lunedì 2 febbraio 2015

Mitografia risorgimentale in Giorgio Napolitano (seconda e ultima parte)

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Nota redazionale: Davide Canavesi in questo articolo completa, approfondendoli, alcuni temi già affrontati in una conferenza di formazione militante tenuta all’Università Cattolica del Sacro Cuore il 22 aprile 2009. Date le recenti dimissioni di Giorgio Napolitano ci sembra necessario ricordare alcuni degli aspetti più nefasti, mendaci e deteriori del suo “magistero” politico.  Qui la prima parte.
I bimbi d’Italia si chiaman Balilla 
Il terzo mito risorgimentale evocato nella strofa s’intreccia in maniera singolare con la stessa storia della composizione dell’inno di Mameli. Nel 1847, infatti, a Genova Mameli partecipò ai festeggiamenti per il centunesimo anniversario della ribellione del sestiere di Portoria contro l’esercito austro-sardo e in quell’occasione, per la prima volta, la sua composizione ebbe diffusione popolare. La suddetta ribellione fu un episodio marginale della Guerra di Successione austriaca (1740-48), scatenatasi a causa dell’occupazione della Slesia da parte di Federico II di Prussia durante il travagliato periodo della successione di Maria Teresa d’Austria al padre Carlo VI. Lo scontro, come è tipico per questi conflitti settecenteschi, era stato poi alimentato dall’intervento delle potenze borboniche (Francia, Spagna e Napoli), a fianco del sovrano prussiano, e dall’impegno inglese e russo in favore dell’alleato asburgico. La presenza di un forte esercito spagnolo in pianura padana forzò il re di Sardegna, Carlo Emanuele III, a rompere gli indugi, scendendo in guerra a fianco degli austriaci tramite il trattato segreto di Worms (1743), col quale rinunciava a pretese dinastiche sul Ducato di Milano e riceveva in cambio un’ampia fascia di territorio milanese occidentale e il diritto di acquisire il marchesato di Finale, allora in mano alla Repubblica di Genova. Durante le fasi finali della guerra, nel settembre del 1746, il plenipotenziario imperiale Antoniotto Botta Adorno arrivò ad occupare la città di San Giorgio per bloccare la via di fuga all’esercito franco-ispano, impantanato in pianura padana. La città cedette senza subire aver sentito un colpo di fucile ma i genovesi dovettero pagare cara la loro salvezza e sopportare anche le ire vindici del generale Botta Adorno, incattivito con la Repubblica che aveva condannato a morte il padre. Furono in particolare le esose condizioni economiche richieste alla città e timorosamente accettate dai governanti a rendere particolarmente fastidiosa la presenza dell’esercito austriaco tra le mura della città ligure. In questo contesto il 5 dicembre Botta Adorno, in esecuzione di un ordine, diede alle truppe disposizione d’inviare alcuni cannoni in Provenza facendoli passare imprudentemente per il rione popolare di Portoria. Tra le strade del sestiere il mortaio Santa Caterina, troppo pesante, sprofondò nel fango, costringendo i soldati a fermarsi e cercare di sottrarlo alla melma. Incapaci di sollevarlo, i soldati costrinsero con insulti e spintoni alcuni genovesi lì presenti ad adoperarsi per liberare il cannone. A quel punto, così almeno vuole la leggenda, un giovinetto del popolo, stanco delle angherie, avrebbe urlato: “Che l’insé?” (“Cominciamo!”), scagliando nel frattempo un sasso contro le truppe. Il coraggioso gesto del fanciullo avrebbe rinvigorito il popolo genovese che, con le sue sole forze, diede vita a una rivolta spontanea, priva persino dell’ausilio del Senato genovese, che comportò, il giorno 10 dicembre, l’uscita delle truppe del Botta Adorno dalla città verso la Val Polcevera. Centouno anni dopo i patrioti mazziniani genovesi, di cui facevano parte Mameli e Bixio, davano vita a una fastosa manifestazione presso il quartiere di Portoria in onore del fatto d’armi. In quell’occasione allo sventolio delle bandiere tricolori con la scritta mazziniana “Dio e Popolo” si accompagnò per la prima volta l’esecuzione dell’ Inno, che il giovane Goffredo aveva composto tre mesi prima (8 settembre 1847) per contrastare la diffusione di un canto filosabaudo in onore di Carlo Alberto. L’inno, evocando la figura del giovinetto di Portoria, da una parte utilizzava una figura radicata nel contesto genovese che in quegli anni i mazziniani avevano incominciato abilmente a sfruttare, dall’altra fungeva da cassa di risonanza creando un mito sfruttabile per la causa italiana. Il mito aveva avuto diffusione soprattutto