lunedì 8 febbraio 2016

Il cattolicesimo inglese nell’età vittoriana. Prima parte: verso l’emancipazione

di Luca Fumagalli (Fonte: http://www.radiospada.org/ )
 
Sotto molti punti di vista il XIX secolo fu determinante per le fortune del cattolicesimo inglese. In questi anni infatti, dopo decenni di persecuzioni iniziate con l’Atto di supremazia di Enrico VIII nel 1534, con una Chiesa ridotta ovunque alla semi-clandestinità, molti accadimenti portarono alla definitiva emancipazione dei “papisti” (come i cattolici erano comunemente chiamati, con disprezzo, dai protestanti). Conseguentemente si giunse alla libertà di culto, alla sostituzione dei vicariati apostolici con vescovi diocesani e a un clero regolare sapientemente gerarchizzato. Allo stesso modo, in questa epoca, non si incontrano solo grandi  avvenimenti, ma soprattutto grandi personaggi, carismi unici che fecero la fortuna della Chiesa in Inghilterra. Uomini e donne, laici ed ecclesiastici, inglesi o immigrati irlandesi che, con i loro sacrifici e instancabilmente animati da quello spirito di carità proprio del Vangelo, riuscirono a ravvivare i centri di una Chiesa che, per la prima volta dopo la Riforma anglicana, riemergeva finalmente dalle catacombe. Non si parla però di una rinascita solo in senso strettamente religioso: a seguito dell’eliminazione delle restrizioni in ambito lavorativo, grandi personalità dell’antica fede, soprattutto nel periodo vittoriano (1837-1901), si distinsero infatti anche nella politica, nell’economia e nella cultura.
Il secolo si aprì con gli strascichi della Rivoluzione francese che fu un fattore di grande beneficio per il cattolicesimo inglese. Mentre in tutta l’Europa continentale la Chiesa veniva devastata dalla barbarie rivoluzionaria, molte delle scuole o dei collegi inglesi gestiti da ordini religiosi che da lungo tempo si erano stabiliti all’estero a causa della legislazione restrittiva, ritornarono in Inghilterra. Infatti i luoghi di istruzione superiore più accessibili per i cattolici britannici dopo lo scisma anglicano erano stati i collegi dei gesuiti di Douai e di St. Omer nella Francia settentrionale, nei pressi di Calais. Con l’espulsione della compagnia di Gesù da St. Omer nel 1762 e la soppressione dell’ordine nel 1773, il collegio di Douai aveva continuato ad andare avanti sotto la condotta del clero secolare, senza però grande successo.
La maggior parte dei sostenitori di un’istruzione gesuitica aveva trasferito i propri figli alla casa di Liegi, nota con il nome di Accademia inglese, dove i padri della soppressa compagnia continuavano la loro opera. Nel 1793, però, con il sequestro da parte dello stato francese di St. Omer e l’espulsione dei preti da Douai e da Liegi, gli studenti inglesi furono progressivamente rimandati a casa a partire dall’anno successivo. Questo fatto permise, per la prima volta dai tempi dello scisma, la progressiva ricostruzione di un tessuto di collegi cattolici solido e funzionale. Istituzioni lodevoli come Stonyhurst, New Hall e Oscott costituirono la base di partenza per la rinascita cattolica inglese che avvenne circa cinquant’anni più tardi.
Oscott
                                                                   Oscott
Allo stesso tempo, la brutalità del terrore francese aveva contribuito in Inghilterra a un clima di generale benevolenza nei confronti di qualsiasi denominazione cristiana e lo stanziamento dei profughi inglesi fu mascherato dall’enorme invasione del clero realista francese. Oltre cinquemila sacerdoti e diciannove vescovi si rifugiarono oltre la Manica. La loro influenza sulla vita cattolica dell’isola non fu però proporzionata ai numeri: fu fatto qualcosa per fondare missioni permanenti, ma poco per portare agli inglesi una conoscenza seria del cattolicesimo (del resto, dopo il Concordato del 1802, il loro numero decrebbe a poche centinaia). Purtroppo, a rendere ancora più complessa la situazione, un forte indirizzo gallicano era presente in una certa percentuale del clero emigrè e le relazioni fra i vescovi francesi e i vicari apostolici furono spesso tese, mitigate solamente da quelle figure come l’Abbé Carron e l’Abbé Voyaux de Franous che, grazie al loro lavoro pastorale, riuscirono a esercitare una considerevole influenza personale.
