I soldati Imperiali liberano l'Albania dagli italiani
E' poco noto che verso la fine della Grande Guerra, 3 divisioni austro ungariche erano in Albania, dove avevano fatto vedere i sorci verdi agli italiani. Esse erano comandate dal gen. Pflanzer Baltin, colui che aveva maltrattato ingiustamente il 97 IR e che fu costretto a scusarsi dall'Imperatore.
Il primo novembre 1918 aveva radiografato a Vienna chiedendo istruzioni ma non ricevendo risposta, scrisse nel suo diario: "Ho l'impressione che tutto stia crollando". Allora rientrò a Cattaro con la banda militare in testa ma vedendo le bandiere del Comitato SHS ed i suoi miliziani che li guardavano stralunati, dedusse che era avvenuta la Katastrophe.
Tuttavia la maggior parte dei suoi soldati non volle deporre le armi e si dispersero poco alla volta nelle settimane successive. Pflanzer Baltin lasciò Cattaro il 18 novembre a bordo di una nave militare francese che era stata chiamata dal Comitato.
La leggenda dice che alcuni soldati con le loro fidanzate, si rifugiarono in una piccola valle nascosta nell'entroterra selvaggio e montuoso..
Sembra che i loro discendenti siano ancora lì, che vestano le monture KuK nelle occasioni importanti e che il 18 agosto facciano una grande festa per il genetliaco dell'Imperatore. E non sono i soli...
Gli anni immediatamente successivi alla cosiddetta “Unità d’Italia” video la Sicilia solo marginalmente interessata da quel fenomeno di massa della resistenza armata contro i Piemontesi, che divampava in tutte le altre regioni meridionali. Ciò perché ancora bruciava ai siciliani la mancata comprensione della loro “specificità” da parte dei passati governi borbonici. Però, man mano che cadevano ad una ad una tutte le illusioni e le speranze che aveva elargito Garibaldi, montava la collera del popolo. E così anche la Sicilia non mancò a quel tragico appuntamento con la Storia, pagando il suo non lieve tributo di sangue alla resistenza meridionale. Le sette giornate della rivolta di Palermo del settembre 1866 furono la testimonianza tangibile di una cosiddetta “Unità Nazionale”, malamente perseguita e peggio attuata. Neanche a farlo apposta i più decisivi tra i rivoltosi furono proprio i “picciotti”, che sei anni prima avevano permesso le “strepitose” vittorie di Garibaldi. Essi furono i più determinati nella lotta perché erano stati traditi nel peggiore dei modi: nella loro buona fede. La politica perseguita in Sicilia dal governo sabaudo, fu in quegli anni arrogante, opportunista, colonizzatrice e criminale, a questo si somma un’altra verità, che, come scrive Paolo Alatri: <<I funzionari, per lo più settentrionali… consideravano spesso le popolazioni affidate alle loro cure come non ancora pervenute al loro stesso grado di civiltà, come barbari o semibarbari… Questo estremo disprezzo, intollerabile per un popolo di antica civiltà come quello siciliano, unitamente a molte altre cause tra cui, non secondarie, la crescente miseria, l’introduzione di misure poliziesche inutilmente vessatorie e di nuovi e gravosi balzelli, provocò l’impossibile: l’alleanza tattica dei gruppi filo borbonici con l’ala oltranzista del vecchio partito filo garibaldino, e di questi due con gli autonomisti e gli indipendentisti>>. Le cause della sommossa furono le ottuse limitazioni imposte alle popolarissime feste di S. Rosalia, la Santa Patrona cara ai cuori di ogni palermitano, l’introduzione del monopolio statale del tabacco con la fine dell’esenzione goduta fino ad allora in Sicilia, ed il servizio di leva militare non previsto dall’ordinamento borbonico. Rapidamente divampò la protesta degli strati più popolari e si ebbero i primi disordini. Era ciò che aspettava da tempo il Comitato rivoluzionario con le sue squadre clandestine già allertate, anche perché i reparti militari piemontesi di stanza nell’isola erano profondamente depolarizzati per le recentissime disastrose sconfitte subite al Nord dall’esercito italiano contro l’Austria. Si cominciò dal controllo del circondario, facendo poi convergere tutte le squadre su Palermo. Si ripeteva la tattica del ’60, questa volta però contro i Piemontesi. Toccò per prima a Monreale, dove un’intera compagnia di granatieri, che spalleggiava l’odiato delegato di P.S. Rampolla, fu letteralmente fatta a pezzi insieme a quest’ultimo. La scena si ripeté a Boccadifalco con lo sterminio di un reparto di “carabinieri piemontesi”. A Misilmeri al termine della giornata campale la truppa si ritirò, lasciando sul terreno ben 27 morti. Infine, come fossero un sol uomo, tutti i centomila contadini della Conca d’Oro insorsero. I più decisi, armati di vecchie scoppette da caccia, si unirono alle squadre e marciarono su Palermo, al loro seguito centinaia di carri carichi di vettovagle. Il controllo militare delle campagne circostanti era considerato un primario obiettivo nei disegni strategici del Comitato, in quanto doveva permettere, come in effetti permise, il regolare rifornimento di derrate alla città isolata. L’adesione a moti da parte della cittadinanza fu unanime. E fu la guerra civile, come sempre cruentissima, con innumerevoli vittime d’ambo le parti. I circa 30.000 insorti in armi (il Procuratore Generale della Corte d’Appello ne stimerà il numero in 40.000) tennero in scacco i migliori reparti del regio esercito, battendoli ripetutamente, per sette giorni e mezzo in città e per dodici giorni nel circondario. L’esercito savoiardo arrivò ad impegnare più di 40.000 uomini agli ordini del generale Cadorna, che poi fu soprannominato “il macellaio”, oltre ad ingenti forze di polizia e gran parte della Marina da guerra, che bombardò a più riprese la città (i generali piemontesi erano “eroi” nel bombardare le popolazioni inermi, come il Gen. La Marmora a Genova nel ’49 ed il Gen. Cialdini a Gaeta nel ’60 , ma sul vero campo di battaglia dimostrarono sempre codardia ed incapacità). Il generale Cadorna impartì l’ordine di sparare a vista a qualsiasi passante: <<… Cadorna saziò la propria sete di vendetta proclamando lo stato d’assedio (3° in quattro anni), accanendosi contro la popolazione e mostrando particolare ferocia contro il clero, “la nefanda setta clericale” era solito dire… espropriati i monasteri e conventi, il regio commissario soppresse nell’isola 1027 corporazioni religiose superstiti, e spedì in galera i frati che, sfuggiti alle fucilazioni, non avevano fatto in tempo a nascondersi. Finì in carcere persino il vescovo di Monreale, il 90enne Benedetto D’Acquino e con lui 47 religiosi di Palermo, 46 di Siracusa, 40 di Girgenti, 26 di Caltanisetta, 18 di Messina. La stampa estera si schierò apertamente dalla parte dei ribelli e parlò di sacrosanto moto indipendentista, mentre in tutta Italia apparve qualche trafiletto in ultima pagina, dopo un mese…>>. Il Gen. Cadorna volle emulare il Gen. Cialdini, “eroe” di Gaeta, e fece anche lui infettare l’acquedotto con carcasse di animali, così da provocare una tremenda epidemia di tifo petecchiale, che provocò migliaia di morti tra la popolazione. Pur facendo riferimento alla propria parte politica di appartenenza, vi fu sul terreno una straordinaria unità d’azione delle squadre armate. La diversità si notava soltanto nel grido con cui esse usavano andare all’assalto: “Viva la Sicilia” (i filoborbonici, gli autonomisti e gli