venerdì 28 settembre 2012

Il rischio dell’anglicanizzazione per la Chiesa cattolica

Nel suo romanzo a forte tinte autobiografiche, “Perdita e guadagno” (1848), il Cardinale John Henry Newman, famoso convertito dall’anglicanesimo e membro di spicco della Chiesa cattolica in Inghilterra, narra la conversione di un giovane studente di Oxford. Attraverso fitti dibattiti teologici ed esperienze illuminanti, il giovane Charles Reding approderà alla fede di sempre capendo l’inconsistenza e la frammentazione dottrinale della chiesa nazionale inglese. Sebbene il pensiero teologico di Newman, molto complesso nella vastità dei suoi scritti, presenta notevoli punti di rottura con la scolastica e la teologia di sempre della Chiesa – in questo senso davvero un padre del Concilio Vaticano II – nel libro il cardinale ci mostra un ritratto dell’anglicanesimo ottocentesco davvero simile al cattolicesimo odierno. Una Chiesa che ha ormai perso qualsiasi punto di riferimento, qualsiasi “centro”, e anche la figura del Papa rimane sbiadita sulla sfondo di un particolarismo teologico davvero disarmante. Una Roma in cui convivono oggi opinioni contraddittorie ed erronee.

In questo brano Charles discute con il proprio tutor, Mr. Vincent, dopo aver assistito ad un sermone davvero poco condivisibile:
«In buona sostanza, il mio consiglio è che lei prenda quel che c’è di buono nei suoi sermoni, senza legarsi a quello che c’è di cattivo. ln faccende del genere, Mr. Reding, la regola d’oro, anche se ovvia, è questa».
Charles rispose che Mr. Vincent sopravvalutava le sue capacità; prima di poter giudicare doveva imparare; voleva sapere se Vincent poteva indicargli un libro che gli dicesse con precisione quale fosse la dottrina della chiesa anglicana su una serie di punti che non gli erano per niente chiari.
Mr. Vincent gli rispose che doveva stare attento a non disperdere la mente con letture del genere, proprio quando i suoi doveri accademici avevano la precedenza assoluta. Doveva tenersi alla larga dalle controversie del momento, dagli autori alla moda. Gli consigliava di non leggere nessuno degli autori viventi. «Legga solo i morti», continuò; «i morti sono sicuri. I nostri grandi teologi», e si rizzò in piedi, «quelli sì che erano modelli; “c’erano giganti sulla terra in quei giorni”, come una volta ebbe a dire di loro re Giorgio III rivolgendosi al Dr Johnson. Avevano profondità, forza, gravità, ricchezza ed erudizione; ed erano così vigorosi, vigorosi sempre, così inglesi. E che ricchezza, quali autentiche miniere di pensiero, e quale vastità di opinioni, e che menti attive, inesauribili eppure diverse. E poi l’eloquenza, così maestosa in Hooker, immaginativa in Taylor, e brillante in Hall; e poi Barrow così dotto, South col suo forte senso pratico, Chillingworth dalla logica tagliente, Burnett così buono e onesto», ecc. ecc.
Sembrava che non dovesse più fermarsi; e invece, si fermò. D’accordo, era prosa, ma una prosa che a Charles piaceva. Questi autori li conosceva poco, quel tanto che bastava a creargli quel certo interesse che provava ora che ne sentiva parlare; anzi aveva l’impressione che Vincent dicesse molto, quando in realtà diceva ben poco. Quando si fermò, Charles disse che nell’università c’era qualcuno che promuoveva lo studio di questi autori.
Mr Vincent si fece serio in volto. «Vero», disse, «ma, amico mio, le ho già fatto capire come certe cose neutre vengano distorte e piegate a servire finalità di parte. In questo momento i nomi dei nostri teologi maggiori servono solo da parola d’ordine per indicare le opinioni di persone del giorno d’oggi».
«Opinioni che non si trovano in quegli autori, o sbaglio?», rispose Charles.
«Non dico questo», disse Mr. Vincent. «Io queste persone le rispetto, anzi dico che hanno fatto del bene alla nostra Chiesa attirando l’attenzione di questi tempi così rammolliti all’antica teologia della Chiesa d’Inghilterra. Ma una cosa è essere d’accordo con queste persone, e un’altra cosa, ben diversa», e intanto mise la mano sulla spalla di Charles, «è appartenere al loro partito. Non permetta a nessuno di diventare il suo padrone; prenda il bene da tutti; pensi bene di tutti e sarà un uomo saggio».
Reding chiese timidamente se questo non fosse più o meno quello che aveva detto il Dr. Brownside dal pulpito dell’università; o forse il predicatore intendeva in un altro senso il principio della tolleranza delle opinioni? Mr. Vincent tagliò corto: non aveva sentito il sermone del Dr. Brownside; comunque, lui aveva parlato soltanto di persone della nostra stessa comunione.
«La nostra Chiesa», disse, «ammetteva al suo interno la più ampia libertà di pensiero. Perfino i nostri teologi più grandi dissentivano fra di loro su molte questioni; anzi, il vescovo Taylor dissentiva persino da se stesso. Ecco il grande principio della Chiesa inglese. I suoi figli veri sono d’accordo nel dissentire. In verità», continuò, «c’è nella mente inglese un’indipendenza robusta, maschia e nobile, che si rifiuta di legarsi a formule artificiose; per me è come un prodotto della natura, bello e straordinario, un albero con i rami robusti e frondosi, ben diverso dalla pianticella malata della serra e dal rampicante che pende dal muro dell’orto: nella sua magnificenza e spontaneità esso lascia cadere i frutti sul terreno sgombro, perché ne mangino e godano gli uccelli dell’aria, gli animali dei campi e il bestiame».
Quando venne via, Charles cercò di soppesare che cosa aveva guadagnato dalla conversazione con Mr. Vincent; non esattamente quello che voleva, regole pratiche che gli guidassero la mente e gli dessero stabilità; solo suggerimenti, peraltro utili. Era sempre stato nemico dei partiti, e si sentiva offeso da quello che vedeva in certi individui legati a loro. Vincent lo aveva rafforzato nella decisione di tenersi alla larga, e di badare soprattutto ai suoi doveri accademici. Era contento di aver avuto quel colloquio; ma perché lo aveva sospettato di avere la tendenza a spingersi troppo in là, e quindi ad impegolarsi con un partito? Doveva rassegnarsi a non saperne nulla e accontentarsi di stare più attento in futuro. 
 
(J. H. NEWMAN, Perdita e guadagno, Milano, Jaca book, 1996, pp. 110-113)