Durante il successivo periodo napoleonico, nonostante il rifiuto di Giorgio III di prendere in considerazione qualsiasi progetto di emancipazione della Chiesa di Roma, i cattolici non persero la speranza di un progresso durante il suo regno. Il movimento cattolico che sosteneva la libertà politica guadagnava terreno e venne facilitato in questo dal clima di unità nazionale che si respirava nei confronti del comune nemico francese. Era quindi diffusa una generale atmosfera di adattamento allo spirito dell’epoca e l’istinto di cooperazione favoriva l’ambizione dei circoli cattolici “mondani” a partecipare nella maggior misura possibile alla vita dei loro pari, anche se all’epoca il voto e i gradi erano loro ancora negati.
Sfortunatamente, ancora all’inizio del nuovo secolo, il cattolicesimo inglese, pur con ampi spazi di manovra vòlti ad ottenere la tanto desiderata emancipazione, non era esente da difficoltà tutte interne. Al di là della difficile situazione sociale dell’età vittoriana, il XVIII secolo, anche come esito ultimo dell’isolamento inglese, aveva lasciato la pesante eredità teologica dello “spirito cisalpino”, controbilanciato solo più tardi da quello “ultramontano”.
Gli ultramonatani guardavano, com’è implicito nel termine, verso Roma, al di là delle montagne. Essi erano per un manifesto attaccamento alla Santa Sede, appoggiavano sentitamente il Papa in ogni occasione e accettavano tutti i particolari dell’organizzazione pontificia: rappresentavano quindi quell’anima tipica dell’intransigentismo continentale che vedeva in Roma la guida indiscutibile della cattolicità, l’autorità prima e il sicuro cuore dottrinale.
D’altro canto i cisalpini rappresentavano lo spirito diametralmente opposto. Eredi del gallicanesimo continentale, erano portatori di un’idea di cattolicesimo specificamente locale, “al di qua delle Alpi” appunto. Si distinguevano prima di tutto per l’adozione di un certo atteggiamento nei riguardi del governo civile. Erano soliti concentrare la loro attenzione sugli obblighi morali verso lo stato, che avevano la precedenza su quelli dell’organizzazione ecclesiastica, ed erano pronti a ricevere l’insegnamento dogmatico della Chiesa, considerando però ogni altra forma di azione papale con fredda riserva. Nella pratica essi erano molto indipendenti, premevano per una maggiore presenza attiva dei laici e facevano spesso difficoltà nei confronti delle nomine dei vicari  apostolici: l’idea medievale della Chiesa come Societas perfecta era completamente estranea alle loro menti. A livello teologico poi, pur non caratterizzandosi attraverso un pensiero sistematico, covavano i germi di quel liberalismo che avrebbe rivelato tutta la sua preponderanza in occasione del Concilio Vaticano I.
Fortunatamente il vescovo John Milner (1756-1826), vicario apostolico delle Midlands, figura che con il suo carisma dominò coraggiosamente la minoranza cattolica dei primi anni del XIX secolo, ne fu il più influente osteggiatore e molto fece per ridurre l’efficacia dei circoli propugnatori che, di fatto, annoveravano solo pochi ricchi possidenti la cui influenza si spense definitivamente – almeno a livello politico e sociale, ma non teologico – prima dell’Epoca vittoriana.
L’Atto di unione, che nel 1801 decretò la nascita del Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda, diede un’ulteriore spinta verso l’emancipazione dei cattolici da parte della gerarchia irlandese le cui vedute, per la prima volta, furono messe avanti a quelle degli ecclesiastici inglesi.
