lunedì 25 marzo 2013

M. Liberatore: Degrado brutale d. società derivante dal naturalismo polit.

 

 

R. P. Matteo Liberatore d.C.d.G.

Da: La Chiesa e lo Stato (2a ed.) Napoli 1872, cap. II, pag. 170-183.

CAPO II. — DEL NATURALISMO POLITICO.

ARTICOLO VI.

Degradamento brutale della società, derivante dal naturalismo politico.

I.

Assunto.

Noi cominciammo dal considerare il naturalismo politico per sè stesso, e ne vedemmo l'intrinseca malvagità. Passando poi alle sue conseguenze nell'ordine sociale, ne scoprimmo i rei effetti nell'oscuramento dell'idea di diritto, a cui sostituisce la forza, incarnata in due falsi principii, l'uno de' quali eleva la pubblica opinione a suprema norma dell'onesto, l'altro legittima i fatti compiuti per ciò solo, che sono compiuti. Quindi vedemmo il danno che arreca al potere sovrano e alla libertà de' popoli; e l'invasione che esercita sui diritti stessi privati dell'autorità paterna.
Se non che, per gravissimi che sieno cotesti mali, non sono essi l'estremo termine, a cui il naturalismo politico mena la società, in virtù della sua malignante natura. Un tal termine è la corruzione piena dello stesso scopo sociale, per via di un vero imbestialimento del civile consorzio. L'annunzio di una tanta perversione ci sembra racchiuso in quelle parole, colle quali il Pontefice ci descrive a che riesce da ultimo una società, priva dei lumi e dei conforti della Chiesa: «Chi non vede, egli dice, e appieno non sente, che una società, sciolta dai vincoli della religione e della vera giustizia, niun altro proposito può avere, fuorchè lo scopo di acquistare ed accumular ricchezze, e niun'altra legge nelle sue operazioni, fuorchè una indomita cupidigia di servire alle proprie voluttà e comodità? Per questo cotesti uomini, con odio veramente acerbo, perseguitano le religiose famiglie, comechè benemerite al sommo della cosa cristiana, civile e letteraria, e vanno follemente dicendo che elle non hanno alcuna ragione di esistere [1].» Qui il S. Padre ci ammonisce, che una società, la quale siasi separata dalla religione, e che per conseguenza abbia perduta la verace idea di giustizia non può prefiggersi altro scopo, se non l'acquisto e l'accrescimento della ricchezza, nè seguire altra legge nel suo operare, salvo che l'utile. Cagione di ciò si è, perchè una società, la quale siasi separata dalla religione, non può riconoscere altro fine negli associati, se non la voluttà e il ben essere temporale. Onde consèguita che essa dee nutrire acerbissimo odio contro le religiose famiglie, e non trovare in loro ragione alcuna legittima di esistenza. Perversione del fine sociale; cagione prossima di tal perversione; effetto immediato che ne procede: son questi come tre capi, in cui può risolversi il tratto dell'Enciclica, testè commemorato.
Se il S. Padre si fosse contenuto ad affermare il semplice fatto, noi a comprovarlo non avremmo avuto uopo di altro, che di richiamare gli sguardi al turpe andamento, in cui è entrata l'Italia, merce l'ordine morale introdottovi dalla rivoluzione. Ma il S. Padre afferma qualche cosa di più. Egli afferma la necessità logica di un tale pervertimento della società: Nullum aliud propositum habere posse. A noi dunque non basta il dimostrare che così è; ma è uopo dimostrare che così dev'essere: vale a dire che la separazione da Dio e dalla Chiesa mena necessariamente all'ignoranza del fine individuale, e quindi alla perversione del fine sociale; e che da ciò appunto nasce l'abborrimento agli Ordini religiosi, che si manifesta negli uomini della rivoluzione. Questo triplice argomento sarà appunto la materia del presente articolo; nel quale apparirà, come inevitabile conseguenza di quel pestilenziale principio, il degradamento brutale della società; sicchè essa, in cambio di essere coetus hominum iure sociatus, sia veramente silva frementium bestiarum.