indipendentisti), “Viva la Repubblica” (i radicali e gli azionisti), “Viva Santa Rosalia” (i cattolici tradizionalisti). La numerosa Guardia Nazionale, che aveva rifiutato in massa di sparare sui cittadini, si disciolse come neve al sole e molti elementi passarono con i ribelli. Per ironia della sorte i più irriducibili combattenti delle squadre furono le centinaia di giovani renitenti al servizio di leva, istituito di recente dai piemontesi, e i disertori siciliani del regio esercito. La repressione che seguì fu talmente barbara da far registrare un numero di vittime di gran lunga maggiore di quello avutosi nella fatidica guerra di “liberazione” garibaldina del 1860. Ma la cosa peggiore fu come al solito il tentativo, riuscito perfettamente per l’imperante servilismo della storiografia ufficiale, di infangare la memoria storica degli sconfitti. Così se i combattenti nel Napoletano, della Lucania, delle Calabrie, e delle Puglie erano definiti briganti e banditi da strada, per i Siciliani del ’66 ci si inventò l’accusa di essere Mafia. Ed è così che quelle tragiche giornate del settembre 1866, che avevano visto versare tanto generoso sangue siciliano, passarono nei libri di testo, fino ai tempi a noi recenti, come “un episodio di malandrinaggio collettivo”. Ci sono voluti storici seri affinchè ultimamente si facesse un po’ di luce. Scrive lo storico Rosario Romeo che la rivolta palermitana del 1866 <<… non divenne insurrezione generale dell’isola e potè essere facilmente domata solo per la mancata collaborazione dei ceti dirigenti…>>. La borghesia meridionale, per meri interessi di bottega, aveva tradito ancora una volta la sua terra e la sua gente. Le sette giornate di Palermo costarono lacrime e sangue a tutti. I reparti del regio esercito e delle forze di polizia contarono tra le proprie fila oltre 200 morti, più un migliaio di feriti gravi e leggeri, circa 2200 uomini fatti prigionieri dagli insorti. Le perdite dei rivoltosi non furono mai accertate ufficialmente (in verità non si volle), ma gli storici concordarono nel calcolarle a molte migliaia durante i combattimenti, a cui occorre aggiungere poi le altre migliaia di popolani arrestati e, senza regolari processi, gettai a marcire nelle patrie galere dopo la fine della rivolta, senza contare infine le numerosissime condanne a morte e all’ergastolo irrorate dai tribunali militari, i quali non permisero agli imputati di nominare i loro avvocati di fiducia, ma li fecero “difendere” da avvocati scelti minuziosamente dai tribunali stessi, e vollero in tutte le cause un interprete che traducesse loro il siciliano. Così fino al febbraio del 1867 la popolazione fu costretta ad assistere al passaggio di colonne di detenuti in catene, spinti a calci e bastonate verso i luoghi di detenzione. La Sicilia restava, come tutto il Sud, in uno stato di abbandono… in conto di “regione tropicale”… in mano di sfruttatori e ladri… e di una polizia che giunse all’aperta collusione con la mafia e la delinquenza locale… senza alcuna iniziativa in fatto di lavori pubblici… nel più completo analfabetismo… nella miseria contadina più vergognosa… I Siciliani, come tutti i meridionali, per sopravvivere trovarono solo navi per l’America: tonnellate umane, come quelle dei popoli africani, i Siciliani si auto-deportarono in America. I Savoia erano passati per le contrade del Sud con le loro truppe criminali, i loro tribunali speciali, la loro macchina fiscale, la loro burocrazia e la loro magistratura corrotta… La resistenza meridionale, massacrata e sconfitta, emigrava a “Brucculinu”. E qui, sul tracciato effimero della “nuova frontiera”, i Siciliani scrissero alcune tra le pagine più belle del nascente movimento operaio americano, ma si inventarono anche, e a colpi di mitra, l’organizzazione etno-imprenditoriale più efficiente del secolo: Cosa Nostra. Viva l’Italia!
Fonte: Real Circolo Francesco II di Borbone/Royal Club Francis II of Bourbon
si onorino a Cividale i friulano-veneti in divisa asburgica caduti 150 anni fa! „
Nota - Questo comunicato è stato pubblicato integralmente come contributo esterno. Questo contenuto non è pertanto un articolo prodotto dalla redazione di UdineToday
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Questo è l'elenco dei decorati proveniente dalla stampa dell'epoca; ne parlammo recentemente quando pubblicammo la riclassificazione dei marinai secondo la nuova lista con i luoghi di reclutamento. Due fonti diverse degli stessi dati.
Tra i più alti decorati, con la medaglia della croce dell'ordine di Leopoldo, si legge di un certo Marco Florio. Si trattava di un napoletano che venne in esilio in Austria (dopo l'occupazione delle Due Sicilie NdR) per avere l'opportunità di combattere i piemontesi ed i suoi connazionali traditori, oltre che per poter vivere in un Paese civile. Visse a Pola dove si vede ancora la sua tomba di famiglia, nel cimitero comunale.
Questa è la lista completa degli eroi di Lissa!...per i miei cari amici,di questo splendido sito!ecco i Triestini,Veneti,Friulani,Sloveni,Croati,ecc.vincitori d...ella mitica battaglia navale.Wiener Zeitung,31 agosto 1866. Schönbrunn, am 27. August 1866. Franz Joseph m. x. Se. k. k. Apostolische Majestät haben mit Aller höchster Entschließung vom 27. August d. I. in An erkennung hervorragend tapferen Benehmens und vor züglicher Dienstleistung in der Seeschlacht bei Lissa >am 20. Juli d. I. nachfolgende Auszeichnungen aller gnädigst zu verleihen geruht: Das Ritterkreuz des Leopold-Ordens mit der Kriegsdecoration: den Linienschiffscapitäns: Karl v. Faber, Georg Milossich, Joseph Aurnhammer v. Anrnstein, Alfred Barry, Gustav Ritter v. Gröller, Adolf Daufalik, Karl Kern, Anton Ritter v. Wiplinger; den Fregattencapitäns: Marcus Florio, Tobias Oesterreichs, Maxmilian Pitner, Karl Ritter v. Lindner und dem Linienschiffslieutenant Rudolf Schröder; den Orden der eisernen Krone dritter Classe mit der Kriegsdecoration: den Fregattencapitäns: Ludwig Eberle, Rudolf Ungewitter; den Corvettencapitäns: Victor Herzfeld, Alexander Graf Kielmannsegge, Wilhelm Freiherr v. Wickede, Ulrich William Lund, Ferdinand Attlmayr; dem Bootsmann 1. Classe Andreas Zangrado; den Bootsmännern 2. Classe: Franz Bakulich, Ka spar Gallovich; den Bootsmännern 3. Classe: Anton Andreatini, Johann Zamarin, Andreas Corsanov; dem Obersteuermann Dominik Malusa; den Steuermännern 1. Classe: Sebastian Tognon, Joh. Pindulic Dcminik Rismondo, Thomas Penso; dem Steuermann 3. Classe Lucas Scopinich; den Schiemännern: Johann Smocovina, Mathias Percovich; den Quartiermeistern: Franz Sersich, Anton Made- zazzo, Franz Fragiacomo, Paul Prignolato, Joseph Bogdessich, Joseph Schnelka, Alois Riedl Ritter von Raitenfeld, Johann Raschka, Johann Fabianich, Joh. Kinnsich: den Marsgasten: Vincenz Sparovich, Leopold Rauscher, Friedrich Zangl, Joseph Stohl, Engelbert Schindlholzer, Johann Bogovich, Johann Angeler; den Matrosen 1. Classe: Johann Brotanovich, Johann Leistinger, Engelbert Filiputti, Lukas Gher- satz, Adolf Bernard, Anton Sarich; den Matrosen 2. Classe: Jarolim Dinon, Marino Vidossovich, Pasquale Gallovich, Ferdinand Varagnolo, Lukas Jelecic, Johann Bosnak, Franz Iahn, Philipp Trogulich, Joseph Filippo, Simott Polich, Karl Zweier, Dominik Stuparich; den Matrosen 3. Classe: Bartolo Vidali, Peter Obratov, Simon