e dello scetticismo, che tanto lacera il petto delle presenti generazioni.

III.

La dottrina di S. Tommaso è il contrapposto della dottrina dì Kant. S. Tommaso stabilisce che la nostra conoscenza ha ragione di misurato non di misura; e che misura prossima della medesima è l'essere delle cose. Chi dice il contrario non distingue la cognizione speculativa dalla cognizione pratica; e, rispetto alle cose create, attribuisce alla scienza umana ciò che è proprio della scienza divina. Dio è artefice delle cose che compongono l'universo. La sua scienza è causa e misura della lor verità; giacchè esse in tanto son quel che sono, in quanto son conformi agli archetipi della mente divina. Noi all'opposto siamo semplici contemplatori della natura; e però da essa la mente nostra vien regolata ne' suoi giudizii. Ascoltiamo il S. Dottore:
«Le cose, egli dice, altramente si riferiscono all'intelletto pratico, ed altramente all'intelletto specolativo. Imperocchè l'intelletto pratico cagiona le cose; onde è misura delle medesime. Ma l'intelletto specolativo, poichè prende dalle cose la sua conoscenza, è in certa guisa mosso dalle medesime; e però le cose misurano lui. Onde si fa manifesto che gli esseri della natura, dai quali l'intelletto nostro riceve la scienza, son misura dell'intelletto nostro; ma son misurati dall'intelletto divino, in cui rilucono tutti i creati, come gli artefatti nella mente dell'artefice. Cosi dunque l'intelletto divino è misurante non misurato; l'essere della natura è misurante, ed è misurato; ma l'intelletto nostro è misurato, non è misurante, rispetto alle cose della natura; benchè sia misurante, rispetto alle cose dell'arte. L'essere dunque della natura, costituito tra i due intelletti, si dice vero per conformità con entrambi. Si dice vero per conformità all'intelletto divino, in quanto risponde al concetto, che da esso intelletto divino ne fu formato. Si dice poi vero per conformità all'intelletto nostro, in quanto è nato fatto a produrre in noi la vera conoscenza di sè medesimo. Se non che quella prima ragione di verità appartiene alle cose più principalmente che non la seconda: perchè prima è il riferimento all'intelletto divino, e poscia all'umano. Onde se l'intelletto umano non fosse, le cose nondimeno si direbbero vere per ordine all'intelletto divino [4]
Per ciò stesso, che misura prossima della conoscenza nostra è l'essere delle cose da Dio create, consèguita che misura ultima e mediata della medesima sia la verità della mente divina. Imperocchè dalle idee archetipe del divino intelletto è misurato l'essere delle creature; le quali, come dicemmo, in tanto son quel che sono, in quanto si conformano ai tipi eterni della mente divina. «Questo altresì è documento di S. Tommaso. Quia veritas, quae est in intellectu, mensuratur a rebus ipsis, sequitur quod non solum veritas rei, sed etiam veritas intellectus, vel enunciationis, quae intellectum significat, a veritate prima denominatur [5]
Onde Dio propriamente è il maestro dell'uomo, benchè lo erudisca mediante l'universo da lui creato; e una è la norma suprema e il fonte primo di ogni vero: la verità divina; di cui, come in altrettanti specchi, risultano nelle menti nostre le svariate similitudini, mediante i raggi, che le creature, a cui siamo volti, ne riverberano in noi. Onde, al trar de' conti, la stessa verità divina è quella, secondo cui fontalmente giudichiamo delle cose. Veritas, secundum quam anima de omnibus iudicat, est veritas prima. E così si verifica che l'intendimento divino è misura e cagione di ogni altro essere e di ogni altro intendimento. Suum intelligere(quello cioè di Dio) est mensura et causa omnis alterius esse et omnis alterius intellectus [6].

IV.