nell’ambito del repubblicanesimo risorgimentale genovese in quanto utilizzabile sia in chiave antiaustriaca che in chiave antisabauda, dato che l’esercito di stanza a Genova nel 1746 era composta da austriaci ma i piemontesi non avevano certo rispettato i confini e la sovranità genovese[1](1). Naturalmente il moto del 1746 non aveva niente a che vedere con una presunta identità nazionale italiana, bensì era stato causato da un’occupazione militare dura e da un’ostilità veemente dei genovesi verso i vicini Savoia, i quali non avevano mai celato le loro brame sulla Liguria. Ma cosa c’è di vero nella vicenda del fanciullo, passato alla leggenda col nome di Balilla? Si può affermare con un buon grado di certezza che al moto del 5 dicembre 1746 parteciparono anche dei ragazzi, come testimoniato anche dalla relazione del Botta Adorno al governo austriaco[2](2). E’ da segnalare però che il nome di Balilla venne creato solo in pieno Risorgimento dai patrioti liguri, in connessione alla crescente popolarità di questa figura. Il nome potrebbe essere in realtà un appellativo popolare utilizzabile per qualsiasi fanciullo, dato il significato di “monello”, oppure la distorsione di Baciccia, ossia Giovanni Battista. Dopo che il “Canto degli italiani” era divenuto l’inno ufficiale delle tendenze repubblicane antisabaude, il mito di Balilla incominciò a divenire una vera e propria mania per gli eruditi genovesi, che profusero nel resto del secolo tutti i loro sforzi per scoprire quale fosse la reale identità del ragazzo di Portoria. Alcuni sostennero che il suo vero cognome era Perasso ma, in seguito a diverse ricerche, due furono i Giambattista Perasso candidati: uno, in base ai dati di un processo, era nato nel 1729 a Pratolungo di Montoggio, ma si scoprì essere figlio di un console e non certo un popolano. Riguardo all’altro, nato nel 1735 a Portoria, non si hanno molte notizie ma una domestica per lungo tempo si spacciò per sua nipote esibendo un falso attestato del Balilla e ricevendone in cambio una pensione dal comune di Genova. L’incertezza rimase molta, soprattutto in considerazione dello scarso accordo tra le varie fonti, ma la figura si era ormai affermata come leggendaria, tanto da venire recuperata nel ventennio fascista come modello di coraggio per i fanciulli[3](3). Il municipio di Genova e il ministero della pubblica istruzione nel 1926 chiesero comunque alla “Società Ligure di Storia Patria” che si facesse chiarezza sulla vera storia di Balilla in modo da produrre un libro atto a rinfocolare l’ardore patrio dei balilla[4](4). Le ricerche condotte dalla Società Ligure riuscirono a riportare in luce un manoscritto contente una cronaca anonima in versi latini dell’epoca, intitolata Bellum Genuense, nel quale si faceva chiarezza sulla vera identità del Balilla: “cognomine dictus Mangiamerda fuit primus certaminis autor[5](5). Naturalmente lo spietato esito della ricerca spiacque particolarmente agli organi fascisti che pertanto non ne diedero notizia nella pubblicazione ufficiale dell’Opera Nazionale Balilla[6](6) mentre in altre censurarono la coprofagia del nome, mutandolo in un più edibileMangiapane[7](7). Il mito ha bisogno dell’intatta purezza e non della prosaica realtà!

Il suon d’ogni squilla i Vespri suonò

E’ straordinario vedere come il Risorgimento italiano sembri aver complottato con il calendario per offrire ai propri militi l’occasione di appoggiare proposte politiche eversive su anniversari di eventi storici. Qualcuno si appellerebbe allo “spirito” della Storia, altri ai “corsi e ricorsi storici”ma noi ci limitiamo a constatare come non sia difficile scovare nei meandri della memoria l’occasione per sfruttare ideologicamente fatti storici vecchi di secoli. Il quarto mito storiografico risorgimentale è legato infatti ai Vespri siciliani e all’occasione del loro seicentesimo anniversario nel 1882, data molto significativa per le prime vicende del neonato stato. L’evento storico menzionato s’inserisce nel contesto degli scontri di potere nella penisola italiana nel corso della seconda metà del XIII secolo, dopo la morte di Federico II di Svevia (1250). Contro le pretese dei sovrani ghibellini, eredi dello Stupor Mundi (Manfredi, Corrado IV, Corradino), i pontefici dell’epoca, perlopiù di nascita francese, chiesero l’intervento di Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia san Luigi IX. Il partito guelfo-angioino, supportato dai comuni, riuscì definitivamente  ad avere partita vinta contro i ghibellini nelle