II.

La società, sciolta dai vincoli della religione, non può considerare altro fine ne' suoi membri, se non il godimento sensibile.

Lo stato sociale non è fine per l'uomo, ma mezzo. Se fosse altrimenti; l'uomo, moralmente riguardato, non sarebbe persona, cioè un essere stimabile per se stesso e termine dell'utilità che proviene dal suo operare. Egli più veramente sarebbe in condizione di cosa, cioè di un essere ordinato ad utile altrui, e in tanto apprezzabile, in quanto vale a procurarlo o promuoverlo. L'uomo per natura tende alla società; ma vi tende, perchè in essa scorge per sè e per gli altri una tutela e un complesso di aiuti, che gli assicurino il libero esercizio de' proprii diritti, e gli agevolino il conseguimento della propria perfezione. E veramente, la società è peritura, nè si stende più in là dei limiti della vita presente: sulla terra ella nasce, e sulla terra finisce. L'uomo per contrario, secondo la parte migliore di sè medesimo, è immortale; ha i piedi sulla terra, ma il capo nel cielo; prende origine dal tempo, ma si continua nella eternità. Se dunque non vuolsi pervertire l'ordine della ragione, e sottoporre il principale all'accessorio, l'eterno al temporale; la società non può concepirsi altrimenti, che come mezzo pel bene dell'uomo, e quasi un sussidio a lui dato per compiere meglio quaggiù la sua transitoria carriera: Non est bonum esse hominem solum; faciamus ei adiutorium simile sibi. Queste divine parole, proferite per ispiegare lo scopo della società fondamentale, cioè a dire della famiglia, ben possono estendersi a significare eziandio lo scopo del coronamento di quella, cioè a dire della società civile. La ragione è identica per entrambe.
Or se la società è ordinata al bene dell'uomo, e il bene si confonde col fine; che farà la società nell'atteggiarsi, a compiere verso l'uomo il debito di questa sua ordinazione? Lo riguarderà, qual egli è veramente, come un essere avente destini eterni, ed avviantesi cogli atti di questa vita ad uno scopo oltramondano, che risponda alla parte spirituale ed imperitura di lui? Dove la società così faccia, ella non potrà in guisa alcuna prescindere dalla religione; la quale mostra appunto qual è quello scopo, e prescrive le leggi, giusta le quali l'uomo dee tendervi e predisporvisi. Il naturalismo politico, la separazione dello Stato dalla Chiesa, sarebbe del tutto escluso in tale ipotesi. Acciocchè esso abbia luogo, è mestieri che la società rimuova da sè l'anzidetto riguardo, e consideri l'uomo, almen socialmente, come un essere ristretto alla sola vita presente, e che compie quaggiù ogni sua destinazione. Non negherà ella per ciò l'immortalità dell'anima e la beatitudine della vita avvenire; ma ne prescinderà del tutto, terminando la sua veduta coll'orizzonte terreno e non mirando nell'uomo, se non ciò che si riferisce allo spazio ed al tempo.
Ciò basta per avverare la proposizione, da noi affermata nel titolo di questo numero. Imperocchè terminata la veduta nella sola vita presente, la vita presente da relativa si trasforma in assoluta; giacchè non più si subordina ad altro scopo più alto, ma si riguarda per sè stessa, come termine ultimo, che sta da sè, e da sè dà legge all'operare umano. Il bene dunque di lei, e non altro, sarà quel fine, a cui la società considera ordinato l'uomo, in aiuto del quale ella viene. Ora il bene della vita presente, considerato come fine, si risolve nel godimento sensibile. La ragione è chiara e brevissima; perocchè bene è ciò che termina e quieta la tendenza naturale, e la tendenza naturale dell'uomo, rispondente alle cose di quaggiù, è appunto la sensibile, termine della quale è il godimento.
