venerdì 5 ottobre 2012

Biografie tratte dal volume "I grandi atleti del trono e dell'altare", del Barone Alessandro Augusto Monti della Corte (Vittorio Gatti Editore, Brescia 1929): Luigi de Bonald, la società influenza l'uomo



Il Visconte Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald (Millau, 2 ottobre 1754Millau, 23 novembre 1840)


Quando si citano i maggiori campioni della Monarchia e della Chiesa, al nome illustre di Giuseppe De Maistre si unisce sempre quello, anch'esso insigne, di Luigi de Bonald. E tale ravvicinamento è più legittimo di quanto a volte non siano siffatti binomi, passati all'uso letterario e storico, senza tante minuzie di controllo e di critica.
Giacché suole accadere assai di rado che l'opera di due grandi scrittori pure differentissimi tra loro, perché provveduti ciascuno di una personalità marcatissima, si completi e si compenetri in modo così perfetto ed armonico; e questo senza che si possa riscontrare nell'uno o nell'altro di essi alcuna parvenza di imitazione o di plagio. Ciò è possibile infatti soltanto quando due spiriti acuti e chiarissimi posti di fronte allo stesso problema, ne danno entrambi la stessa soluzione, dimostrando in tal modo come questa sia l'unica plausibile e giusta.
Eppure, come ho detto da principio, de Maistre e de Bonald non si somigliano affatto: paradossale, audace, brillante, sintetico il primo: analitico, metodico, severo, posato, il secondo. Vissuto assai più a lungo del Conte savoiardo, il Visconte francese vide le sue dottrine consacrate dalla Restaurazione trionfante, e non gli mancarono in vita le cariche e gli onori. Ma dall'oblio e dalla critica partigiana e malevola ebbe, dopo la morte, maggiormente a soffrire.
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Luigi - Gabriele - Ambrogio, Visconte de Bonald nacque nel 1734, non lungi da Milhau nell'Arveyron, da una di quelle austere famiglie della vecchia nobiltà provinciale che meglio dell'aristocrazia cortigiana — troppo leggera e gaudente e non immune dalla malattia filosofica del secolo — avevano saputo conservare, alla vigilia dell'89, le buone tradizioni della classe laboriosa e guerriera che stretta intorno alla Monarchia dei Borboni, aveva pazientemente costruito l'edificio dello Stato francese.
Gli antenati del giovane Bonald avevano tutti servito il Sovrano nella magistratura o con le armi e anch'egli, secondo il costume diffuso nelle provincie meridionali della Francia — così profondamente segnate dall'impronta romana — seguì dapprima gli studi di diritto, nel famoso collegio di Juilly. Ma poi, tratto dall'ardore dell'età a preferire la carriera militare, più movimentata e brillante, volle arruolarsi nei Moschettieri Reali e vi rimase fino alla soppressione del Corpo, avvenuta nel 1775. Deposti allora, non senza rimpianto, la spada ed il tricorno gallonato, il giovane ufficiale si decise a vestire la toga, e grazie alla influenza del casato ed alle chiare doti personali ottenne presto una carica importante. Ma sopraggiunse la Rivoluzione a disfare gli antichi ordinamenti. Costretto ad emigrare dal Terrore, Luigi de Bonald si rifugiò in Germania, e in Heidelberga, dove ebbe a stabilirsi, insieme ad altri profughi francesi, prese la penna in difesa dell’ordine e della conservazione sociale, e scrisse quella Théorie du pouvoir politique et religieux che è forse la sua opera migliore.
Frattanto in Francia Napoleone Buonaparte era salito al seggio consolare e preparava le vie dell’impero, pacificando e fiaccando le fazioni, assicurando la tranquillità dei cittadini, permettendo l'esercizio del culto. Di origini aristocratiche egli stesso — ciò che troppo spesso dimentica la storia su cui si forma l’opinione corrente — e sprezzatore sdegnoso del volgo. l'avventuroso Cesare italiano teneva soprattutto ad ingraziarsi la vecchia nobiltà, e apriva le frontiere agli emigrati. Luigi de Bonald, che aveva moglie e figlioli, doveva pensare anzitutto a sottrarli alle miserie della vita randagia, e fece violenza alle proprie convinzioni accettando di servire l’Usurpatore.
Rientrato in patria assunse infatti la carica di Consigliere di Università, ma si tenne lontano il più possibile dalla politica attiva, finché la Restaurazione borbonica, coronando i suoi sogni più cari, non gli permise di prendere un posto di avanguardia fra i difensori della buona causa. Eletto deputato nel 1815, sedette all'Estrema Destra della Camera, sicché ben presto fu considerato come il maestro ed il rappresentante più autorevole dei monarchici e dei cattolici puri.
Nel 1823 fu elevato alla Paria e tutte le leggi intese a rafforzare il prestigio della Monarchia e della Chiesa lo ebbero promotore e sostenitore fervente. Dopo la rivoluzione del ‘30 non volle più sedere in Parlamento, e si dedicò interamente ai suoi studi, prendendo parte attiva ai lavori dell'Accademia di Francia, alla quale apparteneva fino dal 1816.
Morì nel 1840, a ottantasei anni.
Oltre alla Teoria del potere, della quale ho parlato, abbiamo del Bonald vari trattati di filosofia [nei quali cadde in un errore, non essendo versato in questa disciplina, NdR] e di politica e molti opuscoli storici e letterari: La legislazione primitiva, le Ricerche sui principali oggetti delle conoscenze morali, le Miscellanee letterarie, le Osservazioni sull'opera di Condorcet, l’Amministrazione particolare, ecc.
Il punto di partenza, la premessa essenziale di tutta la dottrina bonaldiana consiste in una formula eminentemente realistica: la società fa l'uomo.