Se non che in qual modo le cose son misura e regola della nostra conoscenza? In quanto son tipo e cagione della medesima, mediante le rappresentanze ideali, che la mente riceve da loro, e che attuandola la determinano ad uscire ne' suoi svariati concetti. Quia accipit a rebus (l'intelletto nostro) est, quodammodo motus ab ipsis rebus, et ita res mensurant ipsum[7]». Ed altrove: Similitudo rei naturalis, in nostro intellectu concepta, comparatur ad rem, cuius similitudo existit, ut ad suum principium [8]. Ed altrove: Res ex specie, quam habet, divino intellectui adaequatur, sicut artificialia arti; et ex virtute eiusdem speciei nata est sibi intellectum nostrum adaequare, in quantum per similitudinem, receptam in anima, cogntitionem de se facit [9].
La conoscenza intellettuale non può da noi ottenersi, se non in quanto la mente nostra riceva in sè le rappresentanze intelligibili delle cose, o idee che vogliam dire. E questa è la perfezione propria dell'ente conoscitivo, il poter accogliere senza detrimento della sua natura le forme delle altre cose da sè distinte: Cognoscens actu fit cognitum in actu. In tal ricezione l'intelletto è paziente, riguardo agli oggetti; benchè sia poi attivo, quanto alla percezione, che ne conseguita, dei medesimi. L'intelletto è come uno specchio in cui si riflette l'essere delle cose; ma specchio vivente, e vivente di vita intellettuale. Accoglie in sè spiritualmente le simiglianze ideali, e in esse percepisce l'oggetto che vien per le medesime rappresentato.
Imperocchè vuol qui diligentemente avvertirsi che, secondo la dottrina di S. Tommaso, le rappresentanze intellettuali non sono ciò che l'intelletto intende, nella sua operazione diretta, ma sono il mezzo per cui intende: Non sunt id quod intelligitur, sed id quo intelligitur. Ciò che direttamente s'intende, sono le cose stesse; di cui l'intelletto riceve in sè le ideali rappresentanze.
«Alcuni stabilirono (son parole del S. Dottore) che le nostre virtù conoscitive non conoscono, se non le proprie modificazioni; a cagion d'esempio il senso non sente se non la modificazione dell'organo. E secondo ciò l'intelletto non intende, se non la sua affezione, vale a dire la rappresentanza intellettuale, in sè accolta; e secondo ciò cotesta rappresentanza è quello, che viene inteso. Ma siffatta opinione manifestamente è falsa per due ragioni. La prima è che quelle stesse cose intendiamo, intorno a cui versano le scienze. Se dunque ciò che intendiamo, fossero le rappresentanze ideali, che sono nello spirito, ne seguirebbe che tutte le scienze non verserebbero nelle cose che sono fuori dell'anima, ma solo nelle rappresentanze in lei inerenti; siccome, giusta i platonici, tutte le scienze son delle idee, che essi ponevano come intese attualmente. La seconda ragione è, che ne seguirebbe l'errore degli antichi, i quali dicevano esser vero tutto ciò che sembra, e conseguentemente che i contraddittorii siano veri ad un tempo. Imporocchè se la facoltà conoscitiva non apprende, se non la propria affezione, di essa soltanto giudica. Or l'affezione è così o così, secondo che la facoltà conoscitiva è disposta. Il giudizio dunque della facoltà conoscitiva riguarderà sempre l'oggetto in tale condizione, e però sarà sempre vero.» Quindi conchiude. «E però è da dire che la rappresentanza intellettuale non è ciò che s'intende, ma ciò per cui s'intende [10]
Ognun vede come queste dottrine rovesciano da capo a fondo la teorica Iiantiana. Alla conoscenza è data una base obbiettiva, cioè l'essere stesso delle cose. E questa base ha il suo fondamento nella stessa verità del divino intelletto. Il subbiettivismo è pienamente atterrato. È atterrato eziandio lo scetticismo; giacchè non le apparenze, ma la realità obbiettiva è il termine immediato della nostra cognizione diretta.

V.