Dirassi: ma non ci ha nell'uomo la tendenza altresì razionale, la tendenza ai beni dello spirito? E la vita presente non offre eziandio materia per soddisfarla? Ora la società, collo sciogliersi dai vincoli religiosi, non ha inteso dimezzar l'uomo, ma accettarlo e riguardarlo nell'interezza della sua natura. Quest'interezza di natura fa sì che egli, se colla parte inferiore tende al godimento, colla superiore tenda al perfezionamento morale, all'esercizio della virtù, al mantenimento della giustizia. La società adunque può riguardare nell'uomo qualche cosa di più nobile, che non è il godimento sensibile, benchè prescinda da ogni ordine alla vita avvenire. Chi così ripigliasse, mostrerebbe d'aver dimenticato lo stato della quistione. Qui non si tratta di ciò, che porta la natura umana riguardata in sè stessa; ma bensì di ciò, che ella presenta ad una società, la quale abbia fatto divorzio dalla religione: e neppure si tratta degl'intendimenti, che la società può per avventura prefiggersi, ma bensì degli effetti necessarii della condizione, in cui ella si costituisce. Ora, benchè l'uomo, oltre la tendenza sensibile, abbia tendenza razionale, e benchè la società desideri che anche questa si appaghi; tuttavia nè quella tendenza razionale può aver valore di fine, nè quel desiderio della società può essere efficace, quante volte ella siasi separata da ogni riguardo religioso. A provar ciò basterebbe ricordare quel che fu qui dimostrato nel secondo articolo, vale a dire che, separata la società dalla religione, il concetto stesso di diritto e di moralità si oscura in essa e si perde. Perocchè, venuto meno un tal concetto, qual tendenza razionale volete voi più che predomini nelle mire private o pubbliche dell'umano consorzio? Ma noi non abbiamo uopo di ricorrere a tale argomento; ci basta insistere in quello stesso, che poco innanzi è stato accennato. Imperocchè mutato da relativo in assoluto l'aspetto della vita presente, la tendenza razionale non può avere altro ufficio, che di servire come mezzo all'appagamento della sensibile. Ciò sorge inevitabilmente dalla necessaria coordinazione de' fini, e dalla natura dell'obbietto che corrisponde alla ragione. Uno essendo l'uomo, benchè dotato di diverse tendenze; uno dev'essere il fine, che in lui si riguardi come supremo, e a cui tutte le sue tendenze conviene che immediatamente o mediatamente si riferiscano. Ora, fermando l'occhio nella sola vita presente, è impossibile cercare un tal fine nel bene della ragione. Ciò vien persuaso da doppio motivo. Prima, perchè il bene della ragione è il bene di ordine, e l'ordine esce necessariamente fuori dei limiti di questa vita e non altrove si appunta, che in Dio. Secondo, perchè la natura di fine esige di quietare la tendenza; e il bene relativo alla tendenza razionale non ci arreca quiete, se non in quanto si collega col suo coronamento nella vita futura. Segregato da lei il bene della ragione, generatore di virtù, invece di appagare conturba l'animo ed apparisce disordine. Ricordiamoci le disperate parole, che Bruto proferì prima di darsi la morte a Filippi: Virtù, tu altro non sei, che un vano nome. L'infelice stoico non riguardava nell'uomo, che la sola vita presente. Posto un tale errore, la virtù considerata come fine, non potea agli occhi suoi aver valore nè senso; essendo ripugnante alla ragione di fine che esso torni in miseria non in felicità del subbietto. Conseguenza inevitabile di ciò si è, che la virtù, rimosso il pensiero della vita futura, resta ragione di semplice mezzo in ordine a quel bene, che realmente si ottiene e si compie nella vita presente; e un tal bene non può essere altro che il godimento sensibile. E veramente, riferito l'uomo alla sola vita presente, non offre altro che il composto animato, e il composto animato, come tale, non si estende di là dai sensi. Avremo dunque la dottrina di Bentham: «La virtù non è un bene se non pei piaceri che ne derivano, il vizio non è un male, se non pei dolori che ne provengono [2]. La virtù, separata dall'idea di piacere e d'interesse, non si sa che cosa sia [3].» La qual dottrina è appunto la conseguenza che il Pontefice afferma derivare in una società, che siasi separata dalla religione: Nullam aliam in suis actionibus legem sequi, nisi indomitam animi cupiditatem inserviendi propriis voluptatibus et commodis.