L’emancipazione era diventata una questione nazionale e i vescovi irlandesi trovarono in Milner un grande sostenitore della loro causa. La chiusura del parlamento irlandese avrebbe permesso a quello inglese l’elezione di rappresentanti cattolici, dal momento che le leggi penali dell’isola di smeraldo non permettevano l’assegnazione di seggi agli eletti dell’antica religione. Milner, forte dell’appoggio irlandese, colse così l’occasione per portare gli ultimi e definitivi attacchi al movimento cisalpino e per opporre una politica autenticamente cattolica alle proposte governative. Così il vescovo fu determinante nella questione di un proposto veto regio alle nomine episcopali e considerò con sospetto la legge Grattan del 1811 per l’alleviamento nei confronti dei cattolici. Le sue strenue opposizioni, temprate da un vivo attaccamento a Roma, si rivelarono al fine vincenti.
Egli era attivo anche in questioni di carattere più generale, come nel richiamare l’attenzione sul pericolo delle proposte per una forma modificata del giuramento di supremazia, nell’opporsi al progetto di legge Plunkett del 1821 per l’alleviamento, nell’appoggiare, due anni più tardi, l’Associazione cattolica di O’Connel e nel contrastare la misura di alleviamento di Burdett nel 1825: per tutti gli ultimi anni della sua vita fu sempre deciso a non accettare l’emancipazione se non totalmente svincolata da qualsiasi forma di giuramento o di veto.
Daniel O'Connel
                                                             Daniel O’Connel
Anche sotto il regno di Giorgio IV l’emancipazione subì una battuta d’arresto per l’ostilità esplicita del re nei confronti dei “papisti”. Sembrava dunque non ci fosse alcuna speranza per il cattolicesimo isolano, quand’ecco che giunse dall’Irlanda Daniel O’Connel, conosciuto anche come “il liberatore”. Politico e avvocato, fu la figura predominante nel laicato cattolico di inizio XIX secolo. Difensore della maltrattata popolazione irlandese fedele alla religione dei padri, lottò per l’abrogazione delle leggi penali, emesse nel corso del XVII secolo e nei primi anni del XVIII, che discriminavano fortemente i cattolici irlandesi rispetto agli anglicani. Fu un militante instancabile e si distinse per la creazione di un nazionalismo di stampo non violento, a forte base cattolica.  
Grazie principalmente al suo lavoro e al timore di una ribellione diffusa in Irlanda, a maggioranza cattolica e strenuamente legata al Papa, nel 1829 il governo britannico promulgò l’Atto di emancipazione, un grandissimo progresso per la Chiesa di Roma nei confini dell’Impero. I cattolici ebbero per la prima volta diritto di votare, di sedere stabilmente in parlamento e di occupare quasi tutti gli uffici civili e militari dello stato. Tuttavia, come concessione al sentimento protestante, era comunque mantenuto il divieto d’accesso alle università, ai vescovi era proibito adottare i titoli di sedi in uso presso prelati della chiesa ufficiale e le celebrazioni religiose erano vietate fuori dalle chiese e delle case private. Con un’altra clausola venivano imposte restrizioni alla libertà degli ordini religiosi e al loro accrescimento; ma tale parte rimase nei fatti lettera morta. Gli effetti dell’atto si fecero chiari solo gradualmente e i cattolici giunsero molto lentamente alle cariche loro aperte di recente.
La tranquillità di una nuova condizione soddisfacente discese sulla massa dei cattolici inglesi proprio nel momento in cui Guglielmo IV succedeva a Giorgio IV sul trono e l’interesse nazionale si appuntava sul progetto di legge per la Riforma. Il vicario apostolico del distretto di Londra, James Yorke Bramston, personificava lo spirito di prudenza tipico dell’epoca: i “papisti” avevano già ottenuto molto, forse più di quanto avrebbero potuto sperare, era dunque giunto il momento di un pacifico e momentaneo nascondimento, facilitato dalla pausa negli affari ecclesiastici. La vita della Chiesa nell’isola continuava dunque placidamente senza però manifestazioni o eventi che attirassero troppo l’attenzione dei connazionali protestanti. A Londra vennero costruite nuove chiese, edifici rettangolari con semplici finestre e una galleria sostenuta da pilastri di ferro, che andarono così a sostituire le cappelle delle ambasciate come quella piemontese o francese in cui ancora i cattolici della capitale si riunivano per la messa domenicale. Da questi centri provenivano i mezzi per alimentare le opere caritative e le cure per l’educazione del popolo: progrediva la vita dei circoli commerciali, ma il numero dei cattolici poveri aumentava incessantemente.