battaglie di Benevento (1766) e Tagliacozzo (1768), così da rendere Carlo d’Angiò in grado di esercitare il suo dominio sul Regno di Sicilia che, nonostante la dizione, comprendeva sia l’Italia meridionale che la Sicilia. Secondo la vulgata storica il sovrano governò in maniera dispotica i suoi nuovi domini, deludendo soprattutto le speranze degli isolani, abituati agli anni di “buon governo” degli Hohenstaufen. In realtà, secondo l’opinione di recenti storici, non si può oggettivamente parlare di cattivo governo angioino[8] ma certamente Carlo, spostando il baricentro del regno da Palermo a Napoli per meglio influenzare la politica peninsulare e avere voce in capitolo nell’elezione dei pontefici, deluse l’animo dei siciliani. Lo stato d’agitazione a Palermo veniva controllato col ricorso a invadenti forze militari di “polizia” che spesso dimostravano arroganza nei confronti degli abitanti dell’isola. La sera del 31 marzo 1282, nella settimana di Pasqua, uno di questi casi causò l’esplosione dell’ira popolare: sul sagrato della chiesa del Santo Spirito a Palermo un soldato francese, tale Drouet, perquisì con veemenza e con malizia una donna, sospettandola di portare delle armi nascoste sotto il vestito. Il giovane sposo, irato per il comportamento irrispettoso verso la moglie, estrasse un pugnale e infilzò il francese ricevendo il plauso della folla che, inferocita, diede vita durante la notte a una forsennata caccia al francese per tutta Palermo che si concluse la mattina seguente con la proclamazione dell’indipendenza siciliana e  l’invito all’insurrezione di tutta l’isola. Gli insorti siciliani, rimanendo delusi dall’appello al filoangioino pontefice Martino IV, ottennero appoggio da Pietro d’Aragona il quale doveva aver intravisto nella Sicilia un obiettivo di primo ordine nel suo tentativo di dominare la politica mediterranea. Ciò diede vita al contrasto tra gli Aragonesi e gli Angioini per il dominio dell’Italia del Sud e della Sicilia che sarebbe sfociata nella guerra dei 90 anni, destinata a durare fino al XV secolo. La rilevanza che assunse la vicenda all’interno della propaganda risorgimentale ebbe in un primo momento una risonanza solo locale, soprattutto per merito di Michele Amari, autore de “La guerra del Vespro” nel 1824. Già l’Amari comunque segnalava quegli elementi che avrebbero potuto essere utilizzati per assecondare l’emergere dell’ideologia risorgimentale: l’odio antifrancese, la rivendicazione siciliana contro Napoli e l’ostilità vero la Santa Sede[9]. Relativamente al secondo punto è da ricordare come, dopo secoli di divisione, il regno di Sicilia e quello di Napoli erano stati riuniti col Congresso di Vienna (1815) nel Regno delle Due Sicilie e pertanto la rivendicazione di “sicilianità” era spesso spia di atteggiamento antiborbonico. L’opera dell’Amari diffuse la questione nell’ambito ben più ampio della produzione letteraria risorgimentale: Francesco Hayez trasse dalla vicenda una nota tela nel 1822, Giovanni Battista Niccolini compose una tragedia nel 1832 e Giuseppe Verdi la diffuse al più grande pubblico con un’opera nel 1855. In particolare è da segnalare come il filone neo-ghibellino e repubblicano diede delle vicende una versione molto particolare. Essi infatti attenuarono la spontaneità del moto portando alla ribalta la figura di Giovanni da Procida, già medico della Scuola Salentina e consigliere di Federico II, divenuto poi sostenitore di Pietro d’Aragona e cancelliere della Sicilia. Nella trasfigurazione risorgimentale Giovanni da Procida divenne una sorta di cospiratore mazziniano: la donna oltraggiata, secondo alcuni chiamata Imelda, sarebbe stata infatti la figlia dello stesso Giovanni, da lui inviata per far scattare la rivolta. Senza forzare le vicende è comunque probabile che dietro il moto vi fossero anche gli interessi dei baroni e dei dignitari legati allea precedente dinastia sveva, che vedevano in Giovanni da Procida un punto di riferimento. Naturalmente le rivendicazione risorgimentali del mito travisano la realtà storica e palesano molte incertezze, come già mostrato da Leonardo Sciascia[10](10): nei moti del Vespro siciliano è impossibile trovare alcun tipo di rivendicazione italiana né patriottica[11] (11), così come è difficile scovarvi un’ostilità anticlericale, dato che ancora prima di rivolgersi a Pietro  d’Aragona i siciliani tentarono di guadagnare l’appoggio del pontefice, del quale formalmente la Sicilia era un feudo. Ancor più decontestualizzata è l’ostilità francese