Lucef, Anastasius Grubesich, Joseph Hauser, Martin Basellovich; dem Hornisten Franz Madiera; dem Stückmeister Rudolf Wisneker; dem Stückgast Martin Floriansich; dem Maschinenwärter 2. Classe Franz Streit von Streitschwerdt; dem Feldwebel Angelo Napoleone; den Corporalen: Alois Pisek, Johann Derencino- vich und dem Gemeinen Nicolo Vlassich; die silberne Tapferkeitsmedaille zweiter Classe: den Seecadettcn: Leodegar Kneißler, Constantin Pott, Wenzel Arleth, Karl Mayler, Adolf Krein, Karl Koppel, Simon Leonhard, Johann Kalan, Gustav Widemann. Hugo Graf Oberndorf, Wenzel Kozelka, Jgnaz Mader, Bernhard von Grisogono, Sebastian Stoichics, Rafael Hofmann, Joseph Bayer, Victor Lambucchi, Friedrich Rubelli von Sturmfest, Karl Freiherr von Wüllerstorf und Urbair, Heinrich Ritter von Ceschini, Friedrich Hayek, Victor Ritter von Ienik, Eduard Weiße, Eduard Bischoff, Karl Payerle, Moriz Freiherr von Lüttichau; den provisorischen Seecadetten: Hektor Pitner, Friedrich Freiherr von der Decken, Georg Dabinovich; dem Zögling der Marineakademie Franz Witti; den Bootsmännern 1. Classe: Joseph Budua, Jakob Zilco; den Bootsmännern 2. Classe: Franz Gamba, Anton Terdich, Nicolo Zar; den Bootsmännern 3. Classe: Johann Russisch, Rudolf Ritter von Barsch, Stephan Juretich; dem Steuermann Blasius Barcovich; den Steuermännern 1. Classe: Johann Arbeck, Gregor Rocco, Johann Tomicich; den Steuermännern 2. Classe: Anton Sardoß, Lorenzo Sussanich, Alois Valla, Domenico Pizziola, Anton Skribanich, Franz Vidulich; den Steuermännern 3. Classe: Johann Markovich, Benedict Marchesan, Georg Petrich; den Lootsen: Mathias Devcic, Anton Tramontano, Georg Vncetich, Lukas Marincovich; den Schiemännern: Johann Sepanich, Friedrich Öcsterlein, Joseph Lettich, Bartolo Nuggier, Johann Sirotic, Franz Cordich, Cajetan Albanese, Johann Vidulich, Adolf Saucek, Blasius Ferlora; den Quartiermeistern: Nikolaus Cugagna, Anton Perkovich, Gustav Cucie, Lorenz Fragiacomo, Bona- ventnra Pizich, Friedrich Rossinelli, Michael Dellich, Mathias Rachaelich, Johann Cavagnago, Adorico Rossi, Bartolo Zangrando, Peter Rossovich, Karl Gaspergovich, Alois Bibie, Jakob Merlato, Kaspar Mnriacich, Gregor Appolonio, Johann Eckert, Peter Zmkovich, Daniel Scarpa, Joseph Jöbstl, Jgnaz Docek, August Baricevich; den Marsgasten: Ludwig Piteri, Dominik Sal- vi,gno, Georg Gallovich, Joseph Gianni, Franz Kos, Kosmus Jokovich, Joseph Handl, Ludwig Caroldi, Ludwig Molin, Anton Smircich, Peter Albanese, Joseph Malaschitz, Jakob Castro, Johann Spostto, Willibald Pfnieß, Franz Schönpflug, Jakob Bog- danovich, Cajetan Ravagnan, Anton Segala, Thomas Skarpa, Nikolaus Fillipaz, Joseph Zernz, Johann Petrina, Simon Vncodich, Ferdinand Winter, Alois Spincich, August Car, Anton Cozian, Karl Pizzinich, Ottavio Budua, Ferdinand Bortolnzzi, Sarto Vasi- lisco, Johann Sparosich; den Matrosen 1. Classe: Georg Bonifazio, Vin cenz Jllich, Johann Zecching, Dominik Pregnolato, Simon Magasch, Marcus Martinolich, Fabian Mane- star, Natale Petresich, Anton Bumicich, Gustav Früh linger, Anton Maricich, Karl Bernhardt, Joseph Henz- ler, Joseph Schüler, Bartolo Michalich, Anton Vo- silla, Franz Steffe, Kasimir Boscolo, Karl Gallo, Michael Cheregia, Johann Armanini, Karl Benesch, Mathias Kralich, Michael Willanik, Nikolaus Bro- sicevic, Ludwig Boscolo, Simon Caramarco, Lambert Wüst, Nikolaus Szegedin, Johann Jurissich, Mariano Dalpra, Andreas Sabolich, Dominik Scarabogna, Romolo Ruglianich, Johann Kralich, Peter Matiasich, Anton Gherdinich, Andreas Chinchella, Franz Arringer, Anton Pillepich, Karl Sommer, Retendore Ferle, Eduard Hayer, Johann Richter, Georg Marussich, August Schilhabl, Stefan Nodilo, Anton Saudagl, Johann Breudivoi, Simon Cekich, Heinrich Panovsky, Bortolo Blencovich, Mathias Sersich, Johann Koch, Joseph Barbalich, Alois Marella, Johann Sain, Anton Barciott, Anton Grabovae; den Aiatrosen 2. Classe: Engelbert Fragiacomo, Joseph Spangher, Dominik Nardetto, Peter Borti, Anton Toso, Emanuel Strobek, Vincenz Surcolo, Rudolf Benz, Franz Lazzari. Anton Albanese, Anton Dulmin, Joseph Schuster, Peter Garbisi, Anselmo Ambrosio, Johann Mayer, Vincenz Milicich, Anton Bennssi, Tobias Ambrosio, Peter Sermelie, Dominik Tanuto, Joseph Zehdorser, Johann Prohaska, Gregor Covacevich, Michael Greguric, Joseph Salaz, Anton Salvasan, Anton Pierotich, Jakob Franicovich, Alois Allegretto, Max Vidali, Anton Marcolina, Franz Delavia, Georg Gabellich, Lukas Merussich, Vincenz Bernin, Andreas Glavinovich, Anton Grasso, Franz Varisco, Rocco Giurin, Anton Cociancich, Thomas Miechetta, Nikolaus Sirochini, Johann Stipovich, Karl Goldmann, Pasquale Benetti, Lucas Lucin, Karl Busetto, Alois Penso, Johann Auer, Rinaldo Novello, Blasius Cociancig, Alois Zitzler, Pasquale Scholz, Valentin Pankovich, Alois Cnsmann, Joh. Knoll, Alois Oberndorser, Andrea Michojovich, Joh. Vidale, Alois Samuele; den Matrosen 3. Classe: August Ssrizo, Angelo Venturini, Michael Trotanich, Anton Bonert, Andreas Bonifazio, Anton Zwirak, Michael Hrzak, Joseph Jamarschek, Martin Valle, Franz Mondo, Joseph Carvich, Bartholomeo Bonifazio, Mig. Paulovich, Michael Bauxberger, Anton Ott, Franz Donajo, Peter Jvanov, Franz Guberti, Alois Nordio, Johann Vegliavic, Peter Zuela, Filipp Gersicie, Leopold Fiala, Stephan Koszak, Franz Iahn, Ferdi nand Albert, Wenzel Mateika, August Negretto, Joh. Miocco, Johann Bilaver, Wilhelm Schindler, Marian Listatovich, Janko Pastovich, Mathias Stanich, Markus Fabiancich, Stephan Solich, Johann Marin, Johann Bernassich, Andreas Paulettich, Mathias Modun, Franz Grafenberg, Johann Probst, Miko Kapez, Mathias Perissich, Anton Uglesich, Emil Holfeld, Friedrich Karnal, Wilhelm Boscolo, Joseph Sirolla, Mathias Bellamarich, Vincenz Petrovich, Joseph Dußmann, Anton Mender, Johann Galimberti; den Feuermännern erster Classe: Joseph Morello, Stephan Tschiedl, Valentin Vuk; den Feuermännern zweiter Classe: Mathias Bos- niak, Joseph Mosko, Anton Kossovich, Johann Delise, Markus Berkich; den Feldwebeln: August Kordesch, Jgnaz Gärtl- grnber, Anton Rom, Joseph Homolka, Joseph Seitz; dem Qnafeldwebel Johann Burulie; den Zugsführern: Jgnaz Pfeiffer, Karl Mann; den Corporalen: Wenzel Richter, Ferdinand Szabo, Martin Pellegrini, Natal Mayer, Joseph Landeker; den Gefreiten: Mathias Strebel, Jechel Fleischer, Franz Weiß, Franz Haran; dem Quahornisten Franz Briensky; dem Oberstückmeister Peter Weigend; den Stückmeistern: Franz Guajo, Johann John, Joseph Kutscher, Adolf Kraus, Johann Dittrich; den Unterstückmeistern: Peter Bednarsch, Karl Schweiger, Moriz Hirt, Johann' Mayer, Franz Brei tenbach, Eduard Niesner, Franz Bittner; den Stückquartiermeistern: Franz Cilek, Rudolf Venus, Alois Kraus, Johann Schuster; dem Cadet-Stückquarticrmeister Roman Krauß; dem Qua-Stückquartiermeister Adolph Birner; dem Cadet-Stückquartiermeister Diego von Hen» riquez; den Stückquartiermeistern: Karl Peschl, Franz Walter; dem Stückgast Alois Oermich; den Stückmatrosen: Franz Müller, Peter Lovich, Anton Sitte, Raimund Brendler, Anton Reischel, Robert Zelsmann, Andreas Verhunz. Johann Bunan, Franz Jeschke, Eduard Dornig, Ferdinand Peukert, Joseph Pronza; dem Büchsenmacher 1. Classe Wenzel Killian; den Maschinenwärtern 1. Classe Joseph Schramm, Anton Juliani, Ferdinand Zempliner; den Maschinenwärtern 2. Classe Andreas Kreuzer, August