Il reclutamento delle forze dall’Irlanda non era una cosa nuova e si era sviluppato attraverso il secolo XVIII, formando la base per nuovi centri di popolazione cattolica in alcune città importanti dell’Inghilterra come Londra, Bristol e Liverpool. Per tutta la metà del XIX secolo molti irlandesi affluirono in Inghilterra come muratori, scaricatori, tessitori e cardatori di lana. Alcuni proseguivano fino alle fabbriche di ceramiche e ai giacimenti carboniferi dello Staffordshire e il loro ottimo fisico rappresentava un gran requisito per il lavoro pesante degli altiforni. Poveri e male accolti, nel 1831 dovettero addirittura affrontare un’aperta ostilità nel Lincolnshire e poi durante i grandi lavori ferroviari.
Negli anni dal 1845 al 1849 circa, la carestia delle patate causò una nuova ondata migratoria e gli irlandesi andarono a rafforzare il corpo del cattolicesimo industriale, divenuto di recente significativo. Le miserie dell’epoca ebbero però il grande pregio di saldare ulteriormente i rapporti tra i laici e il clero che spesso era impegnato in opere di carità e assistenza dei malati. I vicari apostolici si trovarono quindi, all’altezza della metà del secolo, a dover affrontare un problema inedito e di grandezza crescente anche se l’immigrazione, superata la crisi, tornò a livelli stabili e normali. Nelle grandi città industriali, sotto il fumo delle ciminiere, nascosta in strette viuzze e case sovraffollate, una nuova vita cattolica stava quindi nascendo, lontana e ben distinta dai vecchi proprietari terrieri che avevano fatto la storia della Chiesa di Roma in Inghilterra durante i secoli precedenti.
Il ripristino della Compagnia di Gesù in tutto il mondo, con la Bolla Sollicitudo Omnium Ecclesiarum promulgata nel 1814 da Pio VII, diede poi un nuovo impulso all’opera di evangelizzazione in tutto l’impero britannico. La scuola dei gesuiti fu l’elemento determinante della tradizione cattolica inglese nel primo ‘800 che, con la sua caratteristica insularità, andava a riaccogliere sul suolo patrio i profughi della rivoluzione. L’insegnamento dei gesuiti attirò un grande consenso non solo da parte delle famiglie cattoliche, che finalmente potevano mandare i propri figli in istituti fedeli all’antica religione, ma godettero anche della protezione di non-cattolici che vedevano in queste scuole un’occasione per educare al meglio molti membri “papisti” della futura burocrazia britannica. Proprio in questi anni emersero i primi nomi della cultura inglese noti a livello nazionale, tutte figure educate a Stonyhurst, uno dei più illustri collegi isolani. Charles Waterton, ad esempio, fu un naturalista e viaggiatore eccentrico che, dopo aver scalato San Pietro nel 1817, ebbe numerose avventure in Sud America e, si racconta, che una volta salì addirittura sulla groppa di un caimano. Contemporaneo di Waterton e suo compagno di scuola fu James Everard, studioso di antichità e protettore delle belle arti, rappresentante di quella classe nobiliare cattolica che raggiunse l’apice durante il periodo dell’emancipazione.
Charles Waterton
                                                           Charles Waterton
Prima dell’avvento della regina Vittoria sul trono dell’Impero britannico, il cattolicesimo inglese aveva ormai fatto molti passi in avanti, abbandonando le catacombe in cui era stato relegato da tempo per tornare nuovamente a vedere la luce del sole. Non mancavano certo le difficoltà sia sul piano sociale che su quello teologico –l’immigrazione irlandese e gli ultimi scampoli dei gruppi cisalpini continuavano a preoccupare i vicari apostolici – ma la Chiesa di Roma in Inghilterra aveva finalmente ritrovato la speranza per una nuova vita.