III.

La società, la quale non guarda ne' suoi membri altro fine, che il godimento sensibile, non può avere altro proposito, che quello di acquistare ed accumulare ricchezze.

Pervertito agli occhi della società il fine degl'individui associati, uopo è che ella perverta altresì il suo scopo. Ciò nasce dall'idea stessa di società; la quale, come fu detto, è quasi una macchina destinata a coadiuvare co' suoi ingegni l'asseguimento del fine ne' membri che la compongono. Sotto questo rispetto, non incongruamente direbbesi che il fine della società, al trar de' conti, s'immedesima col fine dell'uomo; non essendo altro la società, che l'uomo ingrandito nelle sue forze per la scambievole unione cogli altri. La sola differenza è, che la società non riguarda un tal fine se non esternamente, col procurare, quanto è da sè, agli associati quei mezzi, che li aiutino a conseguirlo. Adunque, se ella non ravvisa nell'uomo altro fine che il godimento sensibile, suo còmpito sarà l'assicurarne ed ampliarne i mezzi e le vie. Ora i mezzi e le vie del godimento sensibile non si trovano altrove che nella ricchezza; non essendo altro la ricchezza, che un cumulo di cose utili materialmente, nè misurandosi altrimenti l'utilità materiale, che dall'attitudine a produrre godimento. Quindi giustamente osservano i barbassori della filosofia sensualistica, che ad ogni porzione di ricchezza corrisponde un'analoga porzione di ben essere materiale, e ad ogni porzione di ben essere materiale un'analoga porzione di godimento sensibile. La società dunque, sciolta dai vincoli della religione, non può avere altro scopo che la ricchezza, siccome mezzo a render gioconda e piena di sollazzi la vita.
In una società così fatta la cura dei governanti, invece di cercar leggi che mantengano la giusta proporzione tra i doveri e diritti rispettivi dei sudditi, e assicurino l'ordine morale, base del vero vivere cittadino; sarà tutta rivolta a procurare agiatezze e piaceri. Industria, commercio, arti, abbellimenti di edifizii e di strade, facilità di comunicazioni, teatri, ville, ridotti pubblici, ed altre cose, che fia bello tacere, saranno gli oggetti principali, se non unici, della provvidenza amministrativa. E perciocchè la società per tali cose ha mestieri di molta pecunia, nè ha altre fonti da cavarla che i cittadini; tutta l'arte di un tal Governo consisterà, secondo il consiglio di Elvezio, nel saper far passare il denaro dalla borsa dei privati nelle casse dello Stato. Quindi un continuo speculare e architettare di leggi per accrescimento di dazii, d'imposte, di balzelli; sicchè si smunga il più che puossi, senza alcun riguardo di equità o di proporzione. La suprema scienza sarà l'economia politica, intesa non a coordinare e compartire, giusta i dettami della ragion sociale, ma solo a produrre e aumentare la pubblica ricchezza; e un lusso senza limiti sarà l'unico spediente pratico per allargarla ne' cittadini. Moltiplicate i bisogni e i mezzi da soddisfarli; ecco l'aforismo della sapienza civile di una tal società. Ogni bisogno soddisfatto apporterà un sentimento gradevole, e la somma de' sentimenti gradevoli costituirà la beatitudine umana. Quello che si richiede si è l'avere i mezzi da procurare indefinitivamente cotesta soddisfazione, e questi mezzi costituiscono la ricchezza. Ogni studio adunque ed ogni ingegno deve essere inteso a procurarla.
Dirai: ma il fine della società non è appunto la felicità temporale?
Sì, senza dubbio: ma cotesta felicità, acciocchè sia veramente tale, convien che non si disgiunga dall'ordine all'ultimo fine. Altrimenti ella non sarebbe bene dell'uomo; non potendo esser bene di una natura ciò, che non si coordina co' suoi supremi destini. La società ristretta, come dicemmo, a compiere la sua carriera quaggiù, non può certamente avere uno scopo, che esca fuori dei limiti della sua esistenza. Ella non può per conseguenza mirare direttamente, se non a un bene che di fatto si conseguisca quaggiù. Aggiungiamo anzi che essa non avendo a sua disposizione, se non i soli mezzi esteriori, quel bene stesso non può intendersi da lei, se non in quanto coi medesimi si proporziona. Quindi suol dirsi che scopo della società civile è l'ordine esterno, in quanto mena alla pace, al ben essere, alla prosperità dei cittadini. Ma questa pace, questo ben essere, questa prosperità, deve considerarsi in relazione al soggetto, di cui si tratta; e tal soggetto è l'uomo. Or poichè nell'uomo il temporale è ordinato all'eterno, e la vita presente all'avvenire; la società non può neppure capire qual sia il ben essere e la prosperità, a cui ella deve rivolgere le sue cure, se torce il guardo da quel supremo fine dell'uomo. Questa ragione, mentre dimostra che la società non può separarsi dalla Chiesa, la quale direttamente ordina e mena a quel fine; dimostra altresì la tesi nostra, che cioè: riguardato come ultimo fine degli associati il godimento sensibile, la società non può avere altro scopo, che di moltiplicarne i mezzi, e questi mezzi sono appunto la ricchezza: Nullum aliud propositum habere posse, nisi scopum comparandi cumulandique opes.