Hacker, Anton Ulmann; den Gemeinen: Johann Kral, Johann Weskil, Joseph Joseph Horaczek, Lazarns Dullag,. Jakob Dwak, Joseph Pucherna, Joseph Reznieek, Franz Krizenecky, Adam Raiza, David Sobel, Peter Slencznk, Leopold Preltner, Albin Patsch, Franz Effert, Joseph Tutek, Anton Eiter, Simon Rutek, Richard Weixelgärtner, Theodor Bodnaruk, Wenzel Nawratil, Joseph Kellner, Iwan Orlovsky; dem Officiersdiener Joseph Rziha; dem Civildiener Georg Kreuzer; die belobende Anerkennung: den Seecadetten: Richard Schönberger, Franz Partsch, Gustav Beer, Otto Freiherr v. Scholley, August Schweißgut, Jakob de Leva, Alsons Freiherr v. Pereira, Kaü Achelpohl, Friedrich Fritz, Otto Pauspertel v. Drachenthal und den provis. Seecadetten: Eugen Kassel, Arthur Maitinich, Anton Rüth.den Linienschiffslieutenants: Julius Steiskal, Her mann Freiherr v. Spaun, Joseph Pichler, Eduard Germonig, Karl Beck, Joseph Maraspin, Wilhelm Kropp, Karl Matthieu, Kamillo Ritter v. Henriquez, Ernst Jacobi, Arno v. Rohrscheidt, Oskar Kern, Fridolin Jägermayer, Hamilkar Marquis Paulucci, Julius Wurmb, Franz Freiherr v. La Motte, Karl Ritter Seemann v. Treueuwart, Julius Ritter v. Gröller, Franz Freiherr v. Minutillo; den Linienschiffsfähnrichen: Karl Weiprecht, Edmund Ritter v. Henneberg und Karl Marinich, allen mit Nachsicht der Taxen; das Militär verdien st kreuz mit der Kriegs decoration: dem Fregattencapitän: Wilhelm Calafatti; dem Corvettencapitän: Adolf Nölting; den Linienschiffslieutenants: Heinrich Berthold, Ferdinand Feldmann, Hermann Ezedik v. Bründels- berg, Karl Scheuermaun, Joseph Primavesi, Franz Tschermatsch, Hermann Biringer, Ottokar Faukal, Johann Hinke, Karl Paschen, Gustav Masotti, Hein rich Fayenz, August Trapp, Julius Fidler v. Jsar- born, Emil Palese Edler v. Grettaberg, Eugen Gaäl de Gyula, Peter Grancich, Friedrich Stecher, Paul Frankl, Heinrich Giberti, Ottmar Fischer, Joseph Frank, Karl Müller v. Müllenau, Paul Hauser, Franz Hopfgartner, Alexander Kalmar, Richard Po- gatschnigg, Wilhelm Freiherr Handel-Mazzetti, Michael Mariassy de Markus et Batizfalu, Eugen Fürst Wrede, Wilhelm Graf Mercandin; den Linienschiffsfähnrichen: Karl Baritz v. Jka- falva, Joseph Schellander, Leo Ahsbahs, Alfred Müller, Joseph Lehnert, Karl Barth, Vincenz Edler v. Rosenzweig, Stephan Stojanovics, Wenzel Para deiser, Hugo Deschauer, Lucas Binicki, Aurel von Wittembersky, Karl Herber, Anton Kloß, Maximilian Rothauscher, Hugo Pogatschnigg, Hugo Poglayen; dann den Oberlieutenants : Joseph Luksch , Anton Schaffer und dem Unterlieutenant Franz Gorifchek, des Marine infanterieregiments; die belobende Anerkennung: dem Fregattencapitän Karl Kronnowetter; den Linienschiffslieutenants: Victor Graf Wimpffen, Karl Rosenstiel, Hyppolit Ritter v. Henriquez, Eugen Bachmann, Richard Banfield, Julius Heinz, Theodor Albrecht, Edmund Czelechöwsky; den Linienschiffsfähnrichen: Eamillo Döry v. Job- bahäza, Johann Hentschl, Gustav Kemmel, Anton Panfilli, Rudolf Berghofer. Karl Spetzler, Egon Graf Hoyos, Anton Pirchann, Moriz Ritter von Szabel, Amadeus Ziller, Dominik Hladky, Rudolf Graf Montecuccoli, Arthur Graf Sermage, Karl Ritter v. Pöltl, Alexander v. Milinkovic, Gustav Broosch, Joseph Fleischer, Peter Pulgher, Martin Ru- kaviua, Joseph Asan de Rivera, Albert Zvanetti, Franz Laschober, Johann Rudolf Schmid, Emil Krumholz, Joseph Riha, Karl Adamovich, Wilhelm Mörth, Friedrich Pick, Ferdinand Gebhardt, Joseph Reznicek, Wilhelm Barta, Joseph Wilfan, Gustav Schindler, Franz v. Kletzl, Beno v. Pechmann. Den vor dem Feinde gebliebenen Limenschiffscapi- tänen Erik of Klint und Heinrich Freiherr v. Moll wurde tarfrei der Orden der eisernen Krone dritter Classe mit der Kriegsdecoration, dann dem Linien schiffsfähnrich Robert Proch das Militärverdienstkreuz mit der Kriegsdecoration zuerkannt. Ferner in Anerkennung der verdienstlichen Lei stungen : das goldene geistliche Verdienstkreuz: dem provisorischen Corvettencaplan Albert Milcetich; das Ritterkreuz des Franz-Joseph- Ordens: dem Linienschiffsarzt Dr. Moriz Bernstein;
den Maschinenmeistern 1. Classe: Martin Gerbe und Franz Prause, dann dem Lloyd-Capitän Johann Marenigh; das goldene Verdienstkreuz mit der Krone: dem Maschinenmeister 1. Classe Jens Jensen; den Maschinenmeistern 2. Classe: Joseph Enger th und Valentin Reinold; das goldene Verdienstkreuz: den Schiffswundärzten: Simon Hartdobler und Johann Hopsesberger; dem Maschinenmeister 1. Classe Albert Hacker; den Lloyd-Capitäns: Theodor Ukropina und Franz ^ Romano, dann dem Lloyd-Maschinisten William Tomkins; das silberne Verdienstkreuz mit der Krone: den Maschinenmeistern 1. Classe: Mathias Ernst und Heinrich Reichl; den Maschinenmeistern 2. Classe: Wilhelm Hinsen» kamp und Wenzel Lehmann; dem Marineverwaltungsofficial Michael Ricci; ' ' dem Marineverwaltungsaccesfisten Wenzel Kord«; dem Lloyd-Bootsmann Luigi Gherzmann und dem Lloyd-Lootsen Franz Arsich; das silberne Verdienstkreuz: dem Schiffbauuntermeister Johann Ranzato; den Calfaterers: Johann Caracich, Franz Bassich und Franz Tugassero; dem Zimmermann Pasqnale Crosilla; den Lloyd-Steuermännern: Philipp Dabinovich und Saverio Danzulovich; die belobende Anerkennung: den Fregattenärzten: Dr. Eduard Michel und Dr. Adolf Prußnig; dem Schiffswundarzt Karl Neuer; den Maschinenmeistern 1. Classe: Eduard Baudnin und Friedrich Mayer; den Maschinenmeistern 2. Classe: Karl Niemann, Johann Spetzler, Karl Goldschmidt, August Seibelt und Georg Hueber; den Maschinenuntermeistern: Andreas Schwarz, Johann Jerneiczik, Paul Wegmann und Ferdinand Hüthner; den Marineverwaltungsofficialen: Andreas Gailer, Anton Winkler und dem Marineverwaltungsaccesfisten Joseph Samuele Endlich wurden ernannt für ihr sehr braves Be» nehmen in dieser Seeschlacht der Seecadet Richard Schönberger zum Linienschiffsfähnrich und der Ma schinenmeister 2. Classe Johann Spetzler zum Ma schinenmeister 1. Classe. Ferner in Anerkennung besonderer Tapferkeit und hervorragender Leistungen in derselben Seeschlacht: die goldene Tapierkeitsmedaille: den Seecadetten: Karl Sinkovsky, Constantin Ritter v. Görz, Eduard Hanslik, Jsidor Frh. Benko von Boinik; den Bootsmännem: 2. Classe: Anton Camalich. Anton Tonsich, Johann Tamburlini; den Obersteuermännern; Thomas Penso, Anton Salomonich, Nikolaus Feretisch; den Steuermännern 2. Classe: Nikolaus Carcovich» Vincenz Vianello; dem Steuermann 3. Classe Franz Seemann; dem Quartiermeister Raimund Raimondi; dem Marsgast Alexander Wünsche und dem Oberstückmeister Johann Damin; die silberne Tapferkeitsmedaille erster Classe: den Seecadetten: Joseph Prasch, Joseph Teufel. August Süß. Johann Sene, Adalbert Haller, Franz Lorenz, Vincenz Poglres, Rudolf Labres; dem provisorischen Seecadetten Stephan Dojmi Ritter von Delupis
di Luca Fumagalli (Fonte: http://www.radiospada.org/ )
Nel 1845 avvenne la celebre conversione al cattolicesimo di John Henry Newman. Nonostante avesse conosciuto personalmente Wiseman in occasione del suo viaggio in Italia nel 1833, fu solo a quarant’anni, dopo aver militato lungamente nel “Movimento di Oxford”, che l’adesione alla Chiesa di Roma divenne per lui ineludibile. Nessuno dei suoi sodali durante il periodo universitario avrebbe fatto atto di sottomissione: Froude morì nel 1836, mentre Keble e Pusey sopravvissero per raccogliere le scarse forze trattatiste rimanenti.