che si limitava ad essere al massimo un odio verso la casa degli Angiò e non certo verso una nazione, concetto ancora inesistente. Peraltro non bisognerebbe dimenticare come gli stessi siciliani, ben lungi dal bramare una totale e impensabile indipendenza, favorirono l’arrivo nel loro suolo della dinastia aragonese. Questo fu uno dei motivi per il quale alcuni eminenti pensatori novecenteschi, figli dell’idealismo filosofico, considerarono con ostilità il risultato del Vespro: questo infatti aveva chiuso le porte alla Francia, da dove sarebbe arrivato il progresso dello “spirito” filosofico, e le aveva invece aperte alla Spagna, che qualche secolo più tardi sarebbe invece stata portatrice della controriforma e della cultura barocca[12]. Dicevamo all’inizio però che una coincidenza di date servì ad accreditare ancor più i Vespri come prodromo del Risrgimento. Nel 1882 infatti, in occasione del seicentesimo anniversario dei moti, a Palermo si promossero varie iniziative che però non avevano visto inizialmente l’adesione di molte persone.In quello stesso anno però a causa dello smacco subito dai francesi, che avevano appena occupato Tunisi, ambita dall’Italia crispina, questa rivoluzionava la sua posizione nello scacchiere europeo: abbandonava il legame con la Francia, che durava dal 1859, per stringere con la Prussia e l’ex-nemica Austria la Triplice Alleanza. Il mito del Vespro si prestava bene pertanto alla celebrazione del nuovo assetto italiano, data la sua carica antifrancese e filogermanica, enfatizzando la simpatia dei siciliani insorti verso gli Hohenstaufen. In quello stesso anno pertanto al dominante mito antigermanico di Legnano si sostituiva quello antifrancese dei Vespri: anche i miti hanno la loro storia e i loro reciproci conflitti!
  
Davide Canavesi
[1] Indro Montanelli segnala come il moto antiaustriaco sarebbe stato tutt’al più una sollevazione municipale e che “probabilmente Balilla lo avrebbe lanciato anche contro i piemontesi, se fossero stati loro a rimanere a Genova”, I.Montanelli, Storia d’Italia, vol. III (1600-1789), Milano, RCS quotidiani 2003, pp. 386-87.
[2] “La prima mano onde il gran incendio si accese fu quella di un picciol ragazzo, quel die’ di piglio ad un sasso e lanciollo contro un ufficiale tedesco”
[3] L’Opera Nazionale Balilla inquadrava i bambini dagli 8 ai 18 anni, divisi in balilla e avanguardisti. L’inno dei balilla era il significativo “Fischia il sasso”.
[4] La vicenda è stata ricostruita da F.Venturi, Settecento riformatore, Milano, Il Giornale-Biblioteca storica 2008, vol. I,  pp. 199-200. Da vedere anche: G.Assereto, Il mal della pietra, in “Studi Settecenteschi”, 17 (1997), pp. 335-365.
[5] Il documento è contenuto nell’archivio di Palazzo Rosso a Genova sotto segnatura Mss. 1160.
[6] F.Ridella, Giambattista Perasso soprannominato Balilla eroe popolare genovese identificato nella tradizione e nella storia, Genova, Opera Nazionale Balilla 1935. Opera definita dal Venturi “vero capolavoro di vaniloquio”.
[7] U.Villa, Guerra di Genova contro i tedeschi. Importanti manoscritti rinvenuti il 4 marzo 1926, Genova, 1926.
[8] “Una più attenta e più spregiudicata lettura delle fonti sembrerebbe infatti suggerire, nella politica di Carlo d’Angiò, non solo il tentativo di dare corpo a una amministrazione efficiente, ma il progressivo passaggio della cosa pubblica dalle mani degli ufficiali regi a quelle dei cittadini”, S.Tramontana, Gli anni del Vespro: l’immaginario, la cronaca, la storia, Bari, Dedalo 1989, p. 16.
[9] Il ministro della polizia borbonico, il marchese Del Carretto, già si era premurato di segnalare la pericolosità dell’opera: “Dannabile per ogni verso, oltraggiando spesso la Santa Sede, fomentando discordie, sciogliendo i vincoli con i  quali Sua Maestà si occupa di stringere i popoli in uno”
[10] L. Sciascia, Il mito dei Vespri siciliani da Amari a Verdi, «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», LXIX (1979), vol. II, p. 183.
[11]“Essi furono una bella impresa pienamente giustificata dai soprusi angioini. Ma il patriottismo non ci aveva nulla a che fare”, I.Montanelli, Storia d’Italia, vol. II (1250-1600), Milano, RCS quotidiani 2003, p. 25.
[12] Si tratta di Gramsci, di Vittorini e di Croce. In particolare di quest’ultimo è bene segnalare il giudizio: “Il Vespro che molti ingegni poco politici e molto retorici esaltano ancora come un grande avvenimento storico, laddove fu principio di molte sciagure e di nessuna grandezza”.

Fonte: http://radiospada.org/