IV.

In una società, che non riconosce altro fine se non il godimento e la ricchezza, gli Ordini religiosi non hanno alcuna ragione di esistere.

Alcuni si prendono alta meraviglia nel vedere l'odio accanito, che la rivoluzione italiana professa agli Ordini religiosi; e la smania, onde è agitata di vederli finalmente spersi dal mondo. Altri, cercandone una ragione, credono averla trovata nella cupida brama, che la rivoluzione ha, d'impossessarsi dei loro averi; o nel timore d'averli avversarii ai suoi intendimenti politici. Noi crediamo che gli uni e gli altri vadano errati. Errano i primi, perchè, come vedremo, quell'odio ha manifesta e proporzionata cagione; e però non ci è luogo a doverne meravigliare. Errano i secondi, perchè le ragioni, che assegnano, benchè in parte sien vere, nondimeno non sono adeguate.
E per fermo, se il timore d'averli avversi alla loro propaganda politica, movesse i rivoluzionarii all'odio de' religiosi; essi lo restringerebbero a quei soli Istituti, i quali hanno ufficio d'insegnamento, di predicazione, di coltura di anime. Ma le famiglie puramente monastiche, i solitarii, i contemplativi, le vergini claustrali, a che fine perseguitarle? Che hanno essi ed esse a fare colla politica? Dalla comune dannazione adunque dovrebbero andare esenti, almeno i monisteri di donne, gli eremi camaldolesi o certosini, e in generale tutti quelli che, separati dal civile consorzio, attendono al solo culto di Dio e alla contemplazione delle cose celesti. Ciò non è. Dunque quella ragione, presa dalla politica, non è bastevole. Più appariscente è l'altra, dell'ingordigia cioè di occupare, come erede ab intestato, i patrimonii degli spenti sodalizii religiosi. Ma per quanto la fame di quest'antica lupa sembri dare qualche spiegazione di quel fenomeno; anch'essa nondimeno non basta. Imperocchè se la causa motiva dell'odio ai religiosi fosse la cupidità di rapirne le spoglie, la proscrizione non si estenderebbe agli Ordini mendicanti, che nulla posseggono; la soppressione de' quali aggrava anzi lo Stato, colle pensioni, quantunque tenui, da doversi retribuire ai loro componenti. La ragione adunque principalissima di quell'odio debbe essere più universale e più connessa collo spirito stesso della civiltà rivoluzionaria. Così è per l'appunto, e noi speriamo di porlo in chiarissima luce.
Scopo della rivoluzione si è il naturalismo politico, che essa intende sotto il nome di civiltà moderna, di emancipazione dello Stato dalla Chiesa, di autonomia del potere laicale. Ora il naturalismo politico, sciogliendo la società dai vincoli della religione, non riconosce altro fine per l'uomo che la beatitudine della vita presente nel godimento dei beni materiali; e quindi non può avere altro proposito, se non quello di procurare ed accrescere la ricchezza. Ciò fu dimostrato nei numeri precedenti. Fermato un tal punto, egli è evidente, che per una società, così costituita, gli Ordini religiosi sono un fuor d'opera, una incoerenza, un inciampo al libero svolgimento della civiltà. È questa l'illazione, che il Pontefice ci dichiara in quelle parole: Eapropter huiusmodi homines acerbo sane odio insectantur religiosas familias, quamvis de re christiana, civili ac litteraria summopere meritas, ed blaterant easdem nullam habere legitimam existendi rationem.