Kant vide acutamente che le cose non hanno nell'intelletto lo stesso modo di esistere, che hanno in loro stesse. Nell'intelletto sono universali, in loro stesse singolari. Quindi inferì che noi non percepiamo le cose, ma le loro rappresentanze, e che queste sono in noi a priori. Egli cadde nello stesso errore di Platone; il quale diè per obbietto nella nostra cognizione le forme astratte in sè sussistenti delle cose, perchè opinò che il modo di esistere del conoscibile dovesse esser lo stesso, che il modo ond'esso vien conosciuto. Ciò è falso: Ex hoc in sua positione erravit, quia credidit quod modus rei intellectae in suo esse, sit sicut modus intelligendi rem ipsam [11].
Altro è la cosa, altro il modo di esistere della cosa. La cosa può essere percepita dall'intelletto, prescindendo dal modo, onde sussiste. Ciò si avvera in qualche modo eziandio del senso. La vista apprende il colore che si trova in un pomo, senza apprendere il sapore con cui si trova congiunto. La ragione si è perchè ogni facoltà non apprende che il proprio oggetto, e oggetto della vista è il colore, non il sapore. Lo stesso avviene della fantasia, in virtù della quale immaginiamo la figura di un corpo, a cagion d'esempio, la sfera, senza apprendere la materia di cui è composta. Or soggetto dell'intelletto è la quiddità in quanto tale, non la sua individuazione; e la quiddità, astrazion fatta dalla individuazione, è universale.
Nè in tale apprensione l'intelletto incorre alcuna falsità; perchè non afferma l'universalità della cosa, che percepisce, ma solo prescinde dalla sua individualità; il che si tiene dalla parte dell'intelletto e non ha che far colla cosa. Ea, quae pertinent ad rationem speciei cuiuslibet rei materialis, puta lapidis aut hominis, possunt considerari sine principiis individualibus, quae non sunt de ratione speciei. Et hoc est abstrahere universale a particulari vel speciem intelligibilem a phantasmatibus, considerare scilicet naturam speciei, absque consideratione individualium principiorum, quae per phantasmata repraesentantur. Cum ergo dicitur quod intellectus est falsus qui intelligit rem aliter quam sit, verum est, si τὸ aliter referatur ad rem intellectam. Τunc enim intellectus est falsus, quando intelligit rem esse aliter quam sit. Unde falsus esset intellectus, si sic abstraheret speciem lapidis a materia, ut intelligeret eam non esse in materia, ut Plato posuit. Non est autem verum quod proponitur, si τὸ aliter accipiatur ex parte intelligentis. Est enim absque falsitate ut alius sit modus intelligentis in intelligendo, quam modus rei in essendo; quia intellectum est in intelligente immaterialiter per modum intellectus, non autem materialiter per modum rei materialis [12].
Ecco d'onde nasce il carattere di universalità delle nostre conoscenze intellettuali. Nasce dall'astrazion della mente, per cui si apprende la quiddità o essenza della cosa da sè, prescindendo dalla sua individuazione. Quinci ancora sorge il carattere di necessità; giacchè l'essenza, in quanto tale, è immutabile; siccome copia d'un originale immutabile, qual è l'idea divina. La mutabilità delle cose si tiene da parte della loro esistenza. Esse nascono e periscono, cioè acquistano o pèrdono la loro esistenza; ma acquistando o perdendo questa esistenza, la loro essenza, in quanto tale, non si tramuta. La pianta è sempre un organismo che vive; l'animale un vivente che sente; l'uomo un essere che vive, sente e ragiona. La universalità dunque e la necessità delle nostre conoscenze a priori non richiedono di sgorgare, come inettamente vorrebbe il Kant, dall'animo; il quale, per essere singolare e contingente, non potrebbe esserne fonte; ma si spiegano ottimamente dalla qualità dell'oggetto, racchiuso nelle nostre rappresentanze ideali, il quale è la quiddità o essenza delle cose, riguardata per sè medesima.
Sarebbe ora a spiegare in che modo, secondo S. Tommaso, le rappresentanze ideali ci provengano da' sensati, in virtù del lume dell'intelletto agente, infusoci da Dio. Ma perciocchè questo punto non può esaurirsi in poco, ci riserbiamo a trattarne con apposito articolo. Per ora ci basti di aver fermato, come la dottrina di S. Tommaso abbatte quella di Kant ; stabilendo contro i principii fondamentali di essa: 1° che misura e norma della conoscenza nostra non è l'intelletto stesso colle sue forme a priori, ma è l'essere delle cose che ci si manifesta, sotto il lume della ragione. 2° Che obbietto della nostra conoscenza diretta non sono le rappresentazioni ideali, ma le cose stesse da noi distinte. 3° Che i caratteri di universalità e necessità competono ai nostri concetti; in quanto esprimono l'essenza, intesa da sè, prescindendo dalla sua concreta esistenza.

NOTE:

[1] Divus Thomas Doctor angelicus contra Liberalismum invictus veritatis catholicae assertor. Scripsit Constantinus Schaezler. Romae 1874.
[2] Introduzione, IV. Non si maravigli il lettore se in questi tratti il linguaggio di Kant sembra chiarissimo; perchè primieramente non sempre egli è oscuro; in secondo luogo poi, noi nel tradurli ci siam tenuti più al concetto che alle parole, per renderli più intelligibili al lettore.
[3] Considerazioni generali sull'estetica trascendentale.
[4] Qq. Disp. Q. I. De Veritate a. 2.
[5] Qq. Disp. Q. I. De Veritate a. 5.
[6] Summa th. 1. p. q. 16. a. 5. Qui giustamente lo Schaezler nota per incidenza, come da questo lato apparisce subito la superiorità della dottrina rivelata a petto della scienza, che l'uomo può acquistare per sè medesimo, in quanto la dottrina rivelata procede direttamente da Dio; laddove la scienza naturale procede da lui indirettamente, cioè per mezzo delle cose create. «Questa teorica, egli dice, e del tutto necessaria a ben intendere sì la eccellenza della fede cristiana, e sì la ragione; per cui l'uomo deve conformare alla verità della fede la sua natural conoscenza, e tutta la sua scienza; sicchè niente ammetta per vero, che alla fede in qualsivoglia modo contrasti. Imperocchè l'eccellenza della fede cristiana sopra la cognizione naturale, è fondata in ciò che la fede assolutamente si appoggia alla verità prima come a mezzo di conoscenza; laddove la cognizione naturale non è misurata dalla prima verità, se non rimotamente e mediatamente.
[7] Luogo citato.
[8] Contra Gentiles, I. IV, e. 44.
[9] Qq. Disp. Q. I. De Veritate a. 2.
[10] Summa th. 1. p. q. 85, a. 2.
[11] In Im Metaphys. lect. X.
[12] Summa th. 4. p. q. 85, a. 1. ad 4.