Quindi tutti i tentativi di organizzare il mondo secondo una teoria preconcetta ed astratta — secondo giustizia e secondo ragione — sono destinati a fallire dopo avere sovvertito e scompaginato gli Stati sottoposti a siffatti esperimenti.
"Ben lungi dal perfezionare la società l'uomo non può che impedirle di perfezionarsi o, per dir meglio, non può che ritardare lo sviluppo dei rapporti necessari, il cui insieme da luogo alla costituzione dello Stato, volendo stabilire nella società rapporti assurdi, prodotti della sua volontà distruttrice, ed imposti per forza".
"Gli è che l'uomo sociale si corrompe da sé stesso, volendo costituire la società; mentre la società forma l'uomo e lo regola quando si costituisce da sola".
Ora è evidente che se le Costituzioni non derivano dall'iniziativa degli uomini, il potere legittimo dev'essere esterno alla società, cioè trascendente. Esso quindi non si può far risiedere nel consenso dei singoli individui, e la sovranità va cercata all’infuori degli uomini: nella natura stessa delle cose e degli esseri....
"La volontà generale della società non è la somma delle volontà particolari, bensì la natura dei suoi componenti".
"La volontà generale — o la natura — fa le leggi nelle società costituite; la volontà particolare dell’uomo le immagina nella società non costituite".
Questa "volontà generale" del Bonald è ben diversa da quella del Rousseau: non è, come abbiamo detto, quello che lutti vogliono, ma quello che e voluto nel nome e nell'interesse di tutti.
"La democrazia suppone falsamente che la volontà di tutti sia o rappresenti la volontà generale, e non vede che la volontà di tutti, anche unanime, non è che la somma delle volontà individuali; volontà umane e quindi essenzialmente corrotte e distruttrici" .
La Monarchia stessa, secondo il Maestro, non basta. Bisogna, per non cadere nel dispotismo, che il Re eserciti il potere nel nome delle necessità generali; egli non è che l’interprete di una sovranità superiore, in altre parole: divina.
Il regime perfetto consta di tre elementi: la Volontà, il Potere e la Forza; cioè la Natura, che è opera di Dio, il Re legittimo, ed i suoi Ministri.
Questa concezione societaria del Bonald che nega in pieno l'individualismo ad oltranza della teoria liberale, trova la sua espressione naturale, non soltanto sul terreno politico, ma anche su quello più propriamente religioso.
La religione non è un fatto privato, limitato alla coscienza dei singoli; è un fatto pubblico, d'interesse comune.
"Altri — egli scrive — si sono contentati di difendere la religione dell'uomo; io difendo la religione della società".
Occorre dire che questa religione, organizzata simmetricamente allo Stato, non possiamo trovarla che nella Chiesa Cattolica?.,.. Le altre sono sètte, conventicole, raduni che dividono il gregge dei fedeli e lo lasciano errare alla ventura; solo quella romana è una religio: unisce, lega, regola.
Lo Stato mantiene la disciplina dei corpi; la Chiesa impone quella degli spiriti; e insieme, rafforzandosi a vicenda, assicurano l’ordine perfetto.
Teoria questa terribilmente indigesta per i demagoghi laici ed ecclesiastici che vanno in bestia e perdono le staffe non appena la sentono enunciare, appunto perché sanno che essa forma la pietra angolare del grande edificio gerarchico che essi si sforzano di smantellare e di abbattere.
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Ecco alcuni pensieri del Bonald. già tradotti da Domenico Giuliotti nella sua troppo breve Antologia degli scrittori cattolici francesi.
Sono giudizi e definizioni magistrali circa l’utopia democratica e la pretesa ridicola di quelli che vorrebbero instaurare sulla terra l'assoluta eguaglianza degli uomini.
"Ogni popolo che si crede sovrano mi sembra colpito dalla stessa vertigine e preso dalla stessa follia di quegli abitanti del manicomio che si paragonano a Dio. E la prova che l'orgoglio è un fenomeno di demenza anche fisica è che appunto i pazzi sognano quasi tutti il potere".
"Una falsa filosofia, dicendoci che ogni potere viene dal popolo, ne pone la sorgente nel focolare di tutti gli errori, di tutti i disordini, di tutte le incostanze; lo pone, per così dire, alla portata di ciascuno e ne fa il giuoco di tutte le passioni e la meta di tutte le ambizioni".
"Voi dite che la sovranità sta nel numero.... Volete dire che consiste nella forza numerica. Senonchè il potere che non ha altro principio che la forza è tirannide. E l’obbedienza che non ha altro principio che la coazione è schiavitù. Così è dimostrato, mi pare, che non vi sia altra libertà, nella democrazia, che di parole: e servitù di fatti".
"La democrazia è la malattia organica del corpo sociale".
E infine questa nobile sentenza che racchiude in pochissime parole tutto il programma di ricostruzione del cattolicismo integrale e ch'io propongo alla meditazione di quanti nel suggerire una soluzione autoritaria del problema politico e sociale non osano darne la sola giustificazione possibile, indiscutibile e certa che differenzia l'assolutismo cattolico da un'odiosa statolatria materialista:
"La rivoluzione è cominciata con la proclamazione dei diritti dell'uomo; non sarà distrutta che dalla proclamazione dei diritti di Dio".
II Servitore fedele e appassionato della Monarchia e della Chiesa, l'assertore efficace e intransigente delle grandi immortali Verità religiose e sociali, fu giustamente onorato nell'epigrafe che il Conte Marcellus dettò per Lui:
Hic iacet in Christo, in Christo vixitque Bonaldus
Pro quo pugnavit, nunc videt ipse Deum
Graecia miraturque suum iacetque Platonem
Hic par ingenio, sed pietate prior
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