E vaglia il vero, ad una società che ha per iscopo il godimento e la ricchezza, qual prode posson recare la mortificazione e la povertà professata dai Cenobiti? Finchè la società era fondata nel Vangelo, gli Ordini religiosi non solo le apparivano venerandi, ma formavano parte integrante della sua civiltà. La ragione si è, perchè essi le apparivano come parte integrante della civiltà cristiana.
Cristo interrogato un dì in qual modo potesse l'uomo ben disporsi in ordine alla consecuzione della felicità sempiterna, rispose indicando due generi di vita: l'uno comune, l'altro di perfezione. Il primo essere posto nell'osservanza de' divini comandamenti: Si vis ad vitam ingredi, serva mandata; il secondo nell'abbandono del mondo e nella stabile sequela di lui: Si vis perfectus esse, vende quae habes, da pauperibus, et veni sequere me. La professione di questo secondo modo di vita costituisce lo stato religioso; il quale sotto varie forme fiorì sempre nella Chiesa di Dio. S'ingannano a partito coloro, i quali ne fissano l'origine al terzo o quarto secolo dell'èra cristiana. Esso ebbe per seme la parola di Cristo; e la parola di Cristo non potea rimanere sterile sì lunga pezza. Ben può dirsi che essa fruttificò immantinente, e che lo stato religioso prese inizio negli stessi Apostoli; i quali seguirono in modo perfettissimo la dottrina e gli esempii del Redentore: Ecce nos reliquimus omnia, et sequuti sumus te. D'allora innanzi questa professione di vita perfetta non mancò mai nella Chiesa, nè potrà mai venir meno; non potendo la parola di Cristo cessar mai d'esser feconda tra' suoi fedeli. Lo stato religioso, come insegna il Suarez, benchè non sia nella Chiesa de necessitate essentiae, è nondimeno de necessitate integritatis; come appunto all'interezza dell'albero appartengono le foglie e i frutti, benchè non ne formino la sostanza. Di qui è che una società, la quale si professasse cristiana e costruisse la sua civiltà sulle basi della dottrina evangelica, non potrebbe non accogliere ed avere in altissimo pregio gli Ordini religiosi. Di più, essa li avrebbe in pregio altresì per l'utile che ne proviene a rispetto dello stesso scopo civile. Imperocchè ravvisando ella gl'individui, a lei commessi, come ordinati ad un fine più alto, che non è il ben essere della vita presente, e nella troppo naturale e comune tendenza ad arricchire e godere riconoscendo un pericolo alla onestà dei costumi; gli Ordini religiosi le apparirebbero come un potente aiuto a far sì che la felicità temporale, a cui ella provvede, non degeneri in danno e pericolo della spirituale. Ci piace qui riferire un bel tratto del Padre Taparelli. Parlando egli della mortificazione cristiana; e come per essa la Chiesa è quel sale della terra, che preserva la nostra natura dalla corruzione, prosegue dicendo: «Così l'intendessero coloro, che talvolta inveiscono contro certe istituzioni di cattolica mortificazione e domandano a che serve la quaresima? a che l'astinenza dei Certosini e dei Minimi? a che la solitudine, la povertà, l'umiltà dei Camaldolesi e dei Cappuccini? A che serve? Serve a dimostrare al cristiano che vi ha una felicità fuor de' sensi, e maggiore della felicità de' sensi: serve a