Se i dubbi iniziarono nel 1841, solo due anni dopo Newman ritrattò quanto aveva dichiarato di insultante contro il Papa e si ritirò con pochi intimi a Littlemore, presso Oxford. Dopo altri due anni di meditata e sofferta decisione, venne accolto nella Chiesa il 9 ottobre 1845 da padre Domenico Barbieri, un passionista italiano.
Newman univa il dominio di una mente di larghe vedute e di estrema sensibilità al distacco dei più volgari contatti. Una costante e radicale timidezza, che però non disdegnava un profondo affetto nei confronti degli amici, andava unita in lui a una singolare integrità e indipendenza di mente. Ispirava naturalmente un amore unico e reverente, ma si dimostrava piuttosto rigido con chi non condivideva la sua impostazione mentale, apparendo in molte occasioni poco ricettivo (cosa, del resto, che gli attirò non poche antipatie tra i laici e gli ecclesiastici inglesi). Fu però un teologo brillante, un instancabile apologeta e un romanziere occasionale ma di gran pregio.
Anche il più prossimo gruppo di Littlemore seguì Newman nella conversione, così come diversi amici appartenenti alla cerchia meno intima. Fra questi si ricordano Frederick Oakeley, che condusse una vita da studioso, e William George Ward, collega di Oakeley al Balliol. Ward, di carattere completamente opposto a Newman, alternava periodi di severa concentrazione teologica a una rumorosità gioviale e poco universitaria. Con il suo tipico gusto beffardo e provocatore diede alla luce un’opera teologica che gli affrancò l’accusa di favoreggiatore dei cattolici e la conseguente espulsione dal Balliol. Era pastore anglicano, ma dopo la conversione al cattolicesimo nel 1845 si sposò e più avanti divenne anche piuttosto ricco e famoso. L’intensa preoccupazione di laico per la teologia era caratteristica di un atteggiamento dell’epoca e la sua prosa era limpida e tagliente. Fu insegnante al St. Edmund’s College dal 1851 al 1858 e, fra il 1863 e il 1878, diresse il “Dublin Review”, divenendo uno dei capi del movimento ultramontano, in aspra polemica con i cattolici liberali, con Newman e con gli avversari del Sillabo (1864). La sua amicizia con Alfred Tennyson, poeta laureato, testimonia inoltre uno dei più notevoli contatti tra il cattolicesimo intransigente inglese e il mondo esterno.
Per ultimo merita di essere citato Frederick Wialliam Faber, ugonotto di stirpe, poeta e asceta. Al tempo della sottomissione di Newman alla Chiesa cattolica era rettore di Elton, nello Huntingdonshire, e decise di seguirlo. Il suo monumento è nell’oratorio di Londra di cui sarebbe stato il superiore per quattordici anni. É possibile comprenderne indole soprattutto attraverso i testi di pietà che fecero di lui uno scrittore spirituale fecondo e destinato al successo. Scrisse inoltre moltissimi inni sacri talmente famosi che ancora oggi sono utilizzati persino da alcune congregazioni protestanti: la voce della preghiera levata al cielo caratterizzò i suoi fedeli differenziandoli dal silenzioso e antiquato gruppo dei vecchi cattolici. All’ampia diffusione delle sue opere sul continente contribuì poi uno stile particolarmente convincente nelle traduzioni.
Newman, dopo la sua partenza da Littlemore, fu ad Oscott, dove rinnovò la passeggera conoscenza di Wiseman (i loro rapporti furono sostanzialmente amichevoli ma non sempre facili). Raggiunse poi Roma nel 1846.
Ciò che più distanziava Newman da Wiseman era la conversione dell’Inghilterra vista da quest’ultimo in un’ampia, troppo ottimistica prospettiva. L’immediato problema del ripristino della gerarchia, i particolari materiali e amministrativi e la preoccupazione di valorizzare il punto di vista dei cattolici, erano tutti aspetti che assorbivano la vivace attenzione del vescovo. Il pensiero di Newman era invece concentrato quasi completamente sul solitario procedimento teologico e sulle avventure della mente alla ricerca di Dio. A Roma la stessa divergenza era evidente nei suoi rapporti con la comunità anglo-cattolica.
Egli divenne oratoriano e al suo ritorno a Birmingham, nel 1848, fondò l’oratorio dove trascorse il resto della vita, eccetto un soggiorno in Irlanda tra il 1854 e il 1858 in qualità di rettore presso l’Università cattolica di Dublino. L’opera pastorale del suo oratorio fu davvero determinante per la nuova primavera cattolica in Inghilterra, in particolare nella seconda metà del XIX secolo. Grazie al suo impegno e a quello dei confratelli, divenne presto un luogo di opere pie e di accoglienza per i nuovi convertiti dall’anglicanesimo come, qualche anno più tardi, la madre del futuro scrittore John Ronald Reuel Tolkien, che a Birmingham ricevette la prima educazione.
Newman nutrì un’istintiva e alquanto insulare diffidenza per il pensiero ultramontano. Molte differenze di metodo tendevano a restringere la simpatia fra Newman e Wiseman e questa attenuata amicizia ebbe a mutarsi sotto il crescente influsso di Manning, con il quale i rapporti furono prima poco cordiali e poi freddi. Ma Newman possedeva quello che soprattutto importava: l’incoraggiamento e l’appoggio del proprio diocesano, Ullathorne.
Nel 1852 iniziarono per Newman le prime serie difficoltà. Quell’anno fu trascinato in tribunale con l’accusa di calunnia da Giacinto Achilli, un ex frate domenicano allontanato dalla Chiesa per abusi sessuali e ora convertito al protestantesimo. Reiterando gli attacchi di Wiseman, Newman aveva pubblicamente raccontato l’indole e le astuzie dell’italiano che riuscì però a vincere il processo e costrinse il futuro cardinale a pagare una multa salatissima, estinta solo grazie a una sottoscrizione di massa fra i cattolici.
A questo primo inciampo si assommarono il fallimento dell’apertura di un collegio a Oxford, il prematuro rettorato a Dublino e la controversia con Charles Kingsley, che condusse, nel 1864, alla pubblicazione dell’Apologia pro vita sua, una delle opere più famose e lette di Newman. Charles Kingsley lo aveva infatti accusato di essere stato segretamente cattolico almeno a partire dal 1840 e di non aver denunciato la nuova posizione per non perdere gli incarichi a Oxford e nella chiesa anglicana. Newman rispose con un testo che abbracciava una prospettiva più ampia, strutturandosi come una difesa della propria vita e del personale cammino spirituale. Questo libro, pietra angolare dei suoi scritti, luminosamente sincero e caratterizzato da una straordinaria e profonda limpidezza d’espressione, gli conquistò un grande rispetto nel mondo culturale inglese.
Nel 1877 Newman fu eletto membro onorario del Trinity, segno di pace con Oxford e, nel 1879, fu creato cardinale da Papa Leone XIII su istanza di Ullathorne. Continuò comunque a vivere all’oratorio di Birmingham e lì morì nel 1890. Rappresentò, almeno in epoca moderna, la più grande influenza da parte inglese sul pensiero cattolico.
Un influsso completamente diverso dallo stile teologico oxfordiano di Newman, fu esercitato dalla straordinaria figura di Henry Edward Manning, il prototipo dell’ecclesiastico d’azione. L’arcidiacono di Chichester aveva fatto atto di sottomissione a Roma nel 1851, come conseguenza della sentenza Gorham, che poneva in evidenza non solo il carattere latitudinario della chiesa inglese, ma anche e soprattutto la sua soggiacenza al potere statale.