far sì che il cristiano arrossisca delle ricchezze, del fasto, della voluttà, anche quando la debolezza ve lo trascina ed incatena: serve a far sì che il povero, il tribolato vivano quieti nel loro travaglio, vedendo che altri abbandonano volontariamente le ricchezze e i piaceri, e lascino alla società quella pace che potrebbero intorbidare. Ecco a che servono cotesti esempii: essi sono un perpetuo protesto della virtù contro l'allettamento sensibile, di cui non può spogliarsi la volgar debolezza: essi le dicono che le viene permesso di usarlo per conforto, ma non di riposarvi per termine di sue brame. Questo, a dir vero, lo dice a lettere cubitali il Vangelo. Ma siccome ogni dottrina, giusta la bella osservazione del Balmes, allora soltanto entra nella realtà dell'ordine pratico, quando s'incorpora in una istituzione; anche la mortificazione, la carità, la povertà, l'umiltà del Vangelo doveano perpetuarsi per mezzo di qualche istituzione. Or questo appunto sono gli Ordini religiosi: sono istituzioni che attuano le più ardue dottrine del Vangelo, le rendono persuasive e facili coll'esempio, e fanno sì che molti le abbraccino, benchè la discretissima autorità della Chiesa a niuno le imponga [4]
Tutto ciò avrebbe luogo, quando la società riconoscesse come norma suprema dell'operare umano il Vangelo, come ministra e promotrice di vera civiltà la Chiesa; e però coll'uno e coll'altra intendesse di procedere in alleanza. Ma una società tale sarebbe una società da medio evo, una società non ancora illustrata dai lumi del progresso, una società da far afa ai nostri rigeneratori, una società in somma fuori al tutto dell'ipotesi, della quale stiamo ragionando. Noi stiamo ragionando di una società, la quale prescinda dal Vangelo e dalla vita avvenire, si separi del tutto da ogni relazione colla Chiesa, si restringa nei puri termini della natura e della ragione. Cotesta società, come vedemmo, non può guardare nell'uomo altro fine, salvochè il godimento sensibile, nè avere altro proposito se non quello di procurare ricchezze. Ora gli Ordini religiosi non giovano nè all'uno nè all'altro di questi fini. Essi dunque per lei non hanno ragione di esistere, siccome inutili. Anzi, se vogliamo spingere il principio alle ultime conseguenze, essi sono degni di pena e di esterminio, siccome rei di lesa civiltà; giacchè non solo non promuovono ma contrastano lo scopo sociale. E veramente se lo scopo sociale è la ricchezza a fine di procurare sollazzi e la maggior somma possibile di godimenti; chi non vede che la pubblica professione di povertà, di continenza assoluta, di gastigamento del corpo, diviene uno scandalo, un rattento al progresso, un attentato al comun bene? Nè queste sono nostre inferenze; ma le professano spiegatamente i dottori stessi di quella teorica sociale. Il Bentham, filosofo inglese, che intendendo benissimo la civiltà del proprio paese, ne sillogizzò a fil di logica la morale, dopo avere stabilito che la felicità non è altro che una somma di piaceri, annovera tra i delitti di prima classe i digiuni, la continenza soverchia, le macerazioni della carne; e tra quelli di seconda classe le privazioni e le pratiche ascetiche, il soggiornar per voto in un convento, o andar per voto in pellegrinaggio [5].