Nel mese di marzo del 1850 si concluse infatti quello che giornalisticamente fu bollato come il “Caso Gorham” che scatenò una tempesta nella chiesa anglicana e favorì indirettamente il cattolicesimo inglese con la conversione di un gruppo scelto di chierici e laici anglicani. Vicario di Brampford Speke, George Cornelius Gorham era stato destituito dal suo ordinario anglicano, il vescovo di Exter, Henry Phillpotts, per aver negato la dottrina della rigenerazione battesimale. Il chierico deposto aveva fatto ricorso al Privy Council che finì per dettare sentenza a suo favore, annullando conseguentemente il provvedimento vescovile. Lo scandalo che ne venne fu notevole: non solo lo stato interveniva nell’ambito ecclesiastico – prassi del resto diffusa e che già vent’anni prima aveva causato la nascita del “Movimento di Oxford” – ma addirittura si arrogava il diritto di definire, seppur indirettamente, questioni di natura dottrinale. Per molti anglicani si trattava di un abuso senza precedenti e lo stesso Newman colse l’occasione per polemizzare nuovamente contro le ridicole prassi in cui necessariamente cadeva il protestantesimo insulare.
L’arcidiacono Manning si era segnalato presto per la forza di volontà, la schietta pietà e la mentalità singolarmente positiva. Da giovane era un atleta, interessato nella politica, ecclesiastica e laica, e già notevolmente capace. Sebbene molti altri sarebbero venuti dopo di lui, nessuno così intimo entro la chiesa ufficiale vittoriana era mai diventato prima di allora cattolico. Le sue grandi capacità colpirono immediatamente non solo Wiseman che, come già ricordato, lo fece suo consigliere personale, ma anche Pio IX che, alla morte dell’arcivescovo di Westminister, lo scelse personalmente per succedergli. Innalzato al cardinalato nel 1875, governò la principale diocesi inglese dal 1865 fino al 1892.
Dal punto di vista dottrinale il suo operato all’interno della Chiesa cattolica si contraddistinse immediatamente per una propensione allo spirito ultramontano. Fu uno dei più strenui sostenitori dell’infallibilità pontificia e si batté in questo senso, con straordinaria passione, durante il Concilio Vaticano I, come dimostra l’incipit del suo breve intervento del 25 maggio 1870: «L’infallibilità del Romano Pontefice non è un’opinione libera tra i cattolici, liberamente ventilata o liberamente da ventilarsi. Siamo già tutti tenuti a crederla. Non è un’opinione ma una dottrina, perché è già contenuta nella Rivelazione di Dio». Per le sue posizioni teologiche intransigenti e per la naturale predisposizione a seguire con poca simpatia i problemi intellettuali altrui, si trovò raramente concorde con le opinioni di Newman.
La stessa determinazione che impiegava nella difesa dell’ortodossia dottrinale alimentava anche la sua azione pastorale che si caratterizzò per l’ottimo rapporto di collaborazione che ebbe con il clero diocesano e per la costante attenzione ai problemi scolastici e lavorativi dei cattolici inglesi. Come prima cosa egli teneva sempre presente l’educazione. A questo proposito il suo impegno nella fondazione di nuove scuole cattoliche fu straordinario e iniziò ad intavolare trattative con Londra per il loro riconoscimento. In questo contesto era aiutato da una profonda simpatia per i poveri e dalla comprensione dei loro urgenti bisogni, spirituali e materiali. Allo stesso modo si dimostrò un grande amico dell’Irlanda e, oltre a collaborare efficacemente con la gerarchia locale, difese a spada tratta i diritti degli immigrati in territorio inglese.
La prova più forte della fiducia che le persone nutrivano in lui si ebbe in occasione dello sciopero al porto di Londra nel 1889: duecentomila operai protestavano a motivo dei salari troppo bassi e si decisero a interloquire unicamente con il cardinale. Manning, dopo aver parlato alla folla, venne nominato rappresentante degli scioperanti per condurre le trattative con il governo.
Fu sostanzialmente un ecclesiastico “politico” nel senso etimologico e positivo del termine, rappresentando tutti quei sacerdoti che con la loro battaglia quotidiana contro lo sfruttamento e la povertà cronica generata dal sistema liberal-capitalistico, anticiparono nella prassi le direttive espresse nel 1891 nell’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, il più importante documento pontificio dedicato alla questione sociale.
Il sacerdozio eterno (The eternal pristehood), l’opera letteraria della sua vecchiaia, rispecchia invece l’aspetto più personale e privato dell’esperienza sacerdotale. Oltre a seguire una linea di costante mortificazione di ogni appetito, la sua mente era tutta proiettata nell’imitazione di Cristo e dei moltissimi santi che, attraverso la loro vita e le loro opere, avevano reso grande il cattolicesimo nei secoli.
Manning realizzò l’ideale popolare di un grande uomo di Chiesa, unendo una conoscenza in grado di valutare le essenziali istituzioni inglesi, come la Corona, con la consapevolezza della necessità di grandi riforme sociali. La sua morte nel 1892 segnò la fine di un governo della Chiesa cattolica in Inghilterra singolarmente felice, deciso e progressivamente più tranquillo. Non vi è dunque alcun dubbio che nello sviluppo del cattolicesimo britannico il cardinale Newman e il cardinale Manning furono due figure determinanti e complementari.
Un parallelo approssimativo può essere istituito allo stesso modo fra i discepoli convertiti da Newman e quelli convertiti da Menning. Una conseguenza del predominio politico di quest’ultimo fu che il centro principale del movimento verso il cattolicesimo si spostò lentamente dagli ambienti colti ed intellettuali di Oxford verso l’atmosfera della società londinese, culturalmente meno pretenziosa. I membri del clero colto del periodo Oakeley-Faber, vennero sostituiti nelle conversioni da uomini del più giovane e serio elemento professionale e da aristocratici illustri.
Dopo una pausa tra gli anni 1855 e il 1868, il corso delle conversioni ebbe di nuovo inizio. Il periodo di punta di questo secondo movimento durò dal 1869 al 1874, ma un certo afflusso continuò per tutto il secolo. I convertiti di questi anni erano generalmente uomini pratici, persone di mondo e si contavano un certo numero di figure di pubblica notorietà come Lord Ripon, ministro del gabinetto liberale e, in seguito, viceré in India. Del resto non mancarono anche diversi membri della chiesa anglicana che abbandonavano il protestantesimo per Roma.
Molti dei principali convertiti si erano assimilati al più antico gruppo cattolico, preferendo la più fredda e controllata maniera di pietà, il rigetto della pretesa intellettuale e la schietta vita di società. Il Concilio Vaticano I mise poi in luce, tra i laici, l’esistenza della stessa differente posizione teologica presente nel clero: così come il “Movimento di Oxford” si oppose frontalmente al dogma dell’infallibilità pontificia, generalmente legato a una ripugnanza liberale per il Sillabo di Pio IX, allo stesso modo molti convertiti come lo scrittore Richard Simpson, direttore del periodico cattolico “The Rambler”, dimostrarono di possedere al riguardo la medesima sensibilità.
Comunque, al di là di queste differenziazioni, nel giro di un secolo il numero dei cattolici in Inghilterra era andato crescendo e la loro posizione si era ormai consolidata. Una rete di scuole elementari cattoliche si era estesa per le città inglesi ed erano ormai parte integrante del sistema d’istruzione del paese. La spontanea, libera generosità dei poveri aveva edificato poi le chiese che erano state finanziate, mattone su mattone, con i piccoli salari dei fedeli; questo fatto spiega l’intenso attaccamento all’unità parrocchiale che costituiva il perno della vita della comunità. I vecchi preti dal forte ascendente della bella tradizione irlandese ricevevano la riverenza e l’affetto di un popolo che voleva sentirsi nelle mani di capi forti e sicuri. Dopo anni di tenebra e dolore finalmente la resurrezione cattolica era compiuta.
Andreas Hofer (San Leonardo in Passiria, 22 novembre 1767 – Mantova, 20 febbraio 1810)
Oggi 206° anniversario della morte di Andreas Hofer che festeggiano i tirolesi, i loro simpatizzanti e tutti i liberatri del mondo, vanno ricordate alcune cose. Il governo della Baviera fantocco di Napoleone, stava intaccando le tradizioni etniche e religiose del Tirolo.
Già Giuseppe II aveva dovuto ritirare le sue misure illuministiche che avevano vietato alcune tradizioni come quella dello Herz Jesu, al quale il Tirolo era stato consacrato.
Il tracollo avvenne con i napoleonici. Il governatore era il bavarese Montgales, di antica famiglia della Savoia. Peggio di così non poteva capitare ai tirolesi poichè Montgales era più che "massone" e più che "giacobino", era membro della setta degli illuminati.
In Tirolo iniziò dunque la persecuzione religiosa: festività e tradizioni abolite, come ad esempio la messa cantata nella notte di Natale, l'uso di campane durante i funerali. Vescovi esiliati e preti sostituiti da altri compiacenti al governo bavarese, sbirri che entravano nelle chiese per controllare il consumo di candele e di olio santo.