V.

La società per tal via riesce a degradamento brutale.

Non si viola impunemente l'ordinazione divina. All'individuo prevaricatore è riserbato l'inferno; alla società, che vive solo nel tempo, è retribuita la rispondente pena nella vita presente. Qual sarà questa pena? Per quae peccaverit homo, per haec et punietur; è comminazione, che tocca non solo i privati ma ancora gli Stati. La Società pretendeva per quella via di giungere ad un'altissima perfezione; ed essa per contrario precipita in basso, fino a pareggiare la condizione dei bruti. E veramente che cosa costituisce il bruto? Il non avere altra regola nel suo operare, che l'istinto sensibile. A questo stesso si riduce la società, col riguardare come supremo fine dell'uomo il godimento. Al godimento tende la bestia; al godimento tende l'uom sociale del moderno progresso. Che se ci ha differenza, atteso il lume di ragione, onde l'uomo è dotato; una tal differenza torna anzi in suo disfavore. Imperocchè il bruto, incapace di reggere sè medesimo, è retto ne' suoi appetiti dall'arte divina, la quale pone misura e limiti negl'istinti animaleschi. Ma l'uomo, che pel celeste dono dell'intelletto e della volontà era destinato a compiere da sè in sè stesso un tanto ufficio, si disordina orribilmente, cadendo in balìa de' sensi non imbrigliati da verun freno. Una mandria di animali, con la ragione a servigio de' sensi; ecco la società separata da Dio e dalla Chiesa. Ma queste bestie sociali stessero almen serene e tranquille! Tutt'altro. Esse sono in perpetua agitazione e guerra tra loro: Silva frementium bestiarum. La ragione si è, perchè tutti aspirano ad un bene, che non può conseguirsi da tutti, ma sol si conseguisce da alcuni per privazione degli altri. La ricchezza non si forma altrimenti, che accumulando in uno ciò che potea spargersi tra molti; e questo cumulo stesso è frutto della fatica incessante di molte braccia. Acciocchè dunque in una società ci sieno ricchi, è necessario che ci sieno poveri; e acciocchè ci sieno gaudenti, è necessario che ci sieno tribolati. Figuratevi qual pace e qual contento dovrà regnare tra questi, quando, rimossa ogni influenza di religione, ciascuno agogna di godere e conseguentemente di trasricchire! Converrà che si azzannino a vicenda, e, dove non possano, attendano frementi l'ora propizia. È questa la sorte d'una società, i cui membri più non riconoscono la legge dello spirito,

Seguendo come bestie l'appetito.
 

NOTE:

[1] Ecquis non videt planeque sentit hominum societatem, religionis ac verae iustitiae vinculis solutam, nullum aliud profecto propositum habere posse, nisi scopum comparandi cumulandique opes, nullamque aliam in suis actionibus legem sequi, nisi indomitam animi cupiditatem inserviendi propriis voluptatibus et commodis? Eapropter huiusmodi homines acerbo sane odio insectantur religiosas familias quamvis de re christiana, civili ac litteraria summopere meritas, et blaterant easdem nullam habere legitimam existendi rationem. Enciclica del S. Padre, Pio Papa IX, 8 Dicembre 1864
[2] Opere, l. 1, pag. 10.
[3] Ivi, pag. 166.
[4] Saggio teoretico di diritto naturale, Roma 1855, vol. I, pag. 592.
[5] Opere, tom. I, p. 39 e 320.