Furti di oggetti preziosi, quadri e biblioteche, vendita dei beni all'asta, sacerdoti che si travestivano ed esercitavano la loro missione in segreto, come in URSS durante le persecuzioni.
E dietro alla persecuzione religiosa c'era l'etnocidio poichè il cattolicissimo popolo tirolese scandiva la propria vita sociale con le festività e gli impegni religiosi. Questa fu la molla dell'insurrezione, non la solita costosissima occupazione francese che basava tutto il suo sistema sociale sull'elevazione di una borghesia "dotta" nell'apparato burocratico di stato, a spese dei contadini. Che erano il 99% della popolazione.
Come non fare paralleli con la successiva invasione italiana? Lo straccio tricolore fu inventato in epoca giacobina, la malaugurata idea di creare uno stato tricolore era stata napoleonica.
Stessa concezione di stato burocratico, stessa "rivoluzione dei borghesi" e dei militari, a danno del 99% della popolazione che conosceva forme di sfruttamento mai viste in precedenza.
Stessa massoneria anti religiosa, personaggi simili in odore di luciferismo se non di satanismo vero e proprio.
Stesso progetto di formare un "uomo nuovo" togliendogli tutte le sue tradizioni etniche e popolari, da indottrinare come schiavo del nuovo Stato "sacrale" fin dalla più tenera età nelle scuole giacobine, che erano molto differenti da quelle "religiose" di Maria Teresa.
La "sacralità" passava dal divino e dalla religione, alla patria e quindi allo Stato. Era per esso che era giusto morire, era per esso che era giusto annichilire gli esseri umani. Tutto a vantaggio delle logge che presidiavano il nuovo tipo di Stato, più sfruttatore dei poveri, che mai in precedenza. E le tecniche si erano perfezionate, nel frattempo c'era stato Mazzini che aveva scritto la "bibbia" della nuova patria "sacrale" ed i suoi emuli l'avevano perfezionata.
Nel 1915 combattevano contro la persecuzione della religione, la visione della "Chiesa" in funzione patriottica e propagandistica. I preti dei paesi occupati, arrestati, dileggiati ed internati, per essere sostituiti con "preti di stato" compiacenti con il nuovo ordine.
Ecco perchè la figura di Andreas Hofer fu tanto usata dai tirolesi durante la prima guerra mondiale. Perchè i tirolesi volontari che si battevano per conservare la libertà del Tirolo nel 1915, ricalcavano le orme dei nonni che avevano combattuto con Andreas Hofer. Ed il nemico era molto simile, praticamente identico e per molti aspetti, peggiore.
Com’era facile ipotizzare l’articolo “Cari Fratelli Massoni” del Card. Ravasi ha scatenato, nelle sue conseguenze, un discreto polverone mediatico che l’abile Gran Maestro Bisi non sta mancando di cavalcare. Dopo aver risposto tramite una lettera, smielatamente e fraternamente, al Card. Ravasi, il Gran Maestro ha pure rilasciato un’intervista a Radio Radicale in cui son presenti delle affermazioni, oltreché gravissime, di rilevanza molto considerevole per gli sviluppi di quel che viene definito dialogo tra Chiesa e Massoneria. Qui di seguito è riportata l’intera intervista audio, in cui oltre a ribadire l’eccezionalità delle affermazioni del Ravasi, il Gran Maestro invita addirittura il Cardinale nella sede centrale del Grande Oriente d’Italia: Villa Il Vascello.
Alessandro Marzo Magno si è fatto mandare l'elenco dei decorati con il lugo di origine. Secondo tradizione KuK, i luoghi di origine sono Mähren, Niederöstereich, Oberösterreich, Salzburg, Schlesien, Steiermark, Tirol, Ungarn, Krain, Kroatien, Laibach, Militärgrenze, Bukowina, Galizien, Slavonien. Poi Venetien e Küstenland. Nell'ambito del Küstenland, per quasi la metà è specificato se di Trieste, Istria, Görz. Poi c'è Dalmatien, Böhmen, Fiume ed ...11 non classificati senza luogo di origine e dai cognomi senza caratteristiche certe per poterli attribuire. Ne risulta la seguente statistica:
Riteniamo che ciò possa mettere fine a certe discussioni, abbiamo provato a riclassificare anche questa lista etnicamente ma è molto difficile. Ad esempio nell'elenco dei feriti c'erano alcuni Furlan che sono presenti in Veneto, Friuli, Litorale, Slovenia, Croazia ed addirittura in Austria.
Voler fare separazioni etniche nell'Impero multilingue e multiculturale è molto difficile, sarebbe come separare tutti i componenti dell'acqua di mare. Ma fare statistiche sul luogo di nascita è possibile. Alcuni dei nostri nascevano dove capitava o meglio dove si trovava la loro famiglia sl momento della nascita.
Però le liste di leva dalle quali provengono questi dati, tenevano già conto di tutto e quando si legge BOUTZEK Ignaz, Venedig, Quartiermeister, significa che era presente a Venezia quando si formarono le liste di leva, pertanto il dato corrisponde abbastanza con il luogo di residenza.
Alba del 24 maggio 1915: i fedifraghi vengono svegliati a cannonate nelle città costiere dell'adriatico orientale.
Avevano consegnato la dichiarazione di guerra, 13-14 ore prima. Non erano ancora preparati alla guerra, Cadorna aveva avuto solo un mese di tempo per spostare la mobilitazione dalla Francia verso l'Austria. Ma gli impegni erano impegni ed essi dovevano dichiarare guerra entro un mese dalla firma del patto fedifrago e segreto di Londra, pena la perdita delle prime tranches di sterline.
Le vittime civili e militari di quel bombardamento erano state vendute in cambio di un mucchietto di sterline inglesi. Che comunque non sarebbero bastate perchè l'Austria non era morta come speravano i fedifraghi e resistette oltre ogni previsione. Quel mucchietto di sterline divenne una montagna, che finirono di pagare appena nel 1988.
Com’è oramai notorio Gianfranco Ravasi, dalle colonne del Sole 24 Ore, s’è lanciato in un’ambigua ma esplicita apologia della setta massonica. Il Cardinale ha ribadito per l’ennesima volta che il Magistero Pontificio, il quale dal 1738 commina una scomunica ipso facto ai massoni, non impedisce un prolifico dialogo su quei temi che fondano le proprie radici in quelli che il Ravasi definisce valori comuni tra Santa Chiesa e diabolica setta massonica: comunitarismo, beneficenza e lotta al materialismo. Tralasciando gli scontati ma doverosi commenti che lo scritto del Ravasi, tempestato di abnormi imprecisioni, meriterebbe; passiamo invece a rendicontare le reazioni suscitate dall’articolo in campo massonico. Innanzi tutto il sito web del Grande Oriente d’Italia è l’unico ad aver riportato l’articolo del Ravasi per intero in formato pdf [vedi qui]. Inoltre non sono mancati gli apprezzamenti mielosi del Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Stefano Bisi, il quale ha scritto a sua volta una lettera al Sole24Ore, qui di seguito riporto degli stralci di tale lettera tratti da un articolo pubblicato in merito dal sito web grandeoriente.it:
Il Gran Maestro Stefano Bisi ha scritto una lettera a Il Sole 24 Ore in relazione all’articolo del Cardinale Gianfranco Ravasi su Chiesa e Massoneria apparso nell’inserto culturale “Domenica” del 14 febbraio scorso. Nella lettera si esprime attenzione ed apprezzamento per quanto scritto dal Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura su alcuni valori comuni che, al di là delle posizioni e dei documenti ufficiali della Chiesa sulla Libera Muratoria, non impediscono un futuro pacifico dialogo fra le due Istituzioni. Scrive il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia-Palazzo Giustiniani al giornale milanese in merito all’articolo del Cardinale Ravasi: “Sono stato lieto di apprendere che senza pregiudizi e con l’ampia visione culturale che Lo contraddistingue, abbia parlato della Massoneria e, al di là delle puntualizzazioni e delle posizioni ufficiali e scritte della Chiesa, ampiamente note, abbia riconosciuto, senza idee preconcette, che fra le due realtà ci sono comunque anche dei valori comuni che uniscono, pur non annullando ipso facto quelle che sono le diverse visioni e le marcate se non nette differenze”. I valori comuni che uniscono sono quelli della dimensione comunitaria, della dignità umana, della lotta al materialismo, della beneficenza. Su queste basi si può auspicare un costruttivo dialogo nel pieno rispetto delle diverse identità.
Ebbene per completare il quadretto non manco di riportare anche i tweet [sì, i massoni 2.0 son fissati coi social network] che il profilo ufficiale del Grande Oriente d’Italia ha pubblicato in merito alla vicenda:
Osservate la forma dei pezzi di carbone (immagine qui sopra), il migliore era quello inglese e veniva fornito in "mattonelle", che poi si frantumavano in parte durante i trasporti. Fu in questo modo che fu possibile per i nostri, sistemare delle bombe dentro i pezzi di carbone che rifornivano le corazzate italiane affondate nei loro stessi porti, perchè tali pezzi erano molto grandi.
Il miglior carbone era quello inglese, quello canadese era equivalente, costava di meno ma faceva molto fumo. Il carbone americano era poco indicato, il carbone di scarsa qualità come quello dell'Arsa in Istria, non aveva utilizzi navali e nemmeno industriali, era poco più della carbonella vegetale. Eppure Mussolini volle farne un villaggio propagandistico, l'Italia ci rimise un mucchio di quattrini ed alla fine iniziò a diminuire le estrazioni.
Nemmeno il carbone tedesco era all'altezza di quello britannico ma entrambe le nostre marine imperiali andarono avanti per tutta la guerra con le abbondanti scorte pre belliche.
Gli italiani invece non ne avevano e quando l'attività dei sommergibili tedeschi si concentrò sulle loro carboniere che giungevano da Gibilterra, dovettero razionare il carbone, fermare alcune industrie, i treni secondari ed iniziare ad usare le riserve della regia marina. L'inflazione galoppò perchè contemporaneamente i loro debiti con gli alleati andavano alle stelle per le ingenti spese militari.
Le spedizioni di carne dall'Argentina erano ferme sempre per la guerra sottomarina, furono silurate molte navi che portavano grano ed altri rifornimenti in Italia mentre tutto il traffico del Mediterraneo era fortemente diminuito. Tentarono qualche espediente deviando la navigazione delle caroboniere in acque spagnole neutrali e navigando rasente la costa azzurra per giungere nel golfo di Genova, ma non riuscivano a presidiarlo in chiave antisom ed i sommergibili tedeschi erano capaci di fare la posta anche in quelle acque.
Il 1917 fu durissimo per gli italiani, se il ritmo degli affondamenti fosse continuato, prevedevano in estate, di esaurire tutto il carbone entro il gennaio del 1918. Il cibo fu razionato sia per i civili che per i militari, che si incazzarono moltissimo anche perchè erano i meno pagati del mondo, non potevano mantenere le famiglie che morivano di fame e diverse mogli si diedero ai furti insieme ai figli ed al turpe mestiere.
Questo accadeva nella primavera-estate, nello stesso momento che la crisi dei rifornimenti stava per mettere in ginocchio la GB. In estate fecero l'enorme sforzo della decima ed undicesima battaglia dell'Isonzo e ne risultarono tutti stremati ed esausti. Le rivolte operaie erano ubique, la più sanguinosa fu quella di Torino. I soldati erano stanchi, affamati e non avavano più intenzione di farsi massacrare sul filo spinato.
Molti di essi testimoniarono riguardo la "rotta di Caporetto" che se fossero rimasti a combattere sarebbero morti certamente e che la probabilità di essere fucilati per diserzione era molto inferiore. Pertanto, tanti si consegnarono gridanto viva la Germania e viva l'Austria. Almeno salvarono la pelle per il momento ma ci pensarono i loro compatrioti a farne morire quasi la metà in prigionia, non inviando loro i pacchi alimentari tramite la Croce Rossa.
Altri centomila prigionieri morirono per causa italiana ed andrebbero sommati alla cifra dei 680 mila morti fin qui conteggiata. E tutto per cosa? Finirono di pagare i debiti della prima guerra mondiale nel 1988, detengono il Tirolo dove la gente gli dice Los von Rom ed il Litorale dove la gente gli dice Maledeta Barca che ve ga portà.
Oggi ricorre il cosiddetto Darwin day, una sorta di celebrazione di stampo ideologico della figura del grande naturalista inglese Charles Darwin. Il Corriere della Sera, quotidiano sempre più ideologicamente schierato e sempre meno pluralista, ha ricordato ieri l’evento con una breve lezione del fisico Carlo Rovelli, da tempo impegnato nel cercare di occupare il posto lasciato vacante da Margherita Hack. Rovelli è un fisico di fama, che pratica scorribande piuttosto ardite nel terreno della teologia e della filosofia, generando un certo imbarazzo in chi ha una qualche dimestichezza con queste materie. Ma purtroppo l’Italia non ha divulgatori di ottimo livello, sia nel campo scientifico, che in quello filosofico, come gli anglofoni Paul Davies (cosmologo e fisico) e John Barrow (matematico).
Ebbene, nel caso specifico, secondo Rovelli le scoperte di Darwin avrebbero “messo in crisi l’idea di un Dio Creatore”. Nientemeno. E perchè? Forse che il fatto che qualcosa evolva, toglie valore alla domanda sulla sua origine? Il fatto che le realtà viventi abbiano una storia, cancella l’esigenza logica di comprendere quale sia la loro Causa prima, quale il fine, e donde provengano l’ordine del creato e le leggi naturali? L’evoluzione richiede che qualcosa vi sia. E non qualcosa da poco: l’universo, e la vita. Ma da dove vengono l’universo e la vita? Celeberrimi biochimici come Erwin Chargaff sostenevano che chi ritiene di aver risolto questo mistero, chiamando in causa il signor Caso, fa soltanto sorridere. Eppure, non molti giorni prima di celebrare il Darwin day nell’ottica piuttosto ideologica che si è detta, e precisamente il 26 gennaio,
sempre sul sito del Corriere, Rovelli si era soffermato sulla figura G. Eduard Lemaître, definendolo “il primo scienziato a parlare di uovo cosmico e di espansione dell’ universo”. Lemaître è dunque, anche per Rovelli, il padre della cosmologia moderna, dell’idea di evoluzione del cosmo stesso. Ed era anche un prete: non aveva compreso Darwin, come invece ha fatto Rovelli? La verità è molto più complicata: anzitutto perchè Darwin non si ritenne mai ateo, bensì agnostico, e questo per motivi esistenziali (la morte della piccola figlia Anna), più che per motivi scientifici in senso stretto; in secondo luogo perchè il suo amico-nemico, coscopritore della selezione naturale, Sir Alfred Wallace, rimase invece sempre convinto dell’esistenza di un Creatore e dell’unicità dell’animale razionale-uomo; in terzo luogo perchè molti biologi evoluzionisti, ai tempi di Darwin come oggi, professano la fede in un Dio Creatore; in quarto luogo perchè l’evoluzionismo ha varie versioni, ha subito numerose modifiche nel corso della storia, e non è una spiegazione di per se stessa onnicomprensiva; in quinto ed ultimo luogo, per non farla troppo lunga, perchè il darwinismo generò molte critiche, alcune delle quali ancora valide, non solo per motivi scientifici, ma anche perchè Darwin stesso unì talora alle sue considerazioni naturalistiche, visioni filosofiche del tutto errate (per esempio nel campo della linguistica) e qua e là, magari anche in modo contraddittorio, intrise di una mentalità piuttosto razzista nei confronti, ad esempio, degli irlandesi, delle donne e di certe etnie di selvaggi. Uno dei suoi “avvocati” odierni, Orlando Franceschelli, deve quantomeno ammettere “l’ambiguità dello stesso Darwin, certo non del tutto immune dai pregiudizi dell’Inghilterra vittoriana e imperiale in cui ha vissuto e operato”, mentre storici come Léon Poliakov hanno gioco facile non solo nel citare passi di Darwin inequivocabilmente razzisti, ma anche nel ricordare il suo rapporto con il cugino Galton, padre dell’eugentica, o con Thomas Huxley, per il quale i neri sarebbero paragonabili ed anzi superiori ai bianchi, ma solo nelle gare di morsi. Al di là delle strumentalizzioni del pensiero di Darwin, inziate già all’epoca da parte di Marx ed Engels, e proseguite nel corso degli anni, il Darwin day può essere una bella occasione per far conoscere un sito neonato, www.filosofiaescienza.it, nel quale, in modo piuttosto orginale, sono raccolti articoli e documenti utili ad indagare questa interessantissima tematica del rapporto tra scienza-filosofia-teologia, in modo serio, non troppo complicato, e soprattutto rispettoso del pensiero di grandi scienziati di ieri e di oggi. Rovelli ci troverà premi Nobel per la Fisica, astrofisici di fama mondiale, come Piero Benvenuti, genetisti come Francis Collins, e tanti altri che non approverebbero affatto le azzardate affermazioni filosofiche e teologiche che si trovano spesso mescolate ai suoi contributi, certamente ottimi, di tipo scientifico. (da: La Nuova Bussola quotidiana)
Da: Randal Keynes, Casa Darwin, Einaudi, 